giovedì 30 aprile 2015

Teodoro Quarto: ogni dipinto racconta una storia

Architetto, grafico e pittore di grande talento: secondo Teodoro Quarto, giovane artista romano, ogni opera racchiude in sé una storia, capace di trasportare lo spettatore in realtà parallele tutte da scoprire. E come dargli torto: basta osservare i suoi quadri per sentirsi parte di fiabe fantastiche dal finale tutto da scrivere! Appassionato di disegno, ma anche attento studioso del colore e esperto di grafica multimediale, fa di questa versatilità nell’uso delle tecniche una caratteristica vincente del suo stile, senza mai dimenticare che la perfezione non sta nel raggiungimento di un traguardo, ma nella ricchezza del cammino intrapreso.

Osservando le tue opere sembra quasi di entrare in un mondo fantastico, popolato di personaggi mitici che vivono in luoghi dalla grande potenza evocativa. Che artista sei? Da cosa nasce l’esigenza di dipingere?

In realtà la mia passione per la pittura è nata da poco tempo: sono, infatti, circa tre anni che dipingo ed è stata una scoperta che è maturata poco a poco. Tutto ha inizio con il disegno, sin da bambino trascorrevo le giornate a disegnare con le matite in grafite, cercando sempre di perfezionarmi rappresentando su carta quello che avevo in mente, con l’intento di riuscire a farlo nel modo più dettagliato e realistico che fosse possibile. Non c’erano colori, ma solo chiaroscuri, e questo non mi dispiaceva affatto perché in tal modo mi sentivo più libero di disegnare ciò che volevo; l’idea di dover colorare, in un certo senso, mi preoccupava, perché immaginavo fosse davvero complicato. Con il passare degli anni, però, ho voluto provare a dare un po’ di colore ai miei disegni utilizzando i pastelli ad olio, raggiungendo risultati soddisfacenti. L’approdo definitivo alla pittura su tela è avvenuto, però, dopo molto tempo di inattività “artistica” coincisa con il periodo degli studi universitari, dove ho incominciato ad utilizzare il PC, prima per il disegno tecnico architettonico, poi per diletto mi sono avvicinato alla pittura digitale, che mi ha consentito anche di acquisire esperienza come grafico. Da qui nasce la mia esigenza di dipingere, cioè riportare su tela quello che riuscivo a fare al computer, avevo voglia di riprendere la mia vecchia passione per il disegno a mano libera ed incominciare a dedicarmi alla pittura tradizionale, così un giorno mi sono deciso a comprare i colori ad olio ed una tela e vedere cosa usciva fuori. È stato, quindi, un percorso evolutivo, dove però sono cambiate solamente le tecniche di rappresentazione, ma non lo spirito, le sensazioni e i temi trattati. Il mondo Fantasy e il surreale mi hanno sempre affascinato, attraverso la lettura di libri, la visione di film, ma soprattutto l’osservazione attenta dei lavori dei grandi illustratori contemporanei, sono diventati i soggetti principali dei miei quadri. Amo dipingere di fantasia, in piena libertà cercando di imprimere al quadro un certo effetto “scenografico” dato dai forti contrasti dei colori, della luce e delle ombre, senza però scostarmi troppo dal realismo. Darmi una definizione come artista mi rimane un po’ difficile, sono in continua ricerca e sperimentazione per trovare il mio personale “stile”, potrei dire che il disegno e la pittura sono la mia attitudine naturale, dove riesco ad esprimere meglio le mie emozioni e cerco di trasmetterle a chi guarda i miei lavori.

Eroine leggendarie e paesaggi dai colori brillanti, ma non solo: che messaggio vuoi esprimere nei tuoi quadri? A che tipo di fruitore ti rivolgi principalmente?

La caratteristica principale che tento di imprimere nei miei quadri, già nella fase di studio, è quella di suscitare curiosità, sorpresa ed interesse attraverso la rappresentazione di un qualcosa di particolare, insolito, che potrebbe essere anche un dettaglio in un paesaggio o in un figurativo. Il modo di accostare i colori e la scelta del soggetto, infine, creano la scena, cercando sempre di ricreare un’atmosfera onirica, misteriosa e a volte quasi mistica. Mi sono reso conto, e ne ero consapevole ancora prima di incominciare ad esporre le mie opere, che queste non sono apprezzate da tutti, proprio per il genere di raffigurazione non collocabile tra i classici generi pittorici che conosciamo e che la maggior parte delle persone è abituata a vedere nelle mostre o ad avere appese sulle loro pareti di casa, come per esempio i paesaggi naturali in stile classico, i figurativi, gli astratti o l’Impressionismo. Il mio è un pubblico un po’ di nicchia, trasversale: quella varietà di persone, soprattutto giovane, che amano il Fantasy o provengono da un genere di cultura legata al mondo dei fumetti o delle graphic novel, per cui o piace o non piace, al di là della tecnica. Questo può rappresentare un limite per le mie aspettative attuali e future nell’ambito dell’attività artistica, ma è anche un qualcosa che riesce a farmi distinguere in qualche modo dai dipinti canonici.

Non utilizzi solo matita e pennelli: dopo una Laurea in Architettura e una certa esperienza come grafico, come riesci a unire tante tecniche diverse? E quale prediligi?

Mi è sempre piaciuto molto sperimentare nuove tecniche legate al disegno o alla pittura. Ad oggi i tre grandi “campi” in cui opero sono: il disegno in chiaroscuro con le matite, la pittura ad olio o acrilico e la pittura digitale al PC, cercando di portarli avanti tutti e tre di pari passo. Come dicevo prima, tutto nasce dalla mia passione per il disegno, la tecnica che prediligo, che poi si è arricchita di nuovi strumenti e l’utilizzo di questi dipende dal tipo di soggetto che intendo rappresentare, da come vorrei che fosse una volta finito, ma anche dalla complessità del progetto che è legata alle mie capacità di esecuzione. Ad esempio, se volessi fare qualcosa di molto complicato e impegnativo, lo svilupperei attraverso il disegno nel modo più dettagliato possibile, dopodiché lo passerei al computer per la colorazione digitale e realizzerei, così, un’illustrazione di grande effetto che non riuscirei a raggiungere dipingendo direttamente su tela. Non avendo mai seguito dei corsi o frequentato scuole d’arte, sono un autodidatta che cerca di migliorarsi giorno dopo giorno, e non posso ritenermi ancora bravo nel padroneggiare le diverse tecniche pittoriche, anche perché ho poca esperienza, ma grazie ad una buona manualità, a tanto esercizio e alle possibilità che Internet ci mette a disposizione tra video guide e tutorial si possono superare quelle difficoltà, soprattutto iniziali, che si trovano nell’ esecuzione di un buon dipinto.

Cosa ti ispira maggiormente quando hai di fronte la tela bianca? Ci sono dei movimenti artistici del passato ai quali ti rifai nelle tue opere?

La mia principale fonte di ispirazione si trova nell’attenta osservazione di tutto ciò che mi incuriosisce e suscita emozioni particolari. Sin da bambino sono stato attratto in modo particolare dal genere Fantasy, dalla fantascienza e in modo più ampio da tutte quelle forme di rappresentazione della realtà fatte in chiave diversa, immagini capaci di darmi qualcosa in più di un’emozione: la possibilità di viverle con la fantasia, esplorare mondi irreali cercando di immaginare quale storia ci possa essere dietro, come se fosse un film, da qui nasce il mio studio e la reinterpretazione di tali immagini. Tra gli artisti che preferisco e di grande ispirazione posso citare Luis Royo, Boris Vallejo, Frank Frazetta e gli Italiani Paolo Barbieri e Lucio Parrillo, eccellenti illustratori fantasy contemporanei. Per quanto riguarda il panorama artistico del passato verso cui attingo le mie idee, sicuramente rivolgo il mio interesse al Realismo, in particolar modo all’ Hudson River School, un movimento artistico americano sviluppato nella metà del XIX secolo da un gruppo di paesaggisti. Questo è sicuramente un tema più classico ma ricco di pathos ed io ne sono stato rapito al primo sguardo tanto che potrei dire di aver incominciato a dipingere dopo aver visto alcuni quadri di quei grandi pittori del passato.

Ci si può ancora definire artisti di professione al giorno d’oggi? Chi sono stati i tuoi maestri e quali i maggiori ostacoli che hai dovuto superare nel tuo percorso da artista? Raccontaci quali sono i tuoi progetti per il futuro.


Credo che il desiderio più grande in ambito lavorativo, non solo per me, ma per chiunque, sia quello di poter far diventare la propria passione una professione, dedicarsi a tempo pieno e dare un senso più concreto a ciò che si ama fare. Non sempre purtroppo è possibile, nel campo artistico e in particolare modo nell’arte figurativa, pittura e scultura, al giorno d’oggi non ci si possono aspettare grandi profitti, tali da poter pensare di iniziare un’attività in tal senso. Io non nascondo la volontà di provarci ancora, dopo una laurea in architettura e varie esperienze lavorative nel campo architettonico e nella grafica come freelance, non ho trovato soddisfazioni e appagamento, così decisi di ricominciare a fare quello che mi rende felice sognando di poter entrare nel modo dell’arte come professionista e magari illustratore. I risultati purtroppo tardano ad arrivare, credo che poche persone oggi siano disposte ad investire dei soldi in quadri, disegni o sculture di autori sconosciuti ed emergenti. Penso anche che ci sia poco interesse verso questo settore che possa andare al di là della semplice visita ad una mostra. I più fortunati che riescono a raggiungere l’obiettivo di “crearsi” un lavoro grazie alla propria arte devono avere un background di studi e di preparazione molto forti, aver incominciato da molto giovani e magari la fortuna di aver avuto come mentore un maestro d’arte conosciuto. Questi sono i prerequisiti di valore, ma non essenziali, ci vogliono poi la predisposizione, la ricerca di un proprio stile, tanta dedizione e costanza, ma anche una buona dose di fortuna per entrare nel giusto “giro”. Le difficoltà quindi ci sono e parecchie, per esperienza personale potrei parlare tra l’altro dei galleristi, mercanti d’arte o presunti tali che a volte a fronte di grossi investimenti creano illusioni di ogni tipo a chi tenta di emergere, per poi frantumarle dopo poche mostre. Cosa dire poi di quei concorsi dove si mettono in palio dei ricchi premi in denaro, con una giuria selezionata ad hoc per la vittoria finale dei soliti noti, tutto programmato a tavolino, ingolosendo e facendo maturare inutili speranze a chi è alle prime esperienze. Ovviamente non voglio generalizzare, il mio disappunto è rivolto ad alcune realtà spiacevoli che fanno parte del mondo dell’arte e che traggono la loro esistenza dal numero sempre crescente di persone che si cimentano come pittori o scultori. Io non ho avuto nessun maestro, come ho detto sono autodidatta. Certo mi sarebbe piaciuto averne uno, perché penso sia una fonte inestinguibile di consigli e ricchezze artistiche maturate con l’esperienza. Per il futuro non ho progetti definiti, ad oggi sto intraprendendo una strada diversa da quella artistica che mi piace e spero mi porti fortuna, ma non smetterò mai di dipingere e disegnare, cercherò di portare avanti parallelamente questa mia passione finché sarò in grado di farlo, sempre con la speranza nel cuore di poterla rendere, un giorno, una professione o “semplicemente” farla rimanere un piacevole momento a cui dedicarmi.

www.artestudioteo.it

martedì 28 aprile 2015

Musical e Beneficenza: Jesus Christ Superstar a Salerno per sostenere l’Ospedale SS. Giovanni di Dio e Ruggi di Aragona


Jesus Christ Superstar è, senza dubbio, il Musical più amato di tutti i tempi, non solo dagli appassionati del genere. Poterlo vedere rappresentato in lingua originale da una squadra di artisti di grande talento è un sogno che si realizzerà ben presto. E se lo scopo della produzione è principalmente benefico, tutti parteciperemo con uno slancio ancora più grande!

La Compagnia della Croce del Sud, infatti, presenterà, su concessione di Really Useful Group, il musical Jesus Christ Superstar, in scena il prossimo 16 e 17 maggio al Teatro Augusteo di Salerno. Buona parte dell’incasso sarà devoluta al reparto di Neonatologia e Terapia intensiva ad alto rischio dell’Ospedale SS. Giovanni di Dio e Ruggi di Aragona di Salerno, per cui la Compagnia ha già contribuito a rendere le operazioni nosocomiali del reparto più adeguate per i tanti bimbi a rischio che nascono quotidianamente all’interno di tale struttura.
Il progetto di mettere in scena una delle opere rock più rappresentate, Jesus Christ Superstar di Tim Rice e Andrew Lloyd Webber, nasce dal desiderio di promuovere giovani di talento. Lo scopo della Croce del Sud è di fare beneficenza, riunendo un gruppo di artisti del territorio, per armonizzarli grazie al supporto di professionisti di altissimo livello.
Tra i professionisti coinvolti ci sono nomi d’eccezione: Steve Balsamo, direttore artistico del musical, cantante e autore italo-gallese, già protagonista nella produzione londinese di Superstar del 1996; Brunella Platania, vocal and acting coach, co-regista dello show e allieva del grande Carl Anderson (il Giuda nel film evento del 1973 di Norman Jewison); Luca Calzolaro, coreografo e co-regista, primo ballerino della Compagnia Internazionale del Notre Dame de Paris; Antonio Vincensi, produttore del musical.


La Conferenza Stampa di Roma, che illustrerà questa splendida iniziativa, si terrà oggi, 28 aprile, alle ore 18.30, presso la sede della Scuola Romana di Scrittura in viale Regina Margherita 1, a cura della Direttrice della Scuola Cinzia Giorgio. Interverranno, tra gli altri, gli artisti Francesco Ranieri, interprete di Giuda, Fabio Manda, interprete di Gesù e Valentina Ruggiero, interprete di Maria Maddalena. 

giovedì 23 aprile 2015

Maria Tuzi: vi racconto mio padre, Santino


Aprile 2008. Sul greto del fiume Liri, poco distante da Arce, viene ritrovato il corpo del Brigadiere Santino Tuzi. È nella sua auto e un colpo della sua stessa pistola d’ordinanza al petto gli ha tolto la vita. Sin dall’inizio per gli inquirenti non ci sono dubbi: Santino si è ucciso per motivi personali. Curioso che l’abbia fatto a due passi da dal luogo in cui, sette anni prima, era stato ritrovato il corpo di Serena Mollicone, la diciottenne di Arce il cui assassinio, tutt’ora irrisolto, ha sconvolto l’Italia intera. E ancora più sorprendente è il fatto che, qualche giorno prima, Santino avesse reso una lunga deposizione alla Procura di Cassino proprio sul caso di Serena, da poco riaperto.
Una coincidenza? O Santino sapeva qualcosa di utile alle indagini che, in qualche modo, è legato alla sua morte?
Una cosa è certa: Santino è più che mai vivo nel ricordo dei suoi familiari e, in particolare, in quello di sua figlia, Maria Tuzi, che ha voluto raccontarci, con grande delicatezza e sensibilità, come si affronta quotidianamente un dolore tanto grande.


Chi era Santino, tuo padre, e chi è oggi? Quante volte al giorno pensi a lui?

Mio Padre era un uomo corretto e sempre disponibile. Dedito al suo lavoro, un amico leale. Un papà presente e un nonno affettuoso e pieno di premure.
Oggi mio padre è tutto quello che abbiamo imparato da lui e che ci ha trasmesso con pazienza attraverso la sua educazione. È il sorriso delle persone che lo ricordano per i suoi modi di fare gentili e per il suo altruismo.
Non potrei quantificare il numero delle volte che penso a lui, semplicemente è parte di me ogni giorno. C’è in ogni mio passo, in ogni cosa che faccio.

Di fronte a una storia così drammatica quanto spesso ci si chiede perché è accaduta e perché proprio a noi?

Non so perché sia accaduto a noi, so solo che il coraggio della verità spesso si paga a caro prezzo, ma comunque si resta sempre a testa alta. Questo è quello che mi ha insegnato mio padre e io cerco di metterlo in pratica ogni giorno.

Qual è stato il momento più difficile in questi anni? Ricordi un episodio in particolare durante il quale hai creduto di non farcela?

Il momento più difficile è stato vedere spezzarsi il legame con i nipotini, che ancora oggi chiedono di lui. Nessuno potrà mai dimenticarlo, né la sua famiglia, né gli amici. Non credo che la verità sia stata scoperta fino in fondo e la cosa più dura da affrontare è proprio che ogni volta che credo di aver trovato un tassello importante per avere delle risposte mi trovo davanti un nuovo muro da abbattere.

Come si fa a non essere solo arrabbiati?

Sprecare tempo per la rabbia è inutile, preferisco convogliare le forze per trovare le risposte che cerco e aiutare gli altri a non avere paura di dire la verità. Questo è il mio modo di superare la negatività che questa tragedia ha portato nella vita dei miei cari.

Quali sono stati, in questi anni, i tuoi cinque minuti di felicità, che ti hanno permesso di avere la forza di andare avanti e guardare al futuro, nonostante tutto?

Credo che non si possa dare una misura alla felicità, anche se mi piacerebbe. Sono convinta che, prima o poi, con l’aiuto di tutti, troveremo le risposte che cerchiamo, perché le persone semplici e oneste, come era mio padre, lasciano sempre un segno. La vera forza di andare avanti la trovo ogni giorno nell’amore della mia famiglia e delle persone speciali che mi aiutano nella ricerca della felicità e di questo sono molto grata.



lunedì 20 aprile 2015

Mauro Valentini: 40 passi. L’omicidio di Antonella di Veroli


Il 12 aprile 1994, a Roma, viene ritrovata morta Antonella Di Veroli, una stimata consulente del lavoro di 47 anni. Due colpi di pistola le hanno tolto la vita e il suo corpo viene rinvenuto sigillato in un armadio chiuso con della colla, quasi a voler nascondere l’accaduto agli occhi dello stesso assassino.
Ma chi era Antonella e cosa le è accaduto realmente?
Mauro Valentini ripercorre, nel suo primo libro inchiesta, gli ultimi passi di Antonella Di Veroli, cercando di ricostruire quello che tutti i giornali dell’epoca definirono il caso della donna nell’armadio.

Questo è il tuo libro d’esordio: come mai hai scelto di raccontare questa storia? Chi era Antonella Di Veroli? Raccontaci dove ti hanno condotto questi 40 passi e il perché delle tue innovative scelte stilistiche, a cominciare dal titolo.

La storia mi era entrata nel cuore da allora, quando la casa editrice Sovera mi ha chiesto di raccontare per loro un’inchiesta non ho avuto dubbi. Antonella era una donna sola, maltrattata dalla vita e dagli affetti più cari. Ho voluto raccontare chi era Antonella, soprattutto. In fondo il mio non è stato un lavoro prettamente investigativo, ma umano. Il titolo è venuto fuori da solo, durante il mio primo sopralluogo nei luoghi dove la signora Di Veroli viveva ho contato i passi che separano il garage dal portone di casa, quegli ultimi 40 passi che la vittima ha percorso all’aria aperta e che ha percorso anche il suo assassino.

Come in ogni inchiesta che si rispetti, lo studio degli atti è fondamentale: che approccio hai avuto verso questo lavoro di ricerca? Hai dato molto spazio alla rassegna stampa e all’eco mediatico che ebbe tutta la faccenda nel corso degli anni, riportando citazioni da molte testate: come mai questa scelta?

I giornali sono stati protagonisti di questa storia, se ne sono in un certo senso appropriati. È parso quasi che gli inquirenti seguissero le piste investigative dei quotidiani romani e non viceversa. Mi ha colpito non solo lo scandagliare nella vita privata della vittima, ma anche e soprattutto quello che è stato il linciaggio a mezzo stampa operato nei confronti dell’unico imputato del processo, poi assolto. Vittorio Biffani è per me la seconda vittima di questa storia terribile.

La tua indagine è stata minuziosa e ti sei avvalso del contributo di molti esperti per provare a tracciare un profilo, sia della vittima, sia dell’assassino, che ti permettesse di ricostruire la vicenda. Chi sono i professionisti che ti hanno guidato nel tuo percorso?

Innanzitutto ho avuto la fortuna di avere in prefazione un intellettuale, un autore bravissimo come Marco Marra, che conduce “Storie Nere”, trasmissione cult di Rai Tre, che ha riletto da un punto di vista tutto nuovo quello che, appunto, i casi di cronaca accendono nell’opinione pubblica. I professionisti che mi hanno accompagnato in questa avventura sono degli esperti forensi: Virginia Ciaravolo e Sara Cordella hanno ricostruito, attraverso i dati in nostro possesso, le foto della scena del crimine e gli scritti che Antonella Di Veroli ha lasciato, un’autopsia psicologica e grafologica, rivelandoci la personalità della vittima, mentre a Simone Montaldo ho chiesto di regalare a chi legge un profiling dell’omicida, da cui ognuno dei lettori può ricavare elementi per farsi una propria idea su chi possa aver compiuto un delitto cosi efferato.

Che scrittore sei? Da dove nasce la tua esigenza di scrivere e di occuparti, in particolare, di casi di cronaca nera? È una passione che coltivi da molto?

I fatti di cronaca mi appassionano da sempre, sono cresciuto registrando le puntate di “Telefono Giallo” di Corrado Augias, adoro la capacità narrativa di Carlo Lucarelli e sono da sempre un lettore di grandi classici del giallo. Forse la mia esperienza nel campo della critica cinematografica, di cui scrivo su diverse testate mi ha portato ad appassionarmi alle vicende che sono dietro un film o un racconto. Ecco, in fondo io racconto storie, un narratore curioso di ogni aspetto umano, amo cogliere gli aspetti più intimi delle relazioni tra le persone. In fin dei conti un omicidio, come questo, è, essenzialmente, un corto circuito relazionale, qualcosa di particolare che ha fatto da detonatore all’esplosione improvvisa di violenza.

Parlaci dei tuoi progetti per il futuro: stai già lavorando al prossimo libro? Puoi svelarci, in anteprima, di cosa ti occuperai?


Sì, sono al lavoro su due progetti distinti, sempre casi di cronaca insoluti: il primo uscirà questo inverno, non posso rivelare, per esigenze editoriali, quale sia il caso specifico, ma sarà forse più del “caso Di Veroli” un intrigo relazionale più che investigativo. Un corto circuito anche questo pieno di mistero. 

venerdì 17 aprile 2015

Guglielmo Mollicone: ricordiamo Serena!


Cosa si può chiedere a un padre che ha perso una figlia per mano di qualcuno che è ancora impunito?
Quando mi si è presentata l’opportunità di raccontare la storia di Serena Mollicone attraverso le parole di suo padre, Guglielmo, ho capito che la prima a doversi fare delle domande sono proprio io.
Serena scompare da Isola Liri, vicino Arce, il primo giugno del 2001 e il suo corpo senza vita viene ritrovato due giorni dopo nel bosco di Fontecupa, oggi Fonte Serena. Mani e piedi legati, un sacchetto del supermercato in testa, così, come un rifiuto da smaltire: una morte atroce dopo una lunga agonia. Ma il vero orrore viene dopo: a quasi quindici anni dalla vicenda giustizia non è stata fatta. Tutti sanno? Probabile e Guglielmo lo dice a gran voce da sempre, tuttavia a nulla sono servite le indagini, i processi, il clamore mediatico. Il colpevole è ancora a spasso. Almeno per ora.
E nel frattempo? Che succede intanto? Mandiamo la pubblicità? No. E non è una critica al sistema. Ma il tempo passa, la vita scorre, come si dice.
Come si entra nell’intimo di chi ha vissuto un dolore così innaturale, da sembrare assurdo? Cosa potrei aggiungere io? Proprio niente. Nessuna novità, nessuna congettura, nessuna ricostruzione dei fatti.
Siamo qui solo per ricordare. E volutamente dico: ricordare. Ricordare implica un’azione quotidiana, alla portata di tutti. Un’elaborazione attiva di un evento che nessuno può lasciare indifferente. Faremo come i rapsodi che cantavano l’ira di Achille e i viaggi di Odisseo: racconteremo per ricordare, tramandare, trasmettere. Imparare e insegnare, allo stesso tempo.
E allora sedetevi con me e Guglielmo e dedicate cinque minuti del vostro tempo a Serena.
Ma non per sapere com’è andata a finire o che novità ci sono sul caso, perché, vi anticipo, rimarrete delusi. Nessuno scoop. Non è un romanzo giallo o un thriller alla tv. Siamo seduti ad aspettare giustizia e da molti anni ormai. E facciamo ciò che rende l’uomo un animale sociale: ci sosteniamo nella memoria della nostra unicità di individui, imparando a vivere nel nostro tempo.

Chi era Serena e quante volte al giorno pensa a lei?

Serena era una ragazza fuori dal comune: era una ragazza sensibile, sempre pronta ad aiutare chi era in difficoltà come gli animali, gli anziani, i tossicodipendenti. La causa della sua morte è proprio il suo altruismo. Serena quel fatidico primo giugno 2001 era andata nella Caserma di Arce per denunciare lo spaccio di droga che avveniva in paese e lì, purtroppo, che secondo me ha trovato il suo carnefice. Chi doveva salvaguardarla, chi l’ha uccisa e poi è riuscito a depistare le indagini? Questo è il pensiero e non mi stancherò mai di dirlo.
Penso a Serena ogni giorno. La sogno spesso e quando accade la sogno sempre piccola, perché per me è rimasta la mia bambina, nonostante avesse ormai diciotto anni e fosse una ragazza molto più matura della sua età. Serena, infatti, aveva perso la mamma a soli sei anni e questo l’aveva portata a farsi forza sin da piccola e a crescere in fretta, senza però perdere la sua semplicità e la sua lealtà verso il bene ed il buono.

In questi anni qual è stato il momento più difficile, la situazione più assurda contro cui si è scontrato?

Sicuramente quando, il giorno del funerale fui prelevato dalla Chiesa per mettere delle firme in Caserma. È stato un episodio spiacevole e davvero inconcepibile. Quello è stato il più grande depistaggio mai fatto, perché ha distolto l’attenzione dal carnefice, spostandola sulla famiglia di Serena che, in quel momento, doveva solo piangerla e riunirsi nel proprio dolore. Sono sincero, in quell’istante non l’ho capito, altrimenti non mi sarei allontanato. Dovevo solo mettere una firma, ma mai avrei immaginato che ci sarebbero volute ben tre ore.

Di fronte ad una storia così drammatica quanto spesso ci si chiede perché è accaduta e perché proprio a noi?

La storia di Serena ha coinvolto un’intera comunità. È stato il periodo peggiore che il paese abbia mai vissuto: era allo sbando. L’Amministrazione Comunale, la Chiesa, la Caserma tutti pensavano solo al proprio interesse, ai propri rischi: nessuno si preoccupava del proprio dovere sociale, di cosa fosse giusto fare per la scoperta della verità. E intanto otto ragazzi erano già morti di overdose. Ma la cosa sembrava non toccare le Autorità. Forse perché non si trattava dei loro figli? Forse perché la verità può far male più della morte stessa?
La morte di Serena, in un certo senso, è servita a far rigenerare il paese. Dopo la scomparsa di Serena nessun altro giovane è più morto a causa della droga. Il sacrificio di mia figlia è servito, almeno, ad arginare quella che, allora, era davvero una piaga, giacché il paese, a quell’epoca, risultava essere ai primi posti, in Europa, per numero di tossicodipendenti e di morti legate all’uso di sostanze stupefacenti. Oggi, fortunatamente, le cose sono cambiate.
La solidarietà che ho ricevuto dalla comunità mi è stata di grande conforto. L’intero paese mi è stato accanto e ha dimostrato grande sensibilità. Ricordo che, immediatamente dopo la morte di Serena, i colleghi della scuola avevano perfino organizzato una colletta in modo tale che io non dovessi preoccuparmi nemmeno della spesa!

Come si fa a non essere solo arrabbiati?

Quello che più mi spinge ad andare avanti e a cercare di superare la rabbia per l’accaduto è l’aiuto di Serena e di mia moglie che dall’aldilà mi sostengono. Molti altri genitori che hanno perso dei figli non ce l’hanno fatta. Io invece trovo proprio in Serena e nel suo ricordo la forza e il coraggio di vivere e cercare giustizia. È un dovere verso la sua bontà ed il suo altruismo, è un dovere verso tutte le persone che mi stanno vicino.

Chi sarebbe oggi Serena?

Sicuramente Serena mi avrebbe reso nonno. Non so se si sarebbe sposata, forse avrebbe preferito una convivenza, ma desiderava con tutto il cuore una famiglia. E sarebbe stata un’ottima madre, premurosa e attenta.
Sono certo che sarebbe diventata anche una brava veterinaria: quello era il suo sogno, prendersi cura degli animali in difficoltà. E sono convinto che, forse, non si sarebbe nemmeno fatta pagare per il suo lavoro da chi non avesse potuto permetterselo, tanto era generosa e altruista. Era fatta così: pur di aiutare non avrebbe pensato affatto al guadagno!

Quali sono stati, in questo lungo periodo di dolore, i cinque minuti di felicità, che le hanno permesso di andare avanti?

Mi sono reso conto subito che avrei dovuto combattere una dura e, probabilmente, lunga battaglia per ottenere giustizia e che la cosa più importante sarebbe stata cercare di tenere alta l’attenzione il più possibile sulla storia di Serena, perché nessuno si dimenticasse di lei e del suo sacrificio.

I media hanno contribuito molto in questo, assieme a tante persone che mi sono state accanto, ma la vera forza la trovo ogni giorno proprio in Serena. Il suo ricordo e la sua presenza mi danno sostegno in ogni momento più di ogni altra cosa. Serena è accanto a me, oltre che in Paradiso. Chi me l’ha tolta dalla Terra non me la può togliere dal cuore.

www.serenamollicone.it

domenica 12 aprile 2015

Alessandro Cascio: come si diventa Investigatore Privato


Aspiranti Sherlock Holmes nostrani, se credete che per diventare un buon investigatore privato in Italia vi basti iniziare a fumare la pipa, esclamando elementare Watson, l’intervista che segue fa proprio al vostro caso. Sarà Alessandro Cascio, investigatore privato dalla carriera esemplare e oggi titolare della Demetra Group e Segretario Nazionale dell’APIS, Associazione Professionale del settore, a spiegarci come, in questo mestiere, non ci sia nulla di elementare. Quindi posate l’impermeabile nell’armadio e preparatevi a tanto studio e tanta pratica sul campo, ma solo dopo aver letto attentamente quanto segue…

Quella dell’investigatore privato è una figura che gode di un fascino particolare, alimentato dal cinema e dalla letteratura. Ma chi è realmente l’investigatore privato in Italia? Quali sono i requisiti richiesti e di cosa può occuparsi? Cosa è cambiato dopo la riforma legislativa del 2010?

La professione dell’investigatore privato è ricca di significati stereotipati e di rado si attua con l’espletamento di incarichi rocamboleschi come vorrebbe l’immaginario collettivo. Oltre ai requisiti previsti dalla norma vigente egli deve avere, non dimenticatelo, doti imprenditoriali, perché un’agenzia investigativa è un’impresa commerciale a scopo di lucro. La riforma attuata con il D.M. 269/2010 prevede che l’aspirante abbia una laurea triennale (a scelta tra Giurisprudenza, Psicologia a Indirizzo Forense, Sociologia, Scienze Politiche, Scienze dell’Investigazione o Economia) ed abbia svolto un periodo di tre anni alle dipendenze di un istituto di investigazioni private (un vero e proprio praticantato svolto presso un investigatore privato esercente l’attività da almeno cinque anni e con esito positivo debitamente attestato).
Rispetto a prima le autorizzazioni prefettizie, cosiddette licenze, permettono agli investigatori privati di svolgere la loro attività su tutto il territorio nazionale e di utilizzare sistemi di pedinamento elettronici (GPS). Gli atti atipici denominati “appostamenti” e “pedinamenti” sono stati esplicitamente riconosciuti e autorizzati dal nuovo impianto normativo e si è data, finalmente, una legittimazione anche ai collaboratori e dipendenti, un tempo figura ibrida.
Le attività permesse sono, in estrema sintesi, le indagini in ambito privato, aziendale, commerciale (antitaccheggio), assicurativo, difensivo (sfera penale), ma anche, per esempio, la security nelle discoteche.
La realtà è che le attività prevalenti degli investigatori privati nostrani sono e restano le indagini afferenti il “diritto di famiglia”, con particolare riguardo per la verifica della fedeltà del partner.

Sappiamo che all’estero le cose sono ben diverse, soprattutto nei Paesi che abbracciano un sistema legislativo di stampo anglosassone: quali sono le principali differenze, secondo la tua personale esperienza?

In Europa esistono norme, purtroppo, dissimili che regolamentano la figura dell’investigatore privato e si sente l’esigenza, più che mai, di uniformarle, in ossequio, del resto, ad una direttiva in vigore sin dalla fine del 2007 sulle “professioni regolamentate”. In Inghilterra, per esempio, non esiste alcuna licenza per emulare Sherlock Holmes, ovvero per cimentarsi nelle investigazioni private ed io penso che sia la strada più giusta. Liberalizzare le professioni coincide, oltretutto, con l’orientamento europeista. Per restare nel Regno Unito è prevista, invece, una licenza specifica per fare la guardia del corpo (close protection), attività da noi assolutamente vietata, e da qui si comprende come il nostro ordinamento sia, a riguardo, arcaico e obsoleto.

In tanti anni di professione di cosa ti sei occupato principalmente? Chi sono stati i tuoi maestri e contro quali ostacoli ti sei imbattuto? Raccontaci un aneddoto o un episodio che è rimasto scolpito nella tua memoria.

La mia esperienza investigativa è stata, credo, differente da quella dei miei colleghi, in quanto ho lavorato prevalentemente per le altre agenzie investigative e pochissimo per clienti privati, così come testimonia il “registro degli affari” della Demetra Investigazioni, agenzia di cui sono stato titolare dal 2004 al 2009 prima di trasferirla all’estero. Questo mi ha permesso di collaudarmi in indagini particolari e di una certa complessità. Prima di allora il mio praticantato, durato ben cinque anni, al servizio delle più affermate agenzie investigative del capoluogo piemontese, mi ha permesso di acquisire i rudimenti. In seguito mi sono specializzato soprattutto come autodidatta, spinto e sostenuto dalla passione, dall’ostinazione e dall’esigenza inesauribile di documentarmi a fondo su ogni aspetto delle indagini che mi venivano assegnate.
Gli ostacoli sono rappresentati dalla legge italiana che non concede alcuno strumento al detective, mettendolo alle strette e, spesso, obbligandolo a commettere imprudenze, per non dire reati, pur di ottenere le informazioni che gli occorrono.
Gli aneddoti e i ricordi sono moltissimi. L’intervista che feci a due sorelle ripetutamente violentate rispettivamente dal padre e dallo zio mi rimase molto impressa per la drammaticità dei fatti. Anche un altro caso di pedofilia in cui il soggetto corteggiava le compagne di classe della figlia all’interno di un maneggio rimane tra i miei ricordi più vivi. Storico un pedinamento condotto con due auto e quattro agenti che ci portò dal Piemonte alla Calabria senza mai perdere il soggetto ed evitando che questi si accorgesse di noi. O un rintraccio all’estero risolto con due telefonate. Commovente il ricongiungimento di due fidanzatini in lite dove lei, malata terminale, chiedeva di trascorrere l’ultimo capitolo della sua vita in compagnia del suo innamorato e noi, vestendo le parti del suo medico curante convincemmo il fidanzato ad attuare quello che si potrebbe definire un riavvicinamento terapeutico.
E sono davvero tanti altri gli episodi interessanti, anche divertenti, che vorrei raccontarvi: ancora uno, suvvia! Non riuscivo a fotografare una coppia di giovani amanti a passeggio in una via pedonale affollata, durante una serata estiva afosa. Uscii allo scoperto con tanto di reflex e teleobiettivo. Li misi in posa qualificandomi come un fotografo che stava sperimentando una particolare pellicola e, con la scusa di regalare loro un poster, ottenni anche dati anagrafici, indirizzi, ecc. e delle foto, naturalmente, eccezionali! Quando le consegnai all’agenzia che mi aveva commissionato l’indagine la titolare non volle credere ai propri occhi!


Sei tra i soci fondatori dell’APIS, Associazione Professionale Investigazioni e Sicurezza: di cosa vi occupate principalmente e quali sono i vostri obiettivi futuri? Che ruolo svolgono queste Associazioni sia nei confronti dei professionisti, che dei consumatori o degli appassionati?

L’APIS è la prima, e per ora l’unica, associazione professionale (da distinguersi dalle associazioni di categoria), che riunisce e rappresenta professionisti appartenenti al settore delle investigazioni e della security, nel rispetto della Legge n. 4 del 14/01/’13.
Essa ha diverse finalità tra cui perseguire rivendicazioni nell’interesse delle categorie rappresentate, proporre modifiche legislative per migliorare l’attuale quadro normativo, certificare i nostri associati per validarne la professionalità e sottoporli ad un aggiornamento costante per valorizzare le loro competenze.
Rispetto ai consumatori li orientiamo a scegliere professionisti affidabili e mettiamo a loro disposizione uno sportello reclami per dissipare eventuali controversie con i nostri tesserati osservando, così, anche il Codice del Consumo.
Tra gli appassionati raccogliamo gli studenti di determinate facoltà quali soci simpatizzanti, affinché maturino una coscienza adeguata alla complessità dei problemi inerenti queste professioni, attraverso il confronto e il dibattito con i veterani del settore.

Cosa consiglieresti a un giovane che oggi, in Italia, volesse realizzare il sogno di diventare investigatore privato? Quali potrebbero essere le attuali prospettive? Aiutaci a sfatare qualche mito, ma non troppo!

L’imprenditoria nel nostro Paese è in agonia e le agenzie investigative non sono immuni da questa crisi devastante. Chi volesse intraprendere codesta professione è un coraggioso perché deve aprirsi una partita iva, non per altre ragioni! Le prospettive dipendono, in larga misura, dal decisore politico che monopolizza il nostro ed il vostro futuro. Se proprio non ne potete fare a meno, per diventare un buon detective tenete conto che occorrono molti anni di umile e attento apprendistato, forgiandosi con un esperto, e trovarne in giro non è facile! Serve, inoltre, tanta esperienza pratica evitando, però, di cedere all’improvvisazione e di condurre le indagini solo applicando il metodo empirico e affidandosi unicamente al proprio intuito.
Buona fortuna!

www.associazione-professionale.org

www.demetragroup.it



venerdì 10 aprile 2015

“Il mistero del bosco. L’incredibile storia del delitto di Arce” di Pino Nazio


È il primo giugno del 2001: Serena Mollicone, una diciottenne dal sorriso solare e dall’indole generosa, scompare senza lasciare traccia da Isola Liri, un piccolo paese del frusinate poco distante da Arce, cittadina d’origine della ragazza. Il suo corpo senza vita viene ritrovato due giorni dopo da una squadra della Protezione Civile nel boschetto di Fontecupa: mani e piedi sono legati con nastro adesivo e fil di ferro e la testa è avvolta in un sacchetto di plastica del supermercato. L’unica ferita presente sul cadavere si trova vicino all’occhio destro ed è stata causata da un colpo violento che però da solo non può essere stato sufficiente a provocarne il decesso. Serena è morta dopo molte ore di agonia e il suo corpo, abilmente manipolato, è stato portato nel bosco dove è stato rinvenuto solo poche ore prima del ritrovamento. Da allora l’assassino e i suoi complici sono rimasti impuniti.
Sono passati ormai quasi quindici anni da questa tragica vicenda e attualmente, nonostante molti sembrino conoscere la verità o esserci arrivati molto vicini, non è stato possibile mettere la parola fine a questo mistero. Nella speranza che la storia di Serena non venga dimenticata, Pino Nazio, sociologo, giornalista e brillante autore televisivo, ripercorre nel suo libro “Il mistero del bosco. L’incredibile storia del delitto di Arce”, Sovera Edizioni, tutte le tappe della vicenda, purtroppo meno nota di altri casi di cronaca nera che hanno visto coinvolte giovani donne negli ultimi decenni, ma non per questo meno importante.
L’autore, come già sperimentato in sue precedenti opere riguardanti altri noti fatti di cronaca, utilizza magistralmente la tecnica del cosiddetto romanzo-verità, inserendo la cronistoria degli avvenimenti realmente accaduti in una cornice narrativa interessante e ben scritta, che rende la lettura complessivamente meno gravosa e più avvincente. A fare da perno della storia, introducendola e traendo poi le sue conclusioni, è il personaggio di fantasia Jacopo Ammirati, talentuoso giornalista, che, attraverso un suo informatore, entra in contatto con Lucrezia, una donna molto bella che sembra essere assai informata sulla storia di Serena e che consegna a Jacopo un plico contenente un libro da lei scritto sulla tragica vicenda, ma mai pubblicato, perché privo del finale. La parte centrale e più estesa del romanzo è affidata proprio alle pagine di questo libro che Jacopo divora, ripercorrendo tutte le tappe della storia della famiglia Mollicone: il matrimonio felice tra Guglielmo e Bernarda, i genitori di Serena, la nascita delle loro figlie, i problemi di salute di Benarda, l’infanzia di Serena, fino alla scomparsa e al successivo tragico ritrovamento, con tutto ciò che seguì, dalle indagini difficili a causa della presenza di figure controverse che sembravano aver interesse a coprire la verità, fino allo spasmodico, a tratti malato interesse mediatico, al processo, alla riapertura di nuove indagini grazie a un nuovo testimone, che però non hanno avuto risultati. Alla fine di questa narrazione è di nuovo Jacopo a prendere le fila del romanzo, conducendo il lettore verso la sua personale ricostruzione dei fatti, che rispecchia naturalmente l’opinione dell’autore stesso.
Il romanzo, scritto anche grazie al supporto del padre di Serena, Guglielmo Mollicone, e di Maria Tuzi, figlia di Santino, il brigadiere dei Carabinieri di Sora, morto apparentemente suicida nel 2008 e la cui figura fu ricollegata al caso, è steso in modo semplice, diretto, scorrevole. Tanto la parte narrativa, quanto quella di taglio più squisitamente giornalistico, sono declinate in modo tale da tenere alta la tensione, come si richiede a un thriller, e, nello stesso tempo, informare puntualmente su fatti troppo spesso mistificati in passato e sui quali rischiava di cadere l’oblio. Lo stile è pulito, i dialoghi coinvolgenti, la cornice narrativa completamente convincente, per quanto breve. Unica nota negativa: la presenza di qualche refuso di troppo, in qualche caso perfino troppo grave per essere considerato un semplice errore di stampa.
Resta tuttavia all’autore l’insindacabile merito di aver contribuito a tenere alta l’attenzione su un caso di cronaca nera non più recentissimo, ma ancora tutto da definire e che è l’emblema di come non sempre verità e giustizia siano destinate a incontrarsi, nonostante tutti sappiano bene come siano realmente andate le cose. Un libro che racconta la vita è sempre un buon libro.



giovedì 9 aprile 2015

Silvia Mainas e App Scomparsi: sulle tracce di chi scompare


È trascorso quasi un secolo da quando una rubrica della Domenica del Corriere, chiamata Chi l’ha visto?, pubblicava le foto e i dati di alcune persone scomparse e oltre venticinque anni dalla messa in onda della prima puntata dell’omonimo programma di Rai Tre che, ancora oggi, si occupa di tenere alta l’attenzione dell’opinione pubblica sull’allarmante fenomeno degli scomparsi. Dal punto di vista legislativo, negli ultimi anni, sono stati fatti dei passi in avanti per tentare di affrontare il problema in modo più tempestivo e efficace e lo dimostra la creazione di un Commissario straordinario del Governo per le persone scomparse, ma la strada da percorrere è ancora lunga. Perché allora non affidarsi alle ultime tecnologie in grado di contribuire alle ricerche delle persone di cui si sono perse le tracce? Ci hanno pensato i creatori dell’ App Scomparsi, una nuovissima applicazione gratuita e disponibile in tutti gli store, in grado di coniugare l’efficacia del passaparola e la potenza della tecnologia, con la volontà di tutti coloro che vogliano contribuire, attraverso le loro segnalazioni, al ritrovamento di chi è scomparso. Un nuovo strumento decisamente all’avanguardia che permette ai familiari di diffondere i dati e le immagini dei loro cari in tutto il mondo, nel tentativo di accorciare i tempi e affiancare alle indagini degli esperti la collaborazione di chiunque voglia rendersi utile. Ma come funziona l’App Scomparsi? Lo abbiamo chiesto a Silvia Mainas, una delle ideatrici e creatrici di questo ambizioso e innovativo progetto.

Quella degli scomparsi è una questione spinosa che le attuali leggi riescono a dirimere solo in parte: da dove nasce l’esigenza di creare un’App che possa mobilitare più persone possibile a seguire le tracce di chi è scomparso?

L'idea di creare una applicazione di questo tipo nasce dal fatto che la scomparsa di una persona, a parer nostro, deve essere gestita con immediatezza: i minuti e le prime ore sono fondamentali per tracciare un eventuale percorso e agire di conseguenza. Niente può essere più veloce dell'inserire la scheda di uno scomparso sulla nostra applicazione. Avvalersi del GPS, infatti, e cliccare un semplice tasto permette ai familiari di diramare a livello mondiale foto e scheda del proprio caro.
In questi ultimi tempi abbiamo il vantaggio di avere dei cellulari all'avanguardia che ci permettono di cercare qualsiasi cosa: perché non utilizzarli per un fine così sociale, mettendoci a disposizione dei familiari che chiedono aiuto? Inoltre crediamo realmente nella cooperazione di tutti i cittadini e stiamo mettendo nelle loro mani uno strumento efficace. Chiediamo solo che prestino attenzione a chi hanno attorno in modo da poter essere utili. Sono tante le persone che vogliono collaborare, le stesse persone che si adoperano per mettere dei volantini in tante città, che credono nel passaparola sui social: noi gli abbiamo creato un App, devono solo farla entrare nella loro routine giornaliera.

Come vi siete approcciati concretamente a questo progetto? Chi ha collaborato con voi e quali difficoltà avete incontrato lungo il percorso?

Considerando la tematica trattata è stato naturale e corretto adottare un approccio soft, si è iniziato quindi con l’analizzare quelle che sono le leggi in materia, abbiamo contattato il Garante della Privacy e seguito quelle che sono le linee guida per non ledere i familiari e lo scomparso stesso.
Una volta ideato e messo su carta il nostro progetto, abbiamo affidato la nostra idea ad uno sviluppatore di App che ha materialmente creato il prodotto che adesso trovate nei market per Android e Apple Store.
Il punto dolente è la difficoltà che abbiamo trovato e che troviamo tuttora in merito alla pubblicizzazione di AppScomparsi: abbiamo contattato diverse testate giornalistiche e programmi televisivi per attenzionarli sul fatto che esiste una applicazione di questo tipo, ma i riscontri sono stati praticamente nulli. Solitamente quando si parla di tematiche sociali dovrebbe quasi essere automatico divulgare quello che è uno strumento utile a tutta la società, invece sta avvenendo il contrario. Ci teniamo a precisare che senza una divulgazione di massa l'App perde di utilità.

Sappiamo che l’App Scomparsi è scaricabile gratuitamente da tutte le piattaforme sui nostri smartphone: quali sono le sue principali funzioni?

Abbiamo studiato attentamente ogni singola parte che compone questo applicativo, la funzione innovativa è indubbiamente quella denominata 'Intorno a me'. Qualora nel raggio di qualche chilometro dal posto in cui ci troviamo sia appena stato avvistato uno scomparso, riceveremo una notifica quale implicito invito a tenere gli occhi aperti.
Ovviamente non abbiamo tralasciato un aspetto prettamente tecnico, ossia la facoltà dell'utente che utilizza l'App di attivare e disattivare la geolocalizzazione in modo da poter controllare i consumi della propria batteria.
Ma continuiamo a credere che la vera innovazione è l'immediatezza che si ha nell'inserire una scheda che in pochi minuti potrà essere visibile in tutto il mondo.

Facciamo un bilancio dei primi mesi di attività: quali riscontri avete avuto finora? Raccontateci un episodio significativo che vi ha dato conferma di stare perseguendo la strada giusta.

Ci piacerebbe affermare che grazie ad AppScomparsi si sia riusciti a localizzare uno scomparso ma proprio come detto inizialmente, l'App deve essere divulgata in modo più massivo per poter raggiungere questo risultato.
Abbiamo un appoggio morale significativo da parte dei familiari delle persone scomparse, che ci esortano a pubblicizzare il più possibile questo strumento. Anche le persone a cui non è scomparso un caro, ma che ruotano attorno a questa tematica sociale, si complimentano per la nostra idea e in attesa che l'App diventi virale, ci auspichiamo di raggiungere l'obbiettivo prefissato ossia trovare, in tempi rapidi, la persona scomparsa.

Un aiuto concreto per sostenere le famiglie degli scomparsi, ma anche un mezzo per tenere alta l’attenzione di tutti su questo fenomeno: quali sono i vostri obiettivi futuri in una società dominata dai Social Network?

Gli ultimi dieci anni sono stati molto significativi dal punto di vista tecnologico: grazie ai Social Network si sono raggiunti grandi obbiettivi. Il ritrovamento stesso delle persone scomparse sta diventando prioritario per Facebook e Twitter, questo ci dimostra che le persone chiedono aiuto, hanno speranza e credono fortemente che dietro un monitor ci sia qualcuno pronto a rendersi utile.
Stiamo percorrendo la strada giusta, le persone devono affidarsi alle altre persone: dove non arrivano gli occhi del familiare devono arrivare gli occhi dei cittadini e solo in questo modo si potranno ritrovare i propri cari.
AppScomparsi ha un ruolo fondamentale in tutto questo, in quanto permette una segnalazione assolutamente anonima e immediata. Pensiamo a chi viaggia spesso, a chi lavora in luoghi dove c'è sempre tanta gente: questi cittadini dovranno solo prendere il cellulare in mano, scorrere le schede inserite e prestare attenzione. In un attimo potrebbero cambiare la vita di quelle famiglie che rimangono sospese, in attesa di una risposta.