mercoledì 19 dicembre 2018

Rileggere “Marcovaldo” a trent’anni



Lo abbiamo letto tutti, in antologia o per intero. Alla scuola primaria o secondaria, quella che, ai nostri tempi, si chiamava scuola elementare e media. Soprattutto noi bambini nati e cresciuti in città, abituati alla frenesia e al cemento, ci siamo domandati come quel buffo signore un po’ malinconico e sfortunato, potesse sentirsi così fuori posto tra le vie e i palazzi di una metropoli nascente. Si tratta di “Marcovaldo”, il classico per ragazzi di Italo Calvino, un testo composto da una ventina di novelle che hanno tutte per protagonista uno strano uomo di nome Marcovaldo, padre di una famiglia numerosa, che è impiegato come operaio tuttofare in una ditta e che, nello scorrere delle stagioni, va in cerca della natura, anche in mezzo all’asfalto della città dove vive, come lo descrive il suo stesso creatore.
Può sembrare anacronistico e terribilmente fuori dal tempo, ma questo personaggio a tratti onirico, a tratti ingenuo, protagonista di fiabe che, a oltre cinquant’anni dalla loro stesura, potrebbero non essere più così moderne, in realtà mantiene intatta un’attualità intrinseca, capace di ispirare non solo i bambini, ma anche i loro genitori, i loro maestri, i loro vicini di casa, tutti gli adulti che li circondano.


Cosa è cambiato, infatti, tra le prepotenti città degli anni Sessanta, figlie del boom economico e dei gas di scarico, e le stanche metropoli di oggi, fatte di domeniche ecologiche e parcheggi selvaggi infrasettimanali? Quasi nulla o ben poco.
Penso alla mia Roma e al parchetto del mio quartiere nel quale ho riletto “Marcovaldo” con mia figlia, ora che ho superato i trent’anni. E penso che i gabbiani che affollano la città anche in centro e aggrediscono i turisti, rubando famelicamente loro il panino col salame, non sono poi così diversi dagli stormi di piccioni che Marcovaldo e i suoi sei figli decidono di arrostire sul fuoco per il pranzo della domenica. Continuando di questo passo, in una città come Roma, diventata quasi ingestibile, e nella quale è difficile perfino rinnovare una carta d’identità senza fare mesi di fila all’anagrafe per un appuntamento, i gabbiani farebbero meglio a iniziare ad avere paura, perché presto potrebbero fare la fine dei piccioni di Marcovaldo e finire nei piatti di noi trentenni precari.
Penso al neopensionato che, mentre noi leggevamo il nostro libro, tentava di trovare qualche ciuffo di cicoria tra le cacche dei cani del parco, perché è in attesa che gli accreditino la sua sudata e meritata pensione da sei mesi, ma l’Istituto previdenziale se la prende comoda coi calcoli. E penso che non è molto diverso da Marcovaldo e da tutti i suoi vicini di casa che, dopo una notte di pioggia, raccolgono i funghi nati nelle aiuole della via e ne fanno una bella zuppa, salvo poi passare una settimana in ospedale, una lavanda gastrica dopo l’altra.


Penso alla neve a Roma di quest’anno che se ne sta andando e a quella cataclismica mattinata in cui pochi centimetri di coltre bianca sono stati nuovamente in grado di paralizzare una città, come uno Tsunami di ghiaccio, tra alberi caduti, asfalto disastrato e spargisale inesistenti. E penso al povero Marcovaldo che nella neve in città vede una speranza. La speranza di veder scomparire, almeno per un giorno, il suo tran-tran giornaliero, ma, nonostante tutto, si reca al lavoro a piedi, esattamente come hanno fatto molti romani lo scorso febbraio, perché alla ditta non importa nulla della neve e della città disorganizzata e colta di sorpresa, anche oggi. 
Penso a Marcovaldo mascherato da Babbo Natale e costretto, assieme a decine di altri Babbi Natale, a portare strenne a tutti i clienti della ditta per cui lavora e ai bambini disincantati che li ricevono, perdendo interesse a ogni nuovo Babbo Natale che passa loro davanti. E penso alle mamme di oggi che si azzuffano per prendere il posto migliore alla recita di Natale dei loro figli, fino ad arrivare alle mani per guardarli meglio attraverso lo schermo di uno smartphone, un’invenzione alla quale il povero Marcovaldo probabilmente non avrebbe retto. E me lo immagino oggi, vecchio vecchio, un po’ più svampito del solito, con tanti nipotini che ascoltano Sfera Ebbasta, a cercare di capirci qualcosa del Governo giallo-verde, convinto che abbia qualcosa a che vedere con la botanica.


Il progresso ci porta avanti, ma, allo stesso tempo, ci porta indietro, anche oggi. Ci apre la mente, abbattendo muri e frontiere, ma, allo stesso tempo, ci imprigiona in celle dorate o trasparenti, senza più vicini di casa di cui fidarci e con amici lontani, quelli della nostra generazione confusa, quelli con cui abbiamo letto “Marcovaldo” per la prima volta e che ora sono sparsi per il mondo a cercare fortuna, lontano dal loro Paese, in altre città più grandi, fredde e voraci, ma forse anche più accoglienti.
Rileggere “Marcovaldo” a trent’anni (passati), nella recente edizione Mondadori, arricchita dalle illustrazioni di Sto-Sergio Tofano, è stato commovente. Un’oasi nel deserto della mente, proprio come la natura nella città. Non solo una questione d’ambiente, ma di natura umana a tutto tondo. Liberate dall’analisi del testo e dagli esercizi di grammatica della scuola, vent’anni dopo i doveri dei banchi, le avventure e disavventure di questo Charlie Chaplin di carta, che oggi forse è più vicino al Fantozzi di Paolo Villaggio, che allo Charlot in bianco e nero dei nostri genitori, mi ha suscitato una tenerezza struggente. Oggi che l’ho letto con gli occhi degli adulti, lavoratori, magari faticosamente genitori, il povero Marcovaldo vorrei abbracciarlo e dirgli che andrà tutto bene. Che forse le cose non cambiano, ma noi possiamo (ancora) cambiare le cose. Anche rileggendo un buon libro per bambini.


mercoledì 5 dicembre 2018

Tiziana Bartolini: l’Arte secondo me


Dall’acquerello, alla creta, passando per la grafite, sono molte le tecniche che caratterizzano le opere di Tiziana Bartolini, artista di punta e anche curatrice di esposizioni all’interno della neonata Associazione “RBN Arte” di Mauro Rubini. Dopo una lunga amicizia e precedenti collaborazioni, infatti, da quando è stato inaugurato il nuovissimo “Spazio I.DE.A.”, Tiziana Bartolini è stata tra le maggiori promotrici delle mostre che si sono tenute all’interno della galleria e che l’hanno sempre vista come protagonista, sia come artista, sia come organizzatrice. Il suo percorso come artista, tuttavia, è iniziato già ai tempi delle scuole, con un felice percorso al Liceo Artistico e, successivamente, una Laurea in Architettura, studi che evidenziano il suo desiderio di essere circondata dall’arte in ogni momento della vita. L’espressività e la delicatezza delle sue opere che non hanno mai perso la creatività e l’entusiasmo dei primi passi, guadagnando, però, di volta in volta in padronanza delle tecniche e dei materiali, rappresentano il suo entusiasmo e il suo ottimismo, oltre a una profonda capacità di osservazione. La sua sensibilità di artista, propensa a catturare aspetti sempre nuovi anche di soggetti ormai emblematici, la caratterizza, sia come pittrice, sia come scultrice, anche se Tiziana non ha mai disdegnato di cimentarsi con obiettivi e macchine fotografiche, dando prova di essere anche una fotografa attenta ai dettagli e alle simmetrie delle immagini. Le opere più intense, tuttavia, a nostro avviso, sono senza dubbio quelle a grafite o acquarello, nelle quali Tiziana Bartolini mette a frutto tutto il suo talento per i colori e le sfumature. I soggetti di quadri e disegni, in questi casi, sembrano quasi essere dotati di vitalità e movimento, dando sorprendente tridimensionalità alle opere. Ecco che il sorriso malinconico di un Pierrot, i prepotenti flutti attorno a un faro o l’imperturbabile espressione di un felino sembrano prendere vita, accogliendo lo spettatore in un mondo fatto di fantasia e colori.


Da dove nasce la tua esigenza di dipingere: è una passione che coltivi da sempre o si tratta di un talento che hai scoperto recentemente? Cosa vuoi comunicare?

La mia passione per il disegno nasce da lontano, già all‘asilo se non prima. I miei genitori conservano ancora dei miei disegni. Ero portata, si vedeva già da piccola e soprattutto mi permetteva di esprimermi, poi ho iniziato la scuola e quando è stato il momento di decidere le superiori non ho avuto dubbi: ho preso il Liceo artistico, tutti mi hanno appoggiata senza mai ostacolarmi nella scelta. Successivamente mi sono iscritta alla Facoltà di Architettura, mi sono laureata e abilitata alla professione ma ho sempre continuato a disegnare a mano libera, dando sfogo alla mia creatività. Sono anche riuscita a coinvolgere le mie due figlie, Chiara e Sara, che, fin da piccole, hanno potuto cimentarsi in bigliettini e decorazioni appesi in casa e alla porta d’ingresso.


Cosa ti ispira maggiormente: quali sono i soggetti che preferisci e le tecniche che prediligi? A quali movimenti artistici del passato ti rifai? E chi sono i tuoi Maestri di riferimento?

Io disegno in grafite e dipingo poi in acquarello la maggior parte dei miei quadri. Talvolta uso anche le matite acquerellabili e i pastelli. Ma ho anche creato delle piccole sculture in terracotta e amo fare fotografie.
I soggetti sono vari, mi piace organizzare e partecipare ad eventi espositivi, perciò spesso mi lascio guidare dal tema della mostra a cui partecipo.
Sono molti gli artisti che mi hanno ispirato, sia negli anni della formazione, sia oggi.


Quanto è importante, tra artisti, la condivisione di ideologie nuove, tecniche innovative e sperimentazioni, per riuscire a esprimersi? Esiste ancora una comunità degli artisti? E che ruolo svolgono i Social Network in merito per la diffusione e la divulgazione?

Io penso che la condivisione tra artisti sia molto importante, lo era nel passato come lo è adesso, tanto più che adesso con Internet e i Social Network il coinvolgimento è più facile e immediato. In definitiva tutti postiamo una foto e in qualche modo anche quella visione di quell’oggetto, volto o panorama è arte, perché è opera di una persona che ha creato nella sua testa l’immagine che poi ha scattato. Ne è la prova che trovare due foto identiche dello stesso soggetto è quasi impossibile!


Raccontaci le esperienze che nel tuo percorso da artista hai trovato più formative e che ti sono rimaste nel cuore: corsi, esposizioni, mostre alle quali hai partecipato o che hai solamente visto come spettatrice, ma che ti hanno lasciato un messaggio profondo e hanno influenzato le tue opere.

Una delle mie esperienze formative più significative è stata sicuramente aver frequentato il Liceo artistico. Tante ore di disegno, il concetto di nature morte, i disegni di figure avendo come modelli persone in carne e ossa, le tecniche pittoriche: tutto ciò mi ha dato le basi per esprimermi al meglio, donandomi ulteriore sensibilità. Poi scegliendo la sezione Architettura e andando all’Università si ho perso momentaneamente lo slancio e il tempo da dedicare al disegno pittorico, ma cercavo sempre esami dove potevo esprimere la mia così detta “mano felice”. Ricordo che quello era il periodo del verde riprodotto a mano libera, molto espressive erano le mie rappresentazioni della natura dove potevo esprimere la mia creatività.
Ogni mostra a cui sono stata ha lasciato qualcosa dentro di me, non si può essere indifferenti alle opere di un artista indipendentemente dal fatto che sia famoso o sconosciuto, perché egli lascia un pensiero, un concetto con la sua opera d'arte e lo trasmette a tutti, lo condivide in eterno. Naturalmente anche partecipare come artista a un evento espositivo lascia delle emozioni e dei ricordi unici.



A cosa stai lavorando ultimamente? Collabori con Gallerie e Associazioni o hai in programma la partecipazione a qualche mostra nei prossimi mesi? Svelaci quali sono i tuoi progetti per il futuro.

La mia vita artistica è ripresa da circa cinque o sei anni grazie a un amico di mio fratello e di mia cognata, Mauro Rubini che ha fondato la RBN Arte all’interno dello Spazio I.DE.A., proponendomi di partecipare come artista a delle mostre organizzate da lui. Questa esperienza è stata meravigliosa e molto gratificante, soprattutto in un momento della mia vita lavorativa purtroppo non positivo. Da quest’anno aiuto Mauro Rubini nell'organizzazione di mostre personali e collettive nella sua galleria aperta da poco al pubblico a Roma.
Naturalmente essendo Mauro Rubini anche un artista, partecipiamo anche noi alle mostre collettive che organizziamo e il gruppo di artisti che ci segue e partecipa è molto unito e creativo.
I miei progetti per il futuro? Spero di continuare a fare esperienze bellissime come queste e vi aspetto in galleria!


                                   


mercoledì 21 novembre 2018

Francesca Mandetta: il veterinario 2.0, storia di una professione al passo coi tempi



Ne è passato di tempo da quando chi si prendeva cura degli animali operava per lo più al di fuori delle grandi città, dove il legame tra uomo e animali è più stretto, un po’ per vocazione, un po’ per necessità. Oggi, infatti, la circostanza che in moltissime famiglie metropolitane almeno un componente abbia quattro zampe ha reso la professione del veterinario un mestiere d’eccellenza che richiede studio, titoli e formazione continua, ma anche sensibilità e sacrifici, tanto che, proprio come a qualsiasi altro medico, anche al veterinario è richiesta sempre più spesso una reperibilità ininterrotta nell’arco delle ventiquattro ore della giornata e un rapporto di simbiotica fiducia non solo con l’animale, ma anche e soprattutto col suo proprietario. È nata così l’esigenza, soprattutto nelle grandi città, di vere e proprie cliniche veterinarie aperte anche la notte e in grado di far fronte non solo alle esigenze di routine, ma anche a casi di emergenza sempre più delicati per salvare la vita di animali che oggi sono considerati componenti della famiglia accuditi e amati come tutti gli altri.
Ma cosa significa intraprendere la professione del medico veterinario al giorno d’oggi? Qual è il suo ruolo in qualità di operatore medico, scienziato e persona di fiducia e supporto a chi vuole prendersi cura di un animale anche in un contesto cittadino? Ci sono nuove leggi che tutelano le nuove esigenze degli animali e dei loro proprietari, insieme ai professionisti del settore? E come si può far fronte sempre più efficacemente a piaghe metropolitane come abbandono e randagismo? A rispondere a queste e a molte altre domande, spiegandoci meglio tutti i risvolti di questo mestiere sempre più all’avanguardia, ci ha pensato la Dottoressa Francesca Mandetta, tra le colonne della nuova Clinica Vetetrinaria Spinaceto di Roma che, nell’intervista che segue, ci ha raccontato la sua storia, dai primi passi, fino a oggi, e quanto l’empatia e la preparazione siano ugualmente importanti per chi volesse intraprendere la professione di medico veterinario.



Empatia, sensibilità e tanto studio e impegno: prendersi cura degli animali, pazienti non in grado di comunicare a parole il disagio e il dolore, è una professione che richiede un profondo senso di responsabilità. Quando e come si è resa conto di avere la vocazione per questo mestiere?

Sin da piccola ho sempre voluto diventare un medico veterinario. Quando a scuola si cercava di immaginare cosa fare da grandi, io non avevo nessun dubbio: il veterinario era il mio sogno che, fortunatamente, è diventato realtà. Ho sempre pensato che questo fosse il mestiere più bello del mondo ed è tra i miei primi ricordi di bambina. Da piccola ammiravo il nostro veterinario che, all’epoca, era il cosiddetto veterinario di campagna e coltivare questo obiettivo, nei lunghi anni di studio, mi ha permesso di coniugare le mie due grandi passioni: la medicina e gli animali.



Un numero sempre maggiore di famiglie nel nostro Paese ha uno o più componenti a quattro zampe: quanto è importante instaurare un corretto rapporto di fiducia col proprio medico veterinario per comprendere al meglio i bisogni dei nostri fratelli animali? In cosa consiste la prevenzione in questo senso e quali comportamenti sarebbe bene mettere in atto?

Il rapporto col medico veterinario è fondamentale per chi possiede un animale, perché egli svolge il ruolo che, per noi umani, è svolto dal cosiddetto medico di famiglia. Deve essere un punto di riferimento che conosce il nostro animale, sia da un punto di vista clinico, sia comportamentale e che, quindi, è in grado di fare diagnosi in modo puntuale e il più velocemente possibile, quando necessario, mantenendo la giusta lucidità nella cura e nella gestione sia del paziente, sia della sua famiglia umana. Il rapporto, quindi, da parte nostra non è solo lavorativo, ma anche, in un certo senso, di amicizia, al di là delle patologie e delle necessità contingenti. È proprio questo rapporto di fiducia di fondo che permette al veterinario di supportare e guidare il proprietario nelle scelte migliori per il proprio animale anche dal punto di vista clinico. Oltre alla professionalità di noi medici, infatti, credo sia importante che i padroni dei nostri pazienti si affidino a noi anche come persone, sviluppando un’empatia davvero molto utile per svolgere con competenza e dedizione il nostro mestiere. In fondo l’atteggiamento che caratterizza la maggior parte dei proprietari dei nostri pazienti non è molto diverso da quello che hanno i genitori quando scelgono il pediatra per il proprio bambino: al di là delle capacità del medico apprezzano anche l’atteggiamento empatico e il modo di porsi della persona nei confronti dell’intero contesto familiare, oltre che del bambino. Trattare l’animale come se fosse nostro rappresenta una marcia in più nella nostra professione di veterinari. Questa combinazione di fattori caratterizza, a mio avviso, quello che oggi potremmo definire il veterinario 2.0.
È proprio costruendo questo rapporto di profonda e reciproca fiducia che si comprende l’importanza del concetto di prevenzione. La disinformazione che a volte c’è nei confronti del ruolo del medico veterinario sta proprio nel fatto che ancora molti proprietari di animali si rivolgono a noi solo quando emerge una patologia, ritrovandosi a prendere decisioni difficili di fronte a medici che considerano professionisti e in cui hanno fiducia, ma che, umanamente, sono degli estranei. Se invece si instaurasse il giusto rapporto col medico veterinario, fatto di visite di controllo e di prevenzione a seconda dell’età e delle condizioni del proprio animale, tutto sarebbe più semplice e naturale, per quanto possibile, anche in caso di malattia o emergenza, proprio come accade con un pediatra per il proprio bambino o con un medico di famiglia che ci conosce più di chiunque altro. La prevenzione è indispensabile anche per i nostri animali, così come lo sono, nello specifico, i vaccini e i trattamenti antiparassitari, oltre a una buona e sana alimentazione, da valutare per il singolo animale, in base allo stile di vita.



La Clinica Veterinaria Spinaceto, oggi in una nuova sede completamente ristrutturata e sempre più a misura dei pazienti, è diventata un’eccellenza del settore, grazie a un’equipe di medici di grande esperienza. Cosa significa offrire al pubblico un servizio ventiquattro ore su ventiquattro? Ci spieghi l’importanza di proporre ai proprietari degli animali un supporto che spesso va oltre le esigenze mediche, sostenendoli anche nelle fasi dell’adozione e dell’adattamento in casa, cercando di far fronte a eventuali difficoltà comportamentali.

Avere a disposizione una struttura e un medico veterinario ventiquattro ore su ventiquattro oggi è fondamentale. I nostri animali, infatti, hanno bisogno di assistenza continuativa, non solo per le urgenze, ma anche per la possibilità di consigliare i proprietari sulle cure preventive e future per i loro animali e anche sul primo ingresso in famiglia in seguito all’adozione di un nuovo animaletto, oltre all’adattamento in casa e coi suoi abitanti, nel rispetto di tutti. Il ruolo del medico veterinario, infatti, è anche questo e spesso oggi i futuri proprietari vengono a trovarci ancor prima di adottare un animale per essere indirizzati verso la scelta giusta, sia per loro, sia per il futuro componente della famiglia, per capire come prendersene cura, preparando la casa al meglio per accoglierlo, e vogliono essere supportati in caso di problemi comportamentali o difficoltà di adattamento. Quindi il nostro compito non è solo strettamente medico di cura delle patologie, ma anche di supporto dei proprietari nelle loro scelte.



Randagismo e abbandono sono ancora oggi, soprattutto nelle grandi città, delle piaghe alle quali è difficile far fronte e troppo spesso ignorate. Quali sono in merito i consigli del veterinario, sia verso le famiglie, sia verso le istituzioni?

La crisi economica di questi anni non ha aiutato ad affrontare in modo sistematico queste piaghe, anche se, sia per il randagismo, sia per l’abbandono, è stato fatto molto ultimamente, in termini legislativi, ma soprattutto di sensibilizzazione. La microchippatura obbligatoria per i cani, oltre a multe salate per chi li abbandona, e il tentativo di costruzione dell’anagrafe felina sono esempi della rinnovata attenzione verso i nostri animali, ma senza dubbio c’è ancora molta strada da fare, perché è stato fatto molto per quanto riguarda i cani, ma poco per le specie non convenzionali, come pesci e tartarughe, e ancor meno per i gatti che restano comunque il primo e preferito tra i nostri animali domestici, tanto in termini di numero di adozioni, quando di abbandoni, purtroppo. Il nostro primo compito come medici veterinari, dunque, è quello di sensibilizzare sempre più i cittadini spiegando loro che gli animali non sono oggetti e non si può pensare di adottare un gatto, un cane o magari un coniglietto per poi liberarsene senza pensare alle conseguenze. Bisogna spiegare chiaramente le responsabilità che derivano da un’adozione e anche sollecitare le istituzioni a fare sempre di più. Obbligare alla microchippatura di tutti gli animali domestici, non solo dei cani, potrebbe essere un primo passo, magari agevolando dal punto di vista fiscale le famiglie, riducendo il più possibile le spese, soprattutto per le persone meno fortunate, visto che possedere un animale in molti casi è ancora considerato alla stregua del possesso di un bene di lusso, ma questa è una classificazione ormai anacronistica. Le istituzioni dovrebbero offrire dei servizi gratuiti per permettere ai cittadini di registrare i propri animali, facendo maggiori controlli e dando anche dei vantaggi ai proprietari concedendo la possibilità di detrarre maggiormente le spese mediche e farmaceutiche. Qualche passo in avanti nell’inclusione degli animali all’interno della famiglia come veri e propri componenti si sta facendo, ma, a mio avviso, si dovrebbe aspirare a rendere l’azione di un animale controllata e sicura dal punto di vista legislativo come quella di un bambino.



In tutti questi anni di esperienza e pratica della professione si sarà presa cura anche di pazienti particolari e insoliti. Ci racconti un episodio, un aneddoto, una storia che è rimasta particolarmente impressa nel suo cuore, sia come medico, sia come donna.

In tanti anni di professione ho avuto moltissimi pazienti e ho seguito le loro famiglie e le loro storie, accompagnandoli per un pezzo di vita, quindi mi sembrerebbe quasi di fare un torto a qualcuno di loro, scegliendone solo uno. Ognuno è stato speciale e ha lasciato un segno dentro di me, come medico e come persona, e ho avuto tante soddisfazioni che conservo nel cuore, ma anche tante sconfitte, visto che la medicina ha dei limiti. Devo, però, ammettere che i pazienti che mi hanno segnato più profondamente sono stati proprio i miei animali, quelli per cui, oltre al ruolo di medico, ho rivestito anche quello di proprietario e, perché no, in un certo senso di “mamma” umana. Loro mi hanno insegnato molto, perché mi hanno fatto comprendere cosa provano i nostri clienti quando si affidano a noi veterinari e, proprio per questo, penso che il rapporto di empatia e di fiducia medico-paziente sia importantissimo. Essere un buon medico veterinario non è solo studio e aggiornamento, ma anche la capacità di mettersi nei panni del proprietario e di considerare il paziente come se fosse un nostro animaletto.

mercoledì 7 novembre 2018

Pino Nazio: vi racconto Aldo Moro e la Guerra Fredda in Italia



La scorsa primavera si è celebrato un triste anniversario: sono trascorsi quarant’anni esatti dall’agguato di via Fani che ha dato inizio alla prigionia di Aldo Moro, col doloroso epilogo noto a tutti, che ha stravolto gli equilibri della scena politica italiana del tempo. Ma cosa sanno le generazioni più giovani di questo statista unico nel suo genere? Se ne conoscono e se ne studiano a sufficienza, ancora oggi, la vita e il pensiero? E si è riusciti a far veramente luce sul mistero della sua morte e a comprendere le dinamiche storico-politiche che l’hanno contrassegnata? A queste e a molte altre domande tenta di rispondere Pino Nazio nel suo ultimo libro, “Aldo Moro. La Guerra Fredda in Italia”, Edizioni Ponte Sisto, con la prefazione di David Sassoli.
Giornalista, scrittore, autore televisivo e tra le colonne della trasmissione “Chi l’ha visto?” in qualità di inviato per oltre dieci anni, Pino Nazio, in questo nuovo libro, ha ripercorso, con la lucidità e la passione che lo contraddistinguono come autore sempre alle prese coi misteri d’Italia sui quali c’è ancora molto da dire, le tappe del pensiero di Aldo Moro e, in particolare, le fasi che ne hanno caratterizzato il rapimento, la prigionia e, infine, il tragico ritrovamento, oltre alle tortuose indagini che sono state compiute in seguito per cercare di comprendere moventi, mandanti ed esecutori materiali dei fatti.
Oltre all’impeccabile ricostruzione degli eventi, è estremamente interessante l’analisi che l’autore fa degli equilibri politici che si sono sgretolati nel nostro Paese in seguito a questo fatto di sangue che è ben più di un caso di cronaca nera come gli altri. Infatti, dopo essersi occupato con successo di molti casi ancora alla ribalta, come quello di Emanuela Orlandi, di Serena Mollicone, di Yara Gambirasio e di Giuseppe Di Matteo, Pino Nazio, muovendosi dal rapimento di Moro, dipinge con mano sicura il quadro storico-politico che ha caratterizzato il clima della Guerra Fredda in Italia, facendo collegamenti e confrontando episodi e testimonianze fondamentali per comprendere anche l’attualità di oggi solo apparentemente lontana da certe dinamiche.
Una lettura imperdibile, tra sociologia e giornalismo, per chi ama studiare la Storia per capire e vivere il presente con consapevolezza e dignità.



A quarant’anni dall’agguato di via Fani sono ancora molti i misteri che avvolgono il sequestro e l’omicidio di uno dei più grandi statisti del Dopoguerra. Chi era Aldo Moro e cosa rappresenta ancora oggi? Raccontaci la genesi del tuo libro “Aldo Moro. La Guerra Fredda in Italia”, Edizioni Ponte Sisto.

Moro è stato uno dei più importanti uomini politici del Dopoguerra, per due volte Presidente del Consiglio in lunghi Governi –nella prima Repubblica in cui i dicasteri spesso duravano pochi mesi- Ministro degli Esteri durante una delle fasi più critiche della Guerra fredda, Ministro della Pubblica istruzione e della Giustizia, prima Segretario e poi Presidente della DC. Ma, al di là di quanto possa descrivere ogni singolo incarico, Moro nel Dopoguerra è stato il democristiano più influente - dopo Alcide De Gasperi e insieme ad Amintore Fanfani - fino alla sua tragica morte. Oggi –e le celebrazioni per il quarantennale della sua scomparsa lo hanno confermato- Moro è stato un uomo del confronto e del dialogo, anche quando l’intesa comportava rischi altissimi come –in piena Guerra fredda- l’apertura verso il Partito comunista italiano. Il mio libro nasce dall’esigenza di fornire un quadro chiaro in cui è avvenuto il rapimento e la morte dello Statista, delle luci e delle ombre che hanno avvolto la sua fine e di squarciare il velo delle omertà e delle ipocrisie che ancora oggi aleggiano intorno a quel corpo ritrovato in una Renault rossa in via Caetani.

La tua interessante analisi collega una serie di fatti sanguinosi precedenti e successivi all’assassinio di Moro, ricostruendo una rete oscura che tenta di mettere in fila tutti i tasselli di quella che fu la Guerra Fredda nel nostro Paese. A quali conclusioni sei giunto?

Moro ha pagato il prezzo più alto per aver osato sfidare l’equilibrio che si era creato dopo la Seconda Guerra Mondiale in cui all’Italia –considerato Paese sconfitto- era stato destinato un ruolo subalterno e a sovranità limitata. Dalle macerie in cui il Fascismo e Mussolini avevano trascinata l’Italia, il Paese ha saputo risorgere entrando nel gruppo delle potenze economiche planetarie senza che venissero rimossi i limiti imposti al Belpaese in materia di Difesa, Politica estera e pieno sviluppo della democrazia: il PCI non avrebbe dovuto mai varcare la soglia del governo. Moro, capendo che l’Italia si sarebbe definitivamente emancipata solo aprendo le porte della “stanza dei bottoni” ai comunisti italiani, rischiò il tutto per tutto e per questo venne ucciso. Certo, i colpi che l’hanno trafitto sono stati esplosi da uomini delle Brigate Rosse, ma chi ha permesso che lui venisse rapito e ucciso non erano né in via Fani né in via Caetani. Basti pensare che nonostante fosse da tempo e pubblicamente indicato come un bersaglio, che le Br avevano sparato e ucciso molte volte prima di lui, gli è stata negata l’auto blindata che avrebbe salvato la sua vita e quella degli agenti della sua scorta.

Quando si raccontano fatti di cronaca ancora tanto sentiti, la condivisione e la divulgazione del proprio lavoro è un aspetto importante tanto quanto la fase di ricerca e di stesura del testo. Svelaci un episodio, un aneddoto, una storia che in questi mesi di presentazioni al pubblico è rimasta particolarmente impressa nel tuo cuore di professionista e di uomo.

Molti sono gli episodi che hanno segnato questo libro e affondano le radici in un lavoro di studio e di ricerca di una dozzina d’anni. Tra gli elementi che ricordo ci sono sicuramente le pesanti minacce ricevute da uno dei brigatisti condannati per il sequestro e l’uccisione di Moro perché avevo avuto la sfrontatezza di ricordargli che esistono agli atti dei diversi processi elementi tali da far supporre che dietro alle Br vi fosse un clima di complicità da parte di servizi segreti, nazionali e internazionali, deviati e non. Oramai è ben chiaro come, dove e quando le Br sono state non-ostacolate, non-disturbate, non-fermate, nella loro “strategia di attacco al cuore dello Stato” che aveva nel rapimento di Moro non tanto lo sviluppo di una “geometrica potenza”, quanto una chiara politica di eliminazione di uno scomodo politico. Infatti dopo il 9 maggio del 1978 non c’è stata la rivoluzione ma una pesante sconfitta del movimento operaio, del Partito Comunista e la vittoria di un blocco conservatore che ha dominato per quasi tre lustri l’Italia e che ha avuto nel Caf –il patto Craxi-Andreotti-Forlani- la sua espressione più autoritaria.



Prima come inviato della trasmissione “Chi l’ha visto?”, poi come autore, ti sei sempre occupato di casi di cronaca nera con profondità e delicatezza. Secondo la tua esperienza come sarebbe più corretto approcciarsi a queste storie per far sì che anche l’opinione pubblica possa dare il proprio catartico contributo alla risoluzione dei casi? Dai un suggerimento a un giovane giornalista che voglia seguire le tue orme.

Quando ci sia avvia sul sentiero del giornalismo investigativo bisogna abbandonare due suggestioni, sia quella “complottista” che vede dietro ogni evento una oscura manovra di poteri occulti, sia quella “integrata” per cui la realtà, la verità storica, non hanno mai delle spiegazioni che non siano le versioni ufficiali delle autorità. Si deve evitare di credere che la tragedia dell’11 settembre 2001 sia frutto di un disegno dei servizi segreti americani e che un aereo non è mai caduto sul Pentagono o che la morte di John Kennedy sia stata opera del solo Lee Oswald. Non possiamo credere che noi siamo controllati da microchip installati sottopelle, che i vaccini provochino l’autismo e che Totò Riina non sapesse che esistesse una organizzazione criminale chiamata mafia. Il bravo giornalista che vuole indagare la realtà –non solo la cronaca nera- deve partire dai fatti, controllare e verificare il proprio lavoro, evitare facili suggestioni e opinioni ritenute valide solo perché sostenute da molti. In una epoca in cui dominano le fake-news e ogni possessore di smartphone è convinto di essere un esperto tuttologo solo perché ha accesso a Internet questo lavoro è particolarmente difficile. Per quanto possibile il giornalista deve andare sul campo, lasciare il mouse e usare le proprie gambe. Non ricordo un solo caso di cui mi sono occupato in cui non abbia scoperto qualche novità, qualche rivelazione, qualche risvolto nascosto, andando a verificare sul luogo del delitto, della tragedia, dell’avvenimento.

A cosa stai lavorando attualmente? Svelaci quali sono i tuoi progetti per il futuro.

Altri libri, una pièce teatrale, e progetti per la Tv e la Rete. Il Paese attraversa un momento molto difficile, c’è il rischio di un enorme passo indietro dal punto di vista economico, sociale, dei diritti civili e della stessa democrazia, provare a raccontare quello che accade senza qualcuno ti detti cosa scrivere è un impegno a cui non voglio venire meno. Anche se questo ha un alto prezzo da pagare. Nel mio lavoro non dimentico mai quel detto anglosassone che ricorda al giornalista che per lui la notizia è come il denaro per un impiegato di banca: non deve mai dimenticare che sta maneggiando qualcosa che non gli appartiene.


www.pinonazio.it

mercoledì 31 ottobre 2018

C’era una volta… “Zombi”



C’era una volta un Mondo in cui non c’è più posto all’Inferno e i morti camminano sulla Terra. Lo dice Peter, uno dei protagonisti di questa storia che non è solo un ‘incubo a occhi aperti’ impresso su pellicola per generazioni di spettatori, ma anche un vero e proprio manifesto politico per il suo creatore. Si tratta di “Zombi. Dawn of the dead”, il capolavoro di George A. Romero, regista tra i più amati del genere horror scomparso poco più di un anno fa, che con questo film ha proseguito il filone nato con “La notte dei morti viventi” in modo totalmente indipendente e ha dato inizio a un genere che, nel corso degli anni, ha subito numerose contaminazioni, innalzando gli zombi e icone in tutto e per tutto paragonabili ai mostri e agli assassini che da sempre popolano i nostri schermi.


La vicenda si apre in una Terra ormai invasa dai morti viventi che, in un contagio che sembra senza fine, continuano a cibarsi dei vivi, distruggendo intere città. Mentre i media faticano a raccontare il fenomeno, cercando di barcamenarsi tra le esigenze della scienza, totalmente impreparata alla sperimentazione di una cura, e le necessità della tradizione che fatica a vedere nei morti qualcosa di differente dagli esseri che erano in vita, Jane, una giovane assistente in uno studio televisivo incinta di poche settimane, e il suo compagno Stephen, pilota di elicottero, organizzano la fuga, in cerca di un posto sicuro, lontano dagli zombi. A loro si uniscono Roger e Peter, due membri della squadra SWAT, stufi di come l’esercito e la legge marziale stiano affrontando la situazione a Philadelphia. Dopo una notte passata a sorvolare le campagne in elicottero, i quattro, a corto di carburante, sono costretti ad atterrare e decidono di barricarsi all’interno di un grande centro commerciale in cui gli zombi, ripetendo ciò che facevano in vita, continuano a tornare, distruggendo tutto ciò che gli si para davanti. Allettati dalla possibilità di rifugiarsi all’interno del supermercato con provviste e ogni genere di confort, Jane, Stephen, Roger e Peter iniziano una vera e propria opera di “bonifica”, riuscendo, per un po’ di tempo, a recuperare un’apparente normalità, ma la lotta per la sopravvivenza è appena cominciata e i quattro amici si ritroveranno a difendere strenuamente il loro territorio, non solo dagli zombi affamati.


Visionaria e a tratti trascendente, questa pellicola è ben più di un cult del genere horror: è una metafora culturale che critica aspramente il consumismo, il capitalismo e la mancanza di valori che hanno caratterizzato gli Stati Uniti e quindi il mondo occidentale per buona parte della seconda metà del secolo scorso. Ma come è nato questo film? Qual è la storia nella storia che ne accompagna l’idea e la lavorazione, fino al prodotto finito, uscito nelle sale?


Tutto ebbe inizio alla fine degli anni Settanta a New York quando, durante una cena, il regista italiano Dario Argento, reduce dal successo del suo debutto, propose a un George Romero un po’ ‘sottotono’ di collaborare, realizzando un film insieme per ritrovare il talento ribelle e indipendente che aveva contraddistinto Romero fin dal principio. La chimica fra i due registi fu immediata e Romero, che aveva intenzione di lavorare a un nuovo capitolo di quella che, negli anni successivi, sarebbe diventata la saga di zombi più prolifica e di successo di tutti i tempi, volò a Roma e scrisse la sceneggiatura di “Zombi”. Le riprese di svolsero nei mesi successivi vicino Pittsburgh, città cara a Romero, al “Monroeville Mall”, un grande centro commerciale di una zona residenziale e le troupe lavoravano esclusivamente di notte, quando il centro era chiuso al pubblico. Il ruolo di Dario Argento come co-produttore e, in un certo senso, ispiratore per un incontenibile e nuovamente entusiasta Romero, fu determinante, visto che, una volta finite le riprese, fu lo stesso Argento a montare la versione del film che fu messa in commercio in Europa.  Anche se inizialmente Romero fece uscire negli Stati Uniti una versione diversa della pellicola, molto più lunga e senza neppure sottoporla alla censura, finì con l’affezionarsi al montaggio proposto dal collega italiano e arricchito dalle incalzanti musiche dei Goblin, molto apprezzate anche da Tom “Doctor Splatter” Savini che, oltre a interpretare un ruolo nel film, ne curò i sorprendenti effetti speciali.


Per entrare ancor di più nei retroscena di questa storia nella storia abbiamo chiesto a Enrico Luceri, giallista e scrittore, ma anche critico e profondo conoscitore della filmografia di Dario Argento e, in generale, del thrilling italiano e non solo, di raccontarci qualcosa di più sulla lavorazione di questo film e in particolare sul ruolo di Dario Argento stesso nelle fasi della lavorazione, del montaggio e della promozione per il pubblico europeo.
“Dario Argento ha fornito un sostegno e un contributo determinante alla realizzazione del film “Zombi” di George Romero,” ci ha confermato immediatamente Enrico Luceri.  “Argento aveva visto “La notte dei morti viventi” alla fine degli anni ’60, quando fu proiettato in Italia, e di nuovo in un cineclub romano qualche anno dopo, coinvolto da un amico e collaboratore storico come il regista Luigi Cozzi. Ricavò da quella visione la stessa potente impressione della prima volta.
Nella seconda metà degli Anni ’70 del secolo scorso, mentre “Suspiria” riscuoteva un unanime successo di pubblico e critica, il Maestro italiano del thrilling seguì la distribuzione negli Stati Uniti del suo precedente capolavoro, “Profondo rosso”, insieme al fratello Claudio e al produttore Alfredo Cuomo. Quest’ultimo era molto amico di Richard P. Rubinstein, che collaborava con Romero, il quale favorì l’incontro fra i due registi. Per una singolare e fortunata combinazione, la tv via cavo trasmise “L’uccello dalla piume di cristallo” proprio la sera in cui Argento era stato invitato a cena a casa di Romero. Entusiasmato dalla visione, Rubinstein propose a Romero di girare un film insieme al collega italiano, una sfida che ambedue accettarono sebbene consapevoli delle difficoltà realizzative che il progetto avrebbe comportato.
In quel periodo Romero era sconfortato dai risultati deludenti dei suoi film più recenti, ma la frequentazione, lo scambio di idee e suggerimenti, l’incoraggiamento di Dario Argento riuscirono a scuoterlo e a rinnovarne l’ispirazione fantasiosa. Il regista americano sottopose a quello italiano un suo soggetto che riprendeva il tema degli zombi, e insieme decisero di scriverne la sceneggiatura.
George Romero e Dario Argento si divisero quindi il compito di trovare i finanziamenti, l’uno in America e l’altro in Europa.
Il regista italiano ricorda anche la singolare capacità di Romero di coniugare il rigore realizzativo tipicamente americano, basato su una storyboard precisa e curata, con la libertà espressiva del cineasta indipendente, che lasciava un certo spazio all’improvvisazione. Oltre al carisma di Romero, un vero trascinatore e motivatore della troupe, e al suo carattere generoso e politicamente corretto che lo spingeva a reclutare alcuni suoi collaboratori fra persone discriminate per i motivi più vari.
Insieme alla sceneggiatura e alla produzione, Dario Argento curò con la proverbiale limpidezza ed efficacia anche la colonna sonora, alla quale collaborò personalmente dopo aver coinvolto i Goblin, reduci dal successo sconfinato di “Profondo rosso”.
Questa fu dunque la genesi di “Zombi”, e anche della sincera amicizia fra due personalità così singolari e creative come quelle dei due riconosciuti creatori di altrettanti generi cinematografici: il thrilling all’italiana e la saga dei “morti viventi”.
Fu la prima esperienza diretta di Dario Argento come produttore in prima persona, ed è ricordata da lui con la soddisfazione di aver contribuito a realizzare un capolavoro, tuttora molto popolare”. 


Enrico Luceri ci ha raccontato anche come sono proseguiti i rapporti tra Dario Argento e George Romero nel corso delle loro reciproche carriere e delle collaborazioni che ebbero in seguito: “Allo spirare del decennio successivo, Dario Argento decise di dedicarsi all’opera di Edgar Alla Poe, dapprima con una serie televisiva a episodi, ognuno affidato a un regista internazionale, e in seguito con un documentario sulla travagliata vita dello scrittore, girato nei luoghi in cui visse. Ambedue non andarono in porto, così Dario Argento optò per un film in due parti, una diretta da lui e l’altra da Romero, tratte da altrettanti racconti del magnifico visionario di Baltimora. Il regista americano accettò con tale entusiasmo, che la coppia propose a Stephen King e John Carpenter di unirsi a loro in un magnifico quartetto del brivido. Entrambi accolsero dapprima la proposta ma in seguito si ritirarono dal progetto, così rimasero nuovamente solo Dario Argento e George Romero, e nacque “Due occhi diabolici”. Il primo diresse l’episodio tratto da “Il gatto nero”, il secondo da “La verità sul caso del signor Valdemar”. Il film è tuttora molto amato dagli ammiratori dei due registi, sebbene Romero manifestò a suo tempo qualche perplessità e non mancarono divergenze di vedute fra due spiriti così creativi e anticonvenzionali come loro, in particolare perché il montaggio fu effettuato in America e l’edizione sonora in Italia. Tuttavia, il valore del film e la rilettura del tutto personale delle tematiche e delle atmosfere di Poe restano intatti, insieme alla consapevolezza che tutto fu possibile grazie anche alla complicità e reciproca ammirazione nata durante una cena, quando scorrevano le indimenticabili sequenze del travolgente film d’esordio di Dario Argento e si posero le fondamenta di quel monumento al cinema d’autore che è “Zombi””.


Come ogni ‘figlio’ amato e allevato con tutte le cure possibili, dunque, “Zombi” ha due ‘genitori’ ugualmente amorevoli, George Romero e Dario Argento, che lo hanno reso un capolavoro di suspense e violenza, ma anche di “filosofia del cinema” che, come tutte le arti, cela profondi significati, più o meno nascosti, anche nelle pellicole più sorprendenti.
Il ‘terzo padre’ di questo film, tuttavia, è senza dubbio Tom Savini che, come già detto, oltre al ruolo di attore, curò gli effetti speciali e il trucco di tutto il film, compiendo i primi passi della sua carriera nel settore, che lo porterà a collaborare con tutti i più grandi registi horror, tra i quali lo stesso Dario Argento. Una clausola contrattuale che Savini inserisce da sempre in ogni nuovo progetto è quella di girare lui stesso, al fianco del regista, le scene in cui sono presenti i suoi effetti speciali, diventati, nel corso degli anni dei veri e propri trucchi di magia. Come ha raccontato più volte lo stesso Savini, infatti, gli effetti speciali non sono solo sangue e trucco, ma anche un vero e proprio gioco di inquadrature, luci e riflessi che rendano il falso più verosimile possibile. Mago del gore e oggi anche attore amatissimo, Savini, che ha diretto tra gli altri il remake de “La notte dei morti viventi” negli anni Novanta e ha realizzato gli effetti speciali di molti film della saga di “Venerdì 13, ha iniziato la sua carriera proprio tra i collaboratori più fedeli di Romero, che ha conosciuto quando era ancora sui banchi di scuola e col quale, fino all’ultimo, ha avuto un rapporto di stima e affetto.


Dalle radici che affondano nelle pratiche più misteriose del Voodoo, ai famelici usurpatori del nostro mondo e della nostra vita, troppo spesso fatta di sciocchi riti e convenzioni che per loro sono inutili, gli zombi di Romero hanno attraversato il terrificante immaginario di intere generazioni e hanno accompagnato il loro ‘creatore’ fino al suo ultimo respiro, continuando a ispirare ancora oggi scrittori e registi, dal cinema, alla televisione, fino al Web.
Mentre Jane, la protagonista della storia raccontata nel film, vede crescere il proprio pancione nelle settimane che trascorre barricata coi propri compagni di sventura all’interno del centro commerciale assediato da orde di morti viventi, sa che il futuro di quel figlio che, nonostante tutto, ha voluto tenere nel suo grembo, probabilmente sarà segnato dalla violenza e dal dolore di condividere la Terra con coloro per i quali non c’è più posto all’Inferno…
E vissero (?) tutti felici, contenti e in attesa della prossima storia nella storia