venerdì 26 giugno 2015

Susy Esposito: mio figlio, Antonio Barbatelli, poteva essere salvato!


Oggi voglio raccontarvi una storia che, ancora una volta, potrebbe diventare la storia di chiunque, anche se preferiremmo non pensarlo.
È il 24 agosto 2011, una calda sera d’estate come tante, in una Napoli che si sta, pian piano, rimettendo in moto, dopo le ferie di Ferragosto. Quando Susy, passata l’ora di cena, non vede rientrare a casa suo figlio Antonio, si preoccupa subito. Perché non tutti i ragazzi di vent’anni sono soliti non accorgersi del tempo che passa, pensando solo a girovagare con gli amici. Non tutti fanno cose che non si dovrebbe, tenendole nascoste alle proprie famiglie o smaniano per allontanarsi da casa senza un motivo. E Antonio è uno di questi ragazzi. Timido, responsabile, preciso. Susy sa che è andato a correre nel Bosco di Capodimonte, a qualche chilometro da casa, perché Antonio è un amante dello sport e della natura e, anche d’estate, si tiene in forma. Prima di uscire, era così tranquillo, da lasciare perfino il telefonino a casa, per poter correre più liberamente.
Quando il ritardo di Antonio aumenta, Susy non ci pensa due volte e chiede aiuto alle forze dell’ordine. Vuole fare una denuncia di scomparsa, vuole che qualcuno l’assista nelle ricerche di Antonio, poiché, se ancora non è tornato a casa, gli è successo qualcosa. Perché non tutti i ragazzi di vent’anni devono, per forza, allontanarsi volontariamente, desiderosi di far baldoria da qualche parte, senza dirlo a nessuno. Forse Susy non lo sa, ma il suo istinto di mamma le sta facendo mettere in pratica un principio molto intuitivo: di fronte a un fenomeno apparentemente inspiegabile, l’ipotesi migliore è quella più semplice, la più immediata. Questo è il cosiddetto Rasoio di Occam, che tutti i buoni investigatori conoscono bene. Se Antonio non è tornato, data la sua indole serena e la sua vita apparentemente tranquilla, gli è successo qualcosa che gli impedisce di fare ritorno a casa.  
Ma, ahimè, le ore passano, per fare la denuncia è troppo tardi, bisogna aspettare la mattina successiva e che trascorrano ventiquattro ore. Inoltre il Bosco di Capodimonte è chiuso, sarà difficile far aprire i cancelli per iniziare le ricerche quella notte stessa. Tutti affermano e si augurano che Antonio sia in giro. Non può essergli accaduto nulla.
Quando alla fine, nella notte, Susy e la sua famiglia riescono ad entrare nel Bosco, scortati dalle forze dell’ordine, le ricerche sono superficiali perché il buio non aiuta e non riescono a trovare nulla. La notte passa senza nessuna notizia. Il corpo senza vita di Antonio viene ritrovato il giorno dopo, in fondo a un dirupo in uno dei sentieri meno battuti del Bosco di Capodimonte. Ha ancora gli occhi incrostati di lacrime. Dall’autopsia risulta essere spirato molte ore dopo la caduta, a causa del trauma. Un incidente? Una rapina finita male? Sarà banale dirlo, ma forse poco importa. Susy Esposito, la mamma di Antonio Barbitelli, non riesce a smettere di domandarsi se Antonio potesse essere salvato, se si fosse intervenuti più celermente, in modo più efficace.
È una storia difficile, lo so. Di quelle che non puoi limitarti a leggere sui quotidiani per qualche giorno e poi su una rivista consumata, dal parrucchiere. È una storia di quelle che, stupidamente, non racconteremmo ai nostri ragazzi, per paura di turbarli inutilmente, non pensando che saranno loro gli uomini del domani. Perché la cosiddetta disgrazia può accadere davvero a chiunque. E in uno Stato di Diritto come il nostro deve esserci una Cultura dell’Emergenza. Dobbiamo essere, pronti, abituati, educati e non increduli, impigriti, impreparati.
Molto spesso, di fronte a un caso di scomparsa, pensare ad un allontanamento volontario non è l’ipotesi più semplice, come diceva Occam tanti e tanti secoli fa. È solo l’ipotesi più facile. E, si sa, percorrere piste facili ogni tanto porta in vicoli ciechi, dai quali non si può più uscire, come nel caso di Antonio. Abbiamo un apparato di Forze dell’Ordine e di Protezione Civile le cui potenzialità sono immense e tanti giovani, che credono fermamente in questi Enti, dedicherebbero loro la vita. Abbiamo un Sistema Giudiziario Garantista e una Costituzione i cui Principi sono più studiati all’estero, che in Italia, per la loro estrema importanza e modernità: dobbiamo solo metterli in atto più efficacemente. Dopo la promulgazione della Legge 14/11/2012 n. 203, “Disposizioni per la ricerca delle persone scomparse”, qualcosa è cambiato: chiunque può denunciare l’allontanamento di una persona, quando ritiene che dalla scomparsa possa derivare un pericolo per l’incolumità della persona stessa e l’avvio delle ricerche deve essere immediato, tanto per i minorenni, che, se ritrovati, sono ricondotti dai genitori, quanto per i maggiorenni. Ma, nonostante questo importante traguardo, il cammino da percorrere verso la cultura dell’emergenza è ancora lungo. Dobbiamo fare in modo, tutti insieme, che la storia di Antonio smetta il prima possibile di diventare la storia di chiunque.

Ciao Susy. Ti ringrazio di aver trovato la forza di condividere con tutti noi il tuo dolore. Chi era Antonio e chi è oggi? Raccontaci la sua storia.

Mio figlio aveva appena compiuto vent’anni. Ricordo che facemmo una piccola festicciola in casa e gli preparai una torta. Era un ragazzo molto responsabile e maturo per la sua età. Essendo l’unico figlio maschio, si sentiva responsabile per me e per le sue sorelle ed era sempre molto premuroso con noi. Durante quel mese di agosto del 2011 avevamo passato molte giornate insieme: Antonio era molto legato alla famiglia e amava trascorrere anche il suo tempo libero con noi. Era un giovane sensibile e ancora ingenuo per certi aspetti, riservato, ma anche socievole quando superava il muro della timidezza. Adorava i videogiochi ed era uno sportivo. Ci teneva a mantenersi in forma e a seguire una dieta adeguata. Amava la natura e faceva spesso jogging, anche nel Bosco di Capodimonte, e lunghe passeggiate. Era generoso e giocherellone e quando c’era da aiutare un amico non si tirava mai indietro.
Quel 24 agosto faceva davvero molto caldo, così Antonio decise di uscire nel tardo pomeriggio per andare a correre al Bosco di Capodimonte e passare al supermercato per alcuni acquisti. Aveva con sé venti Euro circa. Quella è stata l’ultima volta che l’ho visto vivo.
Di solito non rientrava più tardi delle venti e trenta, era molto preciso e puntuale. L’unica leggerezza che commise quel giorno fu di non portare con sé il telefono cellulare. Intorno alle nove, non vedendolo rientrare, le mie figlie ed io ci preoccupammo subito, perché non era da lui fare tardi senza avvisare. Dento di me ebbi come una premonizione, mi sentii mancare, come se avessi la certezza che gli stava accadendo qualcosa. Così decisi di uscire assieme alla mia figlia maggiore e ci dividemmo per cercarlo: lei si diresse verso la zona del Bosco, dove sapevamo che si era recato, e io andai a chiamare il padre di Antonio, perché ci aiutasse.
Di Antonio non c’era traccia, così, verso le ventidue, decidemmo di andare a fare la denuncia di scomparsa, ma la risposta che ricevemmo fu che dovevano trascorrere ventiquattro ore prima di intervenire e riuscimmo a fare solo una segnalazione ai Carabinieri. Verso le ventitré eravamo disperati e stabilimmo di andare tutti insieme, personalmente, al Bosco per vedere cosa si potesse fare, ma i custodi del parco non volevano farci entrare senza la presenza delle forze dell’ordine.
Il tempo passava, ormai era quasi mezzanotte. Quando, dopo tanti tentativi, ci raggiunsero i Carabinieri, i custodi del Bosco ci permisero di entrare a perlustrare il parco, ma non riuscimmo a trovare nulla. Era molto buio e le torce che i Carabinieri avevano portato con loro si scaricarono quasi subito, così dovemmo desistere.
La mattina dopo ci avvisarono che qualcuno aveva ritrovato Antonio senza vita in un dirupo in un uno dei sentieri secondari del parco. Era precipitato. Una parte di me è morta con lui quel giorno.
La zona dove è stato ritrovato il corpo di Antonio era già stata interdetta in precedenza dai Beni Culturali, perché considerata zona a rischio, solo che non era chiusa al pubblico. C’era solo un cartello che segnalava la pericolosità di quel tratto. Le recinzioni, per impedire l’accesso in quel punto, sono state messe dopo la morte di mio figlio. Antonio conosceva bene i sentieri più battuti del Bosco, ma, forse, correndo, quel giorno ha deciso di fare un percorso diverso, senza accorgersi del cartello. Il sentiero era ricoperto da un tappeto di edera che non permetteva di vedere il vuoto del dirupo, proprio là sotto, e, magari passandoci sopra, mio figlio è caduto sotto il suo stesso peso. Ci domandiamo anche se era solo o magari qualcuno può averlo aggredito o spinto. Forse hanno provato a rapinarlo e lui ha tentato di difendersi e per questo è caduto. In effetti, quando è stato ritrovato, non aveva più né i soldi, né la collana che aveva sempre al collo. Ma queste sono solo le congetture e le supposizioni di chi non sa darsi pace: purtroppo non saprò mai come sono andate realmente le cose quel giorno.
Io sono molto arrabbiata. Non so se Antonio si sarebbe salvato, se mi avessero dato ascolto quella notte, ma almeno lo avremmo soccorso. Avremmo provato a fare tutto il possibile e non sarebbe morto solo. Lo hanno ritrovato con le mani al petto e ancora le lacrime agli occhi. Ci avrà chiamato, in cerca di aiuto? Avrà avuto paura? Il dubbio che, se lo avessimo trovato subito, si sarebbe potuto salvare mi accompagna ogni istante della mia vita. Nessuno potrà mai restituirmi mio figlio, ma speriamo che la giustizia faccia il suo corso e punisca chi doveva vigilare sulla sicurezza dei luoghi dove si è consumata la tragedia di Antonio. Noi non ci arrendiamo.
Quando arriva il periodo estivo per me è una tortura. Perdere un figlio, per una madre, è una cosa innaturale, ma perderlo nelle circostanze in cui è accaduto a me è particolarmente straziante e ogni giorno che passa è sempre peggio. Antonio era così giovane, aveva una vita da vivere e tanti sogni da realizzare. Io sono una cittadina onesta come tante e nessuno ha ascoltato il mio grido di aiuto quando ne ho avuto bisogno: questa è la cosa che mi fa soffrire maggiormente. In quel momento di emergenza e difficoltà ero sola e mi sentivo abbandonata. Non ero in grado di salvare mio figlio da sola e nessuna delle Istituzioni mi ha sostenuta come avrebbe dovuto. Bisogna continuare a lottare perché questi episodi non si ripetano.

Solo la Fede, al momento, mi sta aiutando a non arrendermi. Credo nella Vita Eterna e so che Antonio adesso si trova in un posto migliore ed è finalmente sereno e libero da sofferenze. Sopravvivo solo per le mie tre figlie, che devono vedermi forte e tutto il coraggio che mi resta lo spendo per loro, con tutto l’aiuto di Dio. 

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