martedì 9 giugno 2015

Gianluca Marasca: cosa sono i Disturbi dell’Apprendimento nei bambini e come affrontarli

Camila Leon

Se, come ci insegnano a scuola, ogni parola ha il proprio significato, dovremmo smettere di chiamarli Disturbi dell’Apprendimento o, più comunemente DSA, e iniziare a chiamarle semplicemente difficoltà. Perché i cosiddetti disturbi sembrano quasi un marchio a fuoco, destinato difficilmente a risolversi e che rischia di segnare un bambino per sempre nel suo percorso scolastico, rendendolo tortuoso e impervio. Mentre le difficoltà, sia i bambini, sia gli adulti, possono e devono affrontarle. Possibilmente insieme, facendo gioco di squadra tra loro e con la scuola e gli esperti che possono aiutarli. Solo così le difficoltà si superano davvero. Ma cosa sono realmente i DSA? E come possono essere affrontati dai genitori senza essere ingigantiti inutilmente? Ce lo spiega Gianluca Marasca, Dottore in Fisioterapia e specializzato in Riabilitazione Neurocognitiva dell’età evolutiva. Secondo Marasca ogni bambino ha una sua personalissima storia che va studiata e conosciuta nello specifico e con grande attenzione, giacché non è sufficiente affidarsi ai soli test in grado di diagnosticare le specifiche difficoltà. Esperto nello studio del legame corpo-apprendimento e nell’utilizzo degli albi illustrati come supporto per comprendere meglio i pensieri e le esperienze dei piccoli pazienti, Gianluca Marasca mette a nostra disposizione la sua professionalità, spiegandoci, con parole semplici, come imparare a interagire coi nostri bambini, dopo aver conosciuto le loro storie interiori.

Quali sono i più comuni disturbi dell’apprendimento nei bambini e nei ragazzi in età scolare? E quali quelli meno diffusi e più difficili da diagnosticare?

Diciamo che ci sono delle differenze fra noi e i paesi anglosassoni. Io ho un punto di vista che deriva dai nostri studi e dalle nostre ricerche di carattere nazionale. I più comuni disturbi dell’apprendimento sono quelli legati alla letto-scrittura, ma io inserirei prepotentemente anche le difficoltà nell’acquisizione del linguaggio, le disprassie, ovvero quelle difficoltà legate maggiormente alla relazione con gli oggetti e gli strumenti e quelle legate alle relazioni con il mondo e con gli altri (che danno origine a quelle difficoltà chiamate tecnicamente difficoltà dello schema corporeo e/o della coordinazione motoria, insomma i bambini goffi, per farla semplice).
Nei DSA non ci sono deficit neurologici o ipoacusici o di ipovisione, altrimenti le difficoltà negli apprendimenti sarebbero secondarie ai problemi primari: esempio ho un deficit dell’udito quindi mi è quasi impossibile fare una trasformazione fonema-grafema, ovvero dalla parola che sento, al segno grafico.
Cerco di rendere le cose semplici, anche se sono molto più complesse.
In Italia si diagnosticano i comuni DSA a partire dalla prima elementare (di solito gli allarmi avvengono nel secondo quadrimestre, anche se insegnanti molto attenti, scrupolosi e bravi se ne accorgono dopo il primo mese di scuola).
Ovviamente queste difficoltà emergono perché emergono quadri o livelli di apprendimento più specifici per cui è più facile notare il gap, la differenza fra un bambino che scrive abbastanza bene e un altro che ci impiega tempi enormi per ricopiare una paginetta di A o di sillabe ecc. L’aspetto “produttivo” è il focus nei DSA.
Per rispondere alla seconda parte della domanda: la maggior parte della testistica si orienta verso il risultato, il prodotto finale, e trascura, ovviamente e per me purtroppo, i metalivelli di apprendimento. Quindi quelli meno diffusi o difficili da valutare sono proprio i metalivelli, le aree di sviluppo prossimale o potenziale, cioè come quel bambino, con la sua specifica storia, in quel momento, “muove” i suoi processi cognitivi: attenzione, percezione, linguaggio, problem solving.
Ad esempio: oggi Paolo non riesce a scrivere e ha difficoltà di ortografia, ma non sappiamo come si è organizzato il suo cervello o come si organizzerà nei mesi successivi, non sappiamo che tipologia di esperienze Paolo ha fatto quando era più piccolo, non sappiamo se ha avuto traumi, ospedalizzazioni, otiti ricorrenti, difficoltà emotive e così via, insomma della storicità del piccolo Paolo non sappiamo nulla, ma i test, che io odio, ci dicono che non sa leggere una parola o che il suo vocabolario non contempla mille parole ma solo cento, oppure che, impugnando male la penna o la matita, ovviamente, ha un gesto grafico faticoso e illeggibile. La scrittura, fondamentalmente, ci serve per rilevare le informazioni e rileggerci.

Quali sono i campanelli d’allarme che devono allertare famiglie e scuole? Cosa bisogna fare immediatamente?

Bella domanda, molto complessa. Detto fra noi e a beneficio di chi ci legge, la maggior parte dei disturbi dell’apprendimento nasce nelle difficoltà legate alle emozioni, alle separazioni, ai traumi, alle relazioni dei genitori di quei bambini in difficoltà e il prodotto che si vede alla fine è che il bimbo in questione non sa leggere, non sa scrivere e via dicendo.
Di solito i genitori sono totalmente immersi nella relazione col proprio figlio che non vedono o fanno finta di non vedere, da qui la grande responsabilità dell’insegnante.
Io, ad esempio, ho iniziato un programma di supervisione già dalla primissima infanzia, nelle materne o nei nidi. Osservare un bambino in quei contesti è predittivo delle “competenze” future.
Il gioco è il mezzo che sfrutto durante la terapia: mi muovo intorno a quello che i bambini fanno o vogliono fare o, in certi casi, non fanno. Sono tutte informazioni utilissime.
La maggior parte di queste difficoltà sono appunto nelle “relazioni” e non specifiche di una competenza non appresa in quel momento a scuola. Se un genitore non ha mai giocato col proprio figlio questo si riverbererà sulle relazioni sociali future, sulle relazioni con gli strumenti operativi e primariamente sui processi cognitivi e adattivi di quel bambino. La faccio semplice anche se la questione è molto complessa, naturalmente.
Detto ciò, basta osservare un bambino in mezzo agli altri: si isola, si relaziona solo con se stesso, non gioca, gioca solo con un bambino, gioca o piange solo con la maestra, gioca con tutti, è sereno, come gioca, con cosa gioca o non fa proprio nulla: questi sono i segnali da osservare e cogliere.

Che funzione ha la terapia con uno specialista in questi casi? Può essere considerata una cura?
Noi non siamo specialisti e neanche tuttologi, ma abbiamo le competenze per lavorare col bambino a livello multidimensionale: non separiamo i processi cognitivi da quelli prettamente somatici sensoriali, non separiamo il linguaggio dal gesto (il gesto è la parola), il motorio dal cognitivo ecc.
Non si tratta di cura, ma di un percorso verso una nuova riorganizzazione. Un vero e proprio viaggio…

Che ruolo può, o potrebbe svolgere, la scuola? Cosa devono pretendere le famiglie dal sistema scolastico e quali difficoltà potrebbero incontrare?

La scuola, come è pensata e organizzata oggi, non può fare molto, purtroppo. I tempi, i costi, i numeri vengono considerati più importanti del singolo bambino. Sarò laconico: la scuola va ripensata. I numeri vanno ripensati e, soprattutto, le competenze e/o intelligenze vanno rimodulate.
Ogni bambino è completamente diverso da un altro, perché la sua storia è diversa dalla storia di un altro.

Raccontaci un episodio, un aneddoto, una storia che, in questi anni di professione, è rimasta particolarmente impressa nella tua memoria.

Gabriele viene da me nell’ultimo anno di materna, prima dell’inizio dell’asilo. Mi viene descritto come un bambino chiuso, con difficoltà nel gioco e difficoltà prassiche. Ha un linguaggio adeguato, ma emotivamente sembra isolato.
Lavoriamo moltissimo con gli albi illustrati, dei supporti che utilizzo molto spesso e nei quali mi sto specializzando e, dato che mi piace raccontare storie ai bambini, è un esercizio che propongo sempre. Se la lettura dell’albo è stata piacevole o entusiasmante, provo a calzare degli esercizi prettamente neurocognitivi (sfrutto la percezione e l’attenzione sul corpo) e parto da lì.
Gabriele e io stiamo insieme una volta la settimana per circa tre o quattro mesi, un periodo relativamente breve dal nostro punto di vista.
La mamma, oggi, a distanza di un anno, mi ha mandato un video dove lui organizza teatrini, li costruisce con le proprie mani, racconta storie, è molto divertito. Ma, soprattutto, la mamma mi ha detto che di me Gabriele ha un bel ricordo e pensa al mio studio come al posto più bello al mondo dove giocare e questo, oltre a farmi piacere, mi commuove davvero.

Ne potrei raccontare tante di storie, ma questo è l’emblema di quello che io vorrei che i bambini e i genitori percepissero del mio lavoro: poco importa che oggi un bambino impugni meglio una penna o legga più veloce intonato e bla bla bla, vorrei bambini sereni, felici di condividere con gli altri le loro emozioni. Solo così si impara davvero qualcosa.

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