mercoledì 20 novembre 2019

Toy Story 4: un inno alle imperfezioni e alle seconde possibilità



Quando Pixar e Disney sono diventati una cosa sola, in molti hanno storto il naso. Vuoi mettere questi personaggi computerizzati coi cartoni di una volta, quelli fatti a mano, alla vecchia maniera? In effetti è stata la fine di un’epoca, ma anche l’inizio di una nuova era e oggi quei protagonisti frutto di una nuova tecnologia che sembravano un po’ freddi rispetto a Pinocchio, Mago Merlino e Biancaneve, sono entrati nel cuore e nell’immaginario di un’intera generazione di giovani adulti, segnandone i ricordi di un’infanzia felice.


Quando lo sceriffo Woody e lo space ranger Buzz hanno fatto il loro ingresso nei cinema e poi nelle camerette dei bambini di mezzo mondo era il lontano 1995 e le loro avventure sono state le prime interamente realizzate in computer grafica. Dopo Toy Story – Il mondo dei giocattoli, ci sono stati Toy Story 2 – Woody e Buzz alla riscossa nel 1999, Toy Story 3 – La grande fuga nel 2010 e, la scorsa estate, Toy Story 4, appena uscito in DVD, ha messo (forse) fine alla quadrilogia Disney-Pixar più amata degli ultimi vent’anni con un ultimo capolavoro di animazione e contenuti particolarmente profondi, non solo per i bambini, ma anche per i loro genitori e per gli adulti in generale. Si tratta di un film d’animazione d’eccellenza nel quale l’unica cosa di cui si sente la mancanza è la voce di Fabrizio Frizzi, che, nei precedenti cartoni, ha doppiato lo sceriffo Woody con grande simpatia e tenerezza.
Ma facciamo un piccolo passo indietro, per chi non ricordasse cosa è accaduto nei primi capitoli della saga. Nel primo film Woody, un giocattolo vecchia maniera, è il preferito del piccolo Andy e governa, a suo modo, il colorato microcosmo della cameretta del suo bimbo. Tutto sembra filare liscio, almeno finché non arriva un giocattolo di nuova generazione: lo space ranger Buzz Lightyear che ben presto “spodesta” Woody dal suo ruolo di favorito e di punto di riferimento di tutti gli altri giochi. Tra i due balocchi c’è un’accesa rivalità, ma una serie di peripezie alquanto pericolose, li porteranno a ricredersi l’uno sul conto dell’altro, fino a stringere una forte amicizia che li vedrà uniti al fianco del piccolo Andy il quale, ignaro della prorompente vitalità dei suoi giocattoli preferiti, cresce felice e spensierato.


Nel secondo film, l’armonia sembra essere tornata, ma, mentre sta giocando con Andy, a Woody si scuce un braccio. Per errore Woody finisce in un mercatino di quartiere dove, una volta ogni tanto, vengono venduti o donati tutti i vecchi giocattoli rotti o ormai in disuso. Buzz e il suo seguito, però, non hanno nessuna intenzione di abbandonare l’amico sceriffo e lo recuperano a casa di un collezionista che lo ha acquistato per venderlo, assieme a nuovi personaggi come Jessie la cowgirl, a un museo in Giappone. Ma cosa è più importante: essere ammirati dai bambini di tutto il mondo o vederne crescere solo uno che amiamo incondizionatamente, anche quando il gioco della vita ci mette a dura prova? All’inizio Woody è confuso, ma ben presto troverà dentro di sé la risposta a questa domanda e tornerà alla sua vita di sempre, assieme a tutti i suoi amici.
Nel terzo film, Andy è ormai cresciuto e sta per andare al College, ma ancora non si è deciso a “sbarazzarsi” dei suoi giocattoli preferiti che tiene chiusi in un baule in camera sua. Woody, Buzz e gli altri vivono nella speranza che Andy non li regali, ma per errore, invece di essere portati in soffitta, finiscono tutti nello scatolone destinato a essere donato all’asilo di Sunnyside. Lì Woody, Buzz e tutti gli altri (a esclusione della pastorella Bo Peep alla quale Woody era molto legato e che, in questo terzo episodio, sembra essere stata data via da tempo) scopriranno quanto è difficile la vita di un giocattolo che non ha un solo “padrone”, ma deve essere condiviso da tanti bambini. Alla fine i nostri coraggiosi eroi di plastica, pezza e batterie riescono a ricongiungersi al non più piccolo Andy il quale, ormai pronto per diventare adulto, decide di donarli a una bambina di nome Bonnie permettendo a tutti di ricominciare una nuova vita.


In Toy Story 4 la storia riprende da dove si era interrotta quasi dieci anni prima, ma con una prospettiva decisamente capovolta rispetto al passato: mentre tutti gli altri giocattoli, Buzz e Jessie compresi, sembrano essere stati accolti dalla piccola Bonnie con grande entusiasmo, Woody viene sempre lasciato da parte e non è più il giocattolo preferito che era abituato a essere. Nonostante ciò, la sua coscienza di giocattolo lo porta a preoccuparsi continuamente del benessere della sua bambina, proprio come faceva col suo amato Andy. Quando Bonnie, durante una giornata di orientamento all’asilo, costruisce un giocattolo con una forchettina di plastica che sarebbe dovuta finire nella spazzatura, Woody prende subito a cuore il nuovo arrivato, che non si sente affatto un balocco, perché lo sceriffo si rende conto della grande importanza che questo giocattolo sui generis ha per la bambina. Durante un viaggio in camper prima dell’inizio della scuola, Woody avrà un bel da fare col ribattezzato e disubbidiente Forky e, tra mille peripezie, in un vecchio negozio di antiquariato e giocattoli antichi incontrerà di nuovo la sua amata Bo Peep che, stufa di passare il tempo sugli scaffali del polveroso negozio, è fuggita assieme a una variopinta banda di giocattoli smarriti e ha iniziato una nuova avventurosa esistenza. Bo Peep non è più la perspicace pastorella di un tempo, ma è diventata un’indomita avventuriera che conserva nel cuore i ricordi della sua bambina Molly, la sorellina di Andy, ma sa che il mondo è tanto grande e così pieno di bambini, che non vale la pena di lasciarsi andare alla malinconia, come fa sempre Woody. In fondo non si sente anche lui profondamente “smarrito” negli ultimi tempi? Cosa deciderà Woody per il suo futuro: tornerà dalla piccola Bonnie, come gli suggerisce la sua coscienza di giocattolo, per cui è inconcepibile non avere un bambino speciale di cui prendersi cura, o seguirà il suo cuore che lo vorrebbe accanto a Bo Peep in cerca di nuove avventure e di una seconda possibilità, anche se ciò significa dire addio agli amici di sempre?


Non ho nessuna intenzione di rivelarvi il finale nient’affatto scontato, ma posso dire che in Toy Story 4 ho trovato più spunti di riflessione adatti a tutte le età, rispetto a tanti film ideati per noi “grandi” e che si prendono decisamente troppo sul serio in quanto a valori morali e via dicendo.
Toy Story 4 è un film sull’importanza delle seconde possibilità e sulla capacità di reinventarsi sempre davanti ai colpi di scena della vita. È un film che dimostra come non occorra affatto essere perfetti, anche in una società che ci vuole sempre “nuovi” e invincibili. È un film che racconta come nella vita quotidiana ci si possa “smarrire”, ma poi tornare a essere se stessi più di prima, affrontando ogni genere di cambiamento e scoprendo di possedere virtù e qualità che non si pensava di avere. È un film che spiega ai più piccoli come uscire dalla propria comfort zone possa mettere paura all’inizio, ma possa anche essere una splendida avventura che non ci negherà il conforto dei bei ricordi, aiutandoci, invece, a costruirne di nuovi, giorno dopo giorno, perché, come diceva qualcuno: “non è finita, finché non è finita” e i bambini queste cose le capiscono istintivamente, per fortuna.
Personalmente ho visto questo film per la prima volta con mia figlia in una mattinata di pioggia e di febbre e ho versato qualche lacrimuccia, ripensando alla prima volta che ho visto il primo capitolo della saga, quando la bambina con la febbre ero io. “Perché piangi, mamma?”, mi ha domandato mia figlia (tre primavere non ancora compiute). “Perché questo cartone animato è molto bello e, a volte, anche le cose belle fanno piangere,” le ho risposto, senza convincerla fino in fondo.


In fin dei conti noi genitori abbiamo una cosa in comune con tutti i giocattoli (solo apparentemente senz’anima) che ci affanniamo ad acquistare per rendere sempre più felici e curiosi i nostri figli: veder crescere i nostri bambini è tra le avventure più speciali che possiamo vivere nella nostra vita, anche se siamo ben consapevoli che significherà vederli andare via per sempre, prima o poi. Ma ciò non deve impedirci di essere sempre noi stessi, coi nostri pregi e difetti di adulti che, per essere veramente felici, devono cercare di non dimenticare mai quanto sia bello essere bambini.


mercoledì 6 novembre 2019

"I silenzi di Roma" di Luana Troncanetti. La prima indagine dell’ispettore Proietti



Capelli ricci e lunghi, barba incolta, naso aquilino. Abbigliamento trasandato, occhiali alla Serpico e una cicatrice sulla guancia, a memoria del fatto che quello dello sbirro è un duro lavoro, ma, come si dice, “qualcuno deve pur farlo”. Paolo Proietti è l’ispettore capo della sezione omicidi di Roma ed è uno che la divisa e la sua città ce l’ha nel sangue. È solo la sua prima indagine, ma al lettore sembra di conoscerlo da sempre, sin dalle primissime pagine di “I silenzi di Roma”, il nuovo romanzo di Luana Troncanetti, edito da Fratelli Frilli Editori.
Quando un artista di fama internazionale viene trovato morto nel suo appartamento, trucidato in modo brutale, Proietti capisce subito che sarà un’indagine spinosa e complessa, destinata a scoperchiare ambienti celati dietro maschere di convenienza difficili da sradicare. Ma ciò che scopre pian piano, indizio dopo indizio, lo lascia persino più sconvolto e disgustato di quel che vorrebbe ammettere. Proietti sa bene cosa significa lasciarsi coinvolgere troppo personalmente da un caso, come gli è già accaduto in passato, e non vuole che nuovi incubi si sommino a quelli che ancora lo tormentano a causa di un’indagine vecchia di quindici anni, ma quando si rende conto che nell’omicidio dello scultore è stranamente implicato il suo amico fraterno Ernesto, sa che il loro precario equilibrio è destinato a crollare, come un castello di sabbia travolto da onde di burrasca. Paolo ed Ernesto, fratelli non di sangue, ma di spirito, e legati da una lunga e profonda amicizia, nata sui banchi di scuola e cresciuta insieme a loro, saranno costretti a scavare fin troppo a fondo nelle loro anime, aprendo un abisso di dolore difficile da sostenere. A tutto ciò si mescola, capitolo dopo capitolo, la scoperta del malaffare legato all’omicidio dell’artista, conducendo Proietti nelle viscere di una Roma omertosa e ostinata, alla ricerca di una giustizia troppo spesso frettolosa e crudele, che non dà pace, né verità, né alle vittime, né agli innocenti e sembra far perdere l’ispettore in un labirinto di malvagità dal quale sarà difficile venir fuori senza aver definitivamente perso una parte importante del suo cuore.


Se amate le storie nere in cui l’umorismo, talvolta macabro, tiene ancora più alta la tensione, senza negare al lettore un amaro e sardonico sorriso, lo stile tagliente di Luana Troncanetti sarà una tra le sorprese più piacevoli di quest’anno. Diretta, a tratti persino cruda, Luana Troncanetti non ci risparmia nulla, né nei dialoghi, né nelle descrizioni, svelando, in modo estremamente credibile, i segreti più inconfessabili di una Roma complice e muta testimone di tanta violenza, fisica e morale. Una Capitale sporca, dentro e fuori, in cui forze dell’ordine e criminalità troppo spesso devono sporcarsi le mani degli stessi maleodoranti liquami per comprendersi, capirsi e combattersi reciprocamente.
Come alcuni dei suoi predecessori di carta, tra ironia e demoni interiori, Proietti entra a gamba tesa tra gli ispettori destinati a marchiare a fuoco la fantasia dei lettori, perché già da questa prima indagine, la sua creatrice lo mette profondamente in discussione, come autrice e, forse anche come donna, ammantandolo di grande fascino e personalità. Non ci resta che augurarci che questa sia solo la prima di una lunga serie di avventure e disavventure per l’ispettore Paolo Proietti e che magari, indagine dopo indagine, si affianchi a lui un personaggio femminile altrettanto forte, in grado di tenergli davvero testa, perché sarebbe interessante esplorare tutte le dinamiche possibili in merito. E, bisogna ammetterlo, le “candidate” non mancano…