Chissà se, quando ha scelto il nome del
protagonista delle sue storie, lo scrittore Marvin Menini intendeva già tracciarne l’indole assegnandogli un
cognome allegorico, in un certo senso, metaforico. Il giornalista Matteo De
Foresta, infatti, ha una personalità complessa come un fitto bosco in cui
sentieri disordinati si intersecano in continui crocicchi ai quali è difficile
scegliere quale via percorrere e il sole fende rami e foglie solo in alcuni
punti, entrando di traverso in un buio a suo modo rassicurante.
In “I
morti non parlano”, Fratelli Frilli
Editori, Marvin Menini, medico di professione, scrittore per passione,
riprende le fila dell’indagine precedente, già conclusa da Matteo De Foresta,
ma che, come un Pollicino dalle mani
insanguinate, aveva già lasciato le prime briciole da seguire per addentrarsi
in un’avventura ancor più pericolosa. La particolarità dello stile dell’autore,
infatti, sempre scorrevole e diretto, caratterizzato da fitti dialoghi e un
tempo verbale coniugato al presente, che rende ancora più viva la narrazione, è
il filo conduttore che lega tutte le indagini del protagonista. Sebbene ciascun
libro sia autoconclusivo, si percepisce, più che in altre serie, l’evoluzione
del personaggio principale, non solo come investigatore e, in questo caso,
giornalista, ma anche come uomo, tanto lucido da prendere istantaneamente le
decisioni più giuste nel proprio lavoro, quanto confuso e apparentemente
immobile nella sua vita privata, in balia delle scelte altrui.
Infatti, se, da un lato, De Foresta è
chiuso in una morsa che, in quest’avventura, lo vede braccato sia dalla
Polizia, sia dalla Mafia, nel disperato tentativo di scagionare l’amico
vicequestore Guido Rocchetti, latitante accusato di essere colluso, dall’altro,
ha un cuore diviso a metà, tra la compagna Barbara e il desiderio di essere un
padre migliore per sua figlia, e l’amante Clara e il brivido che porta la sua
conquista. A ciò si affianca un lavoro che Matteo ama profondamente e che poco
ha a che vedere con la scrittura seduto dietro una scrivania di redazione,
visto che lo vede sempre in viaggio, tra Genova, la sua città, e chissà quale
altra parte del mondo.
Tra indizi imperscrutabili, tradimenti
inaspettati e un finale alla polvere da
sparo che mette tutto tranne la parola ‘fine’, non ci resta che attendere
la prossima avventura di De Foresta per capire meglio quale sarà il destino del
nostro giornalista, perché questa
storia si legge troppo in fretta e ha
tutta l’aria di essere solo l’inizio di qualcosa
di ancor più spettacolare.
C’è
un nuovo mistero da risolvere per il giornalista Matteo De Foresta: un’indagine
al cardiopalma, tra Polizia e Mafia, nel tentativo di salvare un amico in
pericolo e, forse, di non pensare alla confusione del suo cuore diviso a metà.
Raccontaci la genesi di questa quarta
avventura del tuo protagonista così amato dal pubblico, “I morti non parlano”,
Fratelli Frilli Editori: cosa ti ha ispirato durante la stesura?
Ciao Alessandra, grazie per questa
intervista che mi fa molto piacere.
Quando scrivo, in realtà, parto da
un'immagine, una scena, a volte una canzone, oppure una parola. Ecco, in questo
caso è stata proprio una parola a far nascere la nuova avventura di Matteo.
Stavo terminando il romanzo precedente, “I Delitti dei Caruggi”. Uno dei
protagonisti di quel romanzo, Bob, muore dicendo a Matteo una parola:
Wehrmacht.
Devo farti una premessa: non sono quel
tipo di scrittore che pianifica prima la trama, di solito scopro se l'assassino
è il maggiordomo a metà della prima stesura. Spesso i protagonisti delle mie
storie si muovono in autonomia e a volte sorprendono anche me con ciò che fanno
o dicono. È stato proprio il caso di Bob: quando ha detto “Wehrmacht” mi sono
domandato per quindici giorni buoni che cosa volesse dire. E quando l'ho
scoperto mi sono reso conto che c'era tutto un romanzo da scrivere proprio su
quella parola.
Che
scrittore sei? Quando e da dove nasce la tua esigenza di scrivere e come la
concili con la tua professione di medico? Segui l’ispirazione o hai un metodo
ben preciso al quale non sai rinunciare?
Ho sempre scritto, fin da bambino. Quando,
a undici anni, ho letto “Il signore degli anelli” per la prima volta ho
cominciato a riempire i miei diari scolastici di racconti brevi ispirati al
mondo fantasy. Poi, da lì, ho proseguito con vari racconti che ho pubblicato in
blog o siti di scrittura. Poi, nel 2012, mi sono detto: ma perché non provare a
scrivere un romanzo? Così è nato Matteo De Foresta è la sua prima avventura,
“Nel cuore del centro storico”. All'epoca non avevo ancora un editore e mi sono
dato al self publishing. Ho impiegato quasi tre anni a terminarlo: passare
dalla dimensione del racconto a quella del romanzo è impegnativo, la prima
volta è davvero dura. Ma poi nel 2015 è uscito il romanzo ed è stato un
successo. Ho venduto più di cinquemila copie in digitale e da lì è decollato il
matrimonio tra Matteo e la Fratelli Frilli Editori. La mia esigenza di
scrittura è quasi catartica: mi aiuta a scaricare la testa, a non pensare al
lavoro ed ai pazienti. Mi serve anche per essere un po' cattivo, cosa che nella
vita io non sono mai, e tirare fuori il mio lato oscuro. Ciascuno di noi ne ha
uno, spesso non comunichiamo con lui e addirittura lo ignoriamo accumulando
tensione e ansia. La scrittura è la mia valvola di sfogo: scrivendo noir e
gialli in qualche modo mi “libero”, mi purifico. In realtà non ho un metodo:
come ti ho già accennato, scrivo di getto e rubo le parole a un grande
scrittore come Joe Lansdale. Lui stesso ha affermato che se sapesse già come
finiscono le storie che scrive non si divertirebbe nel farlo. Io la penso allo
stesso modo. La storia nasce dai personaggi: meglio sono definiti, più sono
autonomi e in grado di “vivere”, scegliere, pensare e agire. Io racconto solo
la cronaca delle loro azioni. Per quanto riguarda la trama delle storie, parto
spesso da un'immagine e un'idea. A volte può anche essere una canzone: ad
esempio, la quinta avventura di Matteo, che sto scrivendo, è partita da
“Sirens” dei Pearl Jam. Spesso poi ragiono sul finale, su come si potrebbe chiudere
la storia. Ma scrivendo molte volte mi allontano da quanto avevo pensato. Siamo
sempre lì: i miei personaggi mi sorprendono con le loro azioni e fanno quello
che vogliono!
Matteo
De Foresta è un personaggio autentico: tanto determinato nel suo mestiere,
quanto indeciso per quel che riguarda le questioni di cuore e forse è proprio
per questa imperfetta umanità che i
lettori si immedesimano tanto in lui. Come lo definiresti? In generale come
delinei i personaggi, sia principali, sia secondari, delle tue storie e le
vicende che li coinvolgono?
Matteo è un uomo vero, un ragazzo non
cresciuto del tutto che si sforza di farlo. Pensando a lui ho cercato di
ispirarmi alla mia generazione e alle nostre fragilità. Noi quarantenni di oggi
(anche se io ne ho ormai quasi cinquanta, ahimè) siamo una contraddizione
vivente. Professionisti o lavoratori ma ancora con il cuore di ragazzini, che
sono cresciuti con Goldrake, Candy Candy o Kenshiro. Siamo ancora la
generazione dei fumetti Marvel e non quella dei Manga, ispirati a eterni
guasconi irriverenti. Ecco, Matteo nel suo piccolo fa un po' suo il motto di
Peter Parker: da grandi poteri nascono grandi responsabilità. Cerca di essere
un padre presente, si domanda che cosa sia davvero l'amore, lotta tra il
desiderio di avere una famiglia e allo stesso tempo di non rinunciare alla
passione e al brivido della conquista. I miei personaggi nascono allo stesso
modo: osservo le persone che incontro e che conosco, cerco di creare persone a tutto tondo con pregi,
difetti, piccole o grandi manie. La cosa più difficile comunque nella creazione
dei personaggi resta sempre “il cattivo”: voglio dire, anche nei malvagi devono
esserci umanità e lati chiari. Al giorno d'oggi non si può presentare ai
lettori un antieroe da film western, stereotipato e quasi al limite della
psicosi per quanto è cattivo. Si devono creare esseri umani, non macchiette.
Ecco, questo è il lato più difficile, ma anche più entusiasmante della
scrittura. Cercare di riprodurre la vita reale pur mantenendo un pizzico di
“irrealtà”. Credo che sia quanto cerca il lettore che si dedica ai gialli.
Dal
successo dell’autopubblicazione sul Web, alla collaborazione con un editore
d’eccellenza per qualità e impegno, molto rappresentativo del genere, sia nella
città di Genova, sia a livello nazionale: facciamo un bilancio del tuo percorso
d’autore, tra difficoltà e obiettivi raggiunti. Scrivere è ancora un mestiere a
tutti gli effetti?
Quando “Nel cuore del centro storico”
raggiunse quel risultato inatteso, contattai il compianto Marco Frilli
proponendogli quel romanzo. Lui mi rispose quasi subito nel suo stile senza
fronzoli: mi disse che non gli interessava un qualcosa di già pubblicato ma che,
se volevo, potevo mandargli un nuovo romanzo. Se gli fosse piaciuto me
l'avrebbe pubblicato. Raccolsi la sfida con l'adrenalina a mille e in soli due
mesi gli mandai la seconda avventura di Matteo, “Poker con la morte”. Da lì,
continuando poi il rapporto con suo figlio Carlo in seguito, ahimè, alla sua
malattia, De Foresta ha visto la luce con la loro casa editrice. La Fratelli
Frilli è un laboratorio di giovani, idee, novità costanti. Punta sui giovani e
sugli esordienti oltre ad avere nella scuderia “mostri sacri” come Maria
Masella e altri. I romanzi Frilli sono freschi, avvincenti, creati da autori
che spesso fanno tutt'altro nella vita e scrivono per passione. Tu mi domandi
se lo scrittore può essere ancora un mestiere. Io credo di sì, ma penso anche
che lo sia per pochi. Per potersi mantenere con la sola scrittura bisogna
vendere numeri da capogiro. È bene che chi vuole scrivere questo lo sappia: nel
novantanove percento dei casi resterà solo una passione, un hobby, e non
diventerà mai un lavoro. Ma questo forse è anche il bello della scrittura: per
farlo serve passione e non lo si può fare a scopo di lucro. Si scrive sempre
per se stessi prima di tutto. Poi, se si piace agli altri, tanto meglio. Ma è
secondario. A volte “dover scrivere” può essere un'arma a doppio taglio. Lo
racconta molto bene Stephen King in quel grandissimo romanzo che è “Misery”.
Un'allegoria del rapporto tra scrittore ed editore. Comunque, sì: può essere
ancora un mestiere. Servono talento, occasione giusta, momento giusto e
ovviamente il fattore “C”. Le serie televisive, poi, hanno cambiato tutto.
Grandissimi scrittori italiani come Camilleri, Manzini, Malvaldi devono il loro
immenso successo, oltre alla loro abilità, alla diffusione che i loro
personaggi hanno avuto attraverso la TV.
Il bilancio del mio percorso? Per ora non
lo faccio. Mi sento all'inizio, ancora un esordiente e soprattutto un
dilettante. Per ora tengo la testa bassa e lavoro, anche se mi godo il piccolo
successo che sta avendo Matteo De Foresta.
A
cosa stai lavorando attualmente? Svelaci quali sono i tuoi progetti per il futuro
e quanto dovremo aspettare per la prossima indagine di De Foresta…
Matteo esce in libreria una volta
all'anno, di solito nel mese di Febbraio. Spero quindi che nel 2020 possa
uscire in quel periodo la nuova avventura di Matteo a cui sto già lavorando.
Sarà una storia più noir, con meno implicazioni di “grande respiro” come la
mafia e più incentrata su un cattivo comune. Si parlerà, in qualche modo, della
storia recente della mia città, Genova, che ha visto nascere tra le prime
l'estremismo e le bande armate negli anni Settanta. Si parlerà, ovviamente, di
amore non solo per Matteo. Ho poi un accordo di massima con Carlo Frilli per
ripubblicare con la sua casa editrice la prima avventura di Matteo. Piace ad
entrambi l'idea di completare la “collezione” con tutti i romanzi del De
Foresta pubblicati sotto la loro egida. In più, sto lavorando ad un nuovo
personaggio, distante anni luce da Matteo. Ma sempre genovese e sempre
investigatore. Ho già scritto la sua prima avventura e mi sto mettendo, in
contemporanea a Matteo, al lavoro sulla sua seconda.
Grazie ancora per questa piacevole
chiacchierata e un saluto a tutti i lettori del tuo Blog!