giovedì 28 aprile 2016

Claudio Vastano: gatti, minestre e investigatori


E se l’unico testimone di un brutale assassinio fosse proprio un gatto con la passione per i carboidrati? Perfino un tipo che ha visto tutto, come l’investigatore privato Casper Pestalozzi, fatica a credere allo strano omicidio sul quale si trova a indagare. Un brillante avvocato, infatti, è stato ucciso durante un sontuoso ricevimento e, neanche a dirlo, la polizia brancola nel buio. Solo lo strampalato Pestalozzi, col suo intuito infallibile e ben fuori dagli schemi, può riuscire a far luce su questa intricata vicenda. Perciò preparatevi a un detective che indossa un impermeabile ben diverso da quello del tenente Colombo e fuma di tutto tranne che la pipa di Sherlock Holmes: Casper Pestalozzi, infatti, vive in un monolocale nella periferia di Lucca e ha ben pochi amici, oltre a un ex psicologo con tendenze suicide e a una fidanzata della quale non va affatto fiero. Pestalozzi è un antieroe dei nostri tempi che ispira ben poca fiducia ma che, complice la sua straordinaria empatia e un pizzico di fortuna, riuscirà a scoprire una verità inaspettata e risolvere l’enigma di cui è custode Sisma, il gatto nella minestra.
“L’agghiacciante caso del gatto nella minestra”, Dunwich Edizioni, è il nuovo romanzo di Claudio Vastano, un autore dal talento cristallino, del quale, una volta letto, non saprete più fare a meno. La sua più grande capacità, infatti, è quella di amalgamare la tensione del thriller e l’ironia della commedia con un personalissimo stile squisitamente nostrano, solo vagamente ispirato alle grandi firme d’oltreoceano, inserendo il tutto in una struttura narrativa contemporanea, dove i colpi di scena sono assai più efficaci di qualche ingenua imperfezione. Tra dialoghi taglienti e un protagonista decisamente sopra le righe, le indagini scorrono, una risata dopo l’altra, in bilico tra situazioni grottesche e quel velo di malinconia che caratterizza solo i personaggi più geniali.  



Un omicidio misterioso e un’indagine fuori dagli schemi, condotta da un investigatore decisamente sui generis: sono questi gli ingredienti di “L’agghiacciante caso del gatto nella minestra”, Dunwich Edizioni. Raccontaci la genesi di questo romanzo: cosa ti ha ispirato durante la stesura?

Per quel che riguarda il lato “giallo” della vicenda mi sono ispirato ai vecchi, ma sempre avvincenti classici di Edgar Allan Poe e Agatha Christie. Il mondo che ruota attorno al protagonista, invece, attinge alla verve ironica e pragmatica tipica dei toscani.

Chi è Casper Pestalozzi, lo sgangherato investigatore protagonista di questo libro? Come lo definiresti e, in generale, come delinei i personaggi delle tue storie?

Pestalozzi è un tipico sottoprodotto della nostra epoca. Un soggetto a suo modo geniale in grado di risolvere enigmi che sfuggono alla polizia, ma intrappolato in una strana società in cui talento, arguzia e impegno sono considerate caratteristiche superflue o, peggio ancora, deleterie.
Questo giallo del “gatto nella minestra” si differenzia nettamente dai romanzi che ho scritto fino a oggi: l’habitat narrativo in cui si svolge la vicenda, infatti, è una fedele riproduzione del mondo che ci circonda.

Thriller e commedia: due generi apparentemente diversi che in questo romanzo si fondono perfettamente, creando atmosfere grottesche, esilaranti e drammatiche al tempo stesso. Che autore sei? Quando hai scoperto il tuo talento e da dove nasce la tua esigenza di scrivere?

Quando in una casa sono presenti molti libri, capita spesso che nasca il desiderio di scrivere qualcosa, fosse anche solo per vedere se ciò che si scrive sfigurerebbe al fianco dei romanzi che ci hanno accompagnato durante l’infanzia, l’adolescenza e la maturità. Se poi, oltre ai libri, in casa girano anche tanti gatti è inevitabile mescolare il serio e il faceto. Perché, perlomeno a casa mia, i gatti sono fonte inesauribile di buon umore.

Per saper scrivere bene occorre certamente leggere tanto: che libro c’è sul tuo comodino? Che generi e quali autori prediligi?

Gli autori che preferisco sono Stephen King, Michael Crichton e Richard Matheson. Prima di dedicarmi al giallo ho scritto romanzi di fantascienza e horror.

A cosa stai lavorando attualmente? Raccontaci quali sono i tuoi programmi per il futuro.


Al momento sto lavorando al seguito di un romanzo horror dal titolo Ragni, che pubblicai qualche anno fa con Dunwich Editore.


domenica 24 aprile 2016

Giuseppe Pompameo: narrare l’Invisibile che la realtà cela

Foto Istituto Pontano, Napoli

In un microcosmo in cui la posta elettronica sembra ancora l’invenzione di un film di Steven Spielberg, Octavio Serna è l’unico postino dell’introvabile paese di Nuvàl e ha il delicato compito di tenere in contatto col resto del mondo gli abitanti dello sperduto villaggio. La solitaria e tranquilla vita di Octavio si svolge tra le poche lettere da distribuire, la libreria Barlès dell’amico Fernand e il Cafè Miradòr, al centro della cittadina, in cerca di serenità e di assoluzione da un passato travagliato. Sarà una visita inaspettata, proprio alla vigilia di Capodanno, come nella migliore tradizione dickensiana, a sconvolgere il precario equilibrio di Octavio, segnando un nuovo confine tra la realtà e la fantasia, in un viaggio a ritroso tra il vero e il verosimile.
“Straluna”, Scrittura & Scritture, è il nuovo romanzo di Giuseppe Pompameo, l’autore partenopeo che ci ha deliziati con le emozionanti raccolte di racconti “Le strane abitudini del caso” e “E per dolce mangia un cuore”, sempre edite da Scrittura & Scritture. Ancora una volta, grazie alla storia commovente e allo stile evocativo e poetico, Giuseppe Pompameo riesce a toccare le corde più profonde dell’anima del lettore, indagando quell’invisibile che ogni realtà cela a ognuno di noi e che, prepotentemente, sconvolge la semplicità della vita di Octavio, il personaggio principale. Nonostante l’autore indugi in vibranti descrizioni che ne evidenziano il talento narrativo, la storia scorre, delicata e estraniante come una fiaba, eppure crudele e vivida come la realtà, in un continuo susseguirsi tra il cuore e la testa di un protagonista che ha tutte le meravigliose debolezze di un essere umano.


“Vivere a Nuvàl era una continua, eterna scommessa con la realtà, con il dubbio di esistere, visto che da quelle parti non arrivava quasi mai nessuno”. È in un paesino difficile da trovare perfino su una carta geografica che si svolge “Straluna”, Scrittura & Scritture. Raccontaci la genesi di questo romanzo: cosa ti ha ispirato durante la stesura?

"Straluna" nasce da un singolare episodio che mi è capitato un po’ di anni fa. Una signora, vedova, e che viveva, da sola, all'ultimo piano del mio condominio, ha continuato a sostenere, finché è vissuta, di avere una figlia, professoressa, che viveva a Milano. Quando si è scoperto che non era vero niente, che quella era soltanto una sua invenzione, mi sono posto la domanda: "Perché lo aveva fatto?". E da lì, proprio da lì, è nato lo spunto, l'idea su cui costruire la storia del mio romanzo. Mi sono, insomma, posto il problema del rapporto che molti di noi hanno con la solitudine, di come, spesso, abbiamo, nei confronti di questa condizione, o sentimento, che dir si voglia, un atteggiamento ambivalente. A volte la cerchiamo, altre volte abbiamo paura di finire per essere troppo soli. Ecco, da questo duplice rapporto con la solitudine, che, infatti, caratterizza la vita e il destino di tutti i personaggi di "Straluna", nasce il tema fondante del libro.

Chi è Octavio Serna, il protagonista del tuo libro? Come lo definiresti e, in generale, come delinei i personaggi delle tue storie?

Octavio Serna, il postino di Nuvàl, è, come, del resto, quasi tutti gli altri personaggi del romanzo, un uomo in bilico tra il desiderio di vivere da solo e la necessità di nutrire il suo tempo dell'illusione di non essere, in fondo, davvero troppo solo. Finché, ad un certo punto della storia, la realtà, o qualcosa di molto simile ad essa, non va a spezzare il precario equilibrio esistenziale su cui poggia la sua vita, rendendo improvvisamente e inopinatamente reale la presenza di un suo presunto fratello, di nome Olindo.
Quanto, in generale, ai personaggi dei miei libri, sono, quasi sempre, figure borderline, sospese, irrisolte, ma tutte, comunque, osservate e raccontate, da parte mia, con profonda pietas.

Che autore sei: segui l’ispirazione in qualunque momento della giornata o hai un metodo collaudato al quale non puoi rinunciare? Da dove e quando nasce la tua esigenza di scrivere?

Quando capita seguo la cosiddetta ispirazione, che, comunque, dura il tempo necessario, perché la maggior parte del lavoro su un testo è tutto di limatura e perfezionamento: levare, tagliare, togliere ciò che di eccessivo ho buttato giù, in una prima stesura, per così dire libera. Insomma, come credo per la maggior parte degli scrittori, anche per me è molto di più il lavoro di rifinitura di una storia, che quello di stretta ispirazione.
Quanto, poi, alla mia esigenza di scrivere, essa nasce, forse, dalla necessità di esorcizzare, in qualche modo, i miei fantasmi interiori e, allo stesso tempo, di dare, soprattutto, corpo alla mia idea letteraria di raccontare la realtà, trasfigurandola, quando necessario. Il mio intento, cioè, non è tanto di narrare semplicemente il visibile, quanto ciò che di invisibile si nasconde, si annida dentro il percepibile.

Accanto alla tua attività di scrittore, sei anche un docente di scrittura creativa. Facciamo un bilancio di questa esperienza: cosa significa coltivare il talento di tanti aspiranti scrittori che devono imparare le varie tecniche narrative?

Insegnare scrittura creativa è, per me, assai impegnativo e, allo stesso momento, molto stimolante. Si tratta, in sostanza, senza peraltro mai illudere gli allievi di farli sicuramente diventare degli scrittori alla fine di ciascun laboratorio, di provare a valorizzare al meglio il poco o molto talento di ciascuno di loro, giacché il talento, purtroppo, non si insegna, e di mettere a disposizione di ognuno un'adeguata conoscenza delle tecniche di narrazione che possa, come avviene in ogni arte, essere posta al servizio del proprio talento. Nei miei corsi di scrittura creativa, tra l'altro, cerco di stimolare, in particolare, la creatività degli allievi con apposite esercitazioni pratiche e con la lettura e l'analisi di testi narrativi degli autori più diversi.

A cosa stai lavorando attualmente? Raccontaci quali sono i tuoi progetti per il futuro.


Attualmente ho da poco finito di lavorare ad un testo teatrale, dal titolo "Acqua santa", che andrà in scena a maggio. Sto inoltre scrivendo il mio prossimo romanzo, mentre è già in fase di rifinitura una nuova raccolta di racconti.


venerdì 22 aprile 2016

Pino Nicotri: come nasce un Giornalista


Pino Nicotri è un Fisico mancato. Le parole lo hanno strappato alle formule matematiche del suo corso di Laurea in Fisica nel lontano 1969 e, da allora, non lo hanno più lasciato. È solo grazie a questo piccolo incidente di percorso che, oggi, Pino Nicotri è uno degli scrittori e dei giornalisti più autorevoli del panorama italiano, per merito del suo carisma inimitabile e dell’intuito investigativo che lo contraddistingue da sempre.
Autore di numerosi libri inchiesta di grande interesse, a partire da “Il Silenzio di Stato”, Sapere Edizioni, che fa luce sulla strage milanese del 12 dicembre 1969, fino a “Triplo Inganno”, Kaos Edizioni, che spiega in modo inedito la misteriosa scomparsa di Emanuela Orlandi, Pino Nicotri è stato per anni una delle firme più autorevoli de “L’Espresso” e, quando viveva ancora a Padova, ha contribuito attivamente alla fondazione di numerose testate, come Il Mattino di Padova e La Tribuna di Treviso. Tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta ha ideato e condotto programmi settimanali d'informazione per le televisioni locali venete TelEuropa e TelePadova. Il suo Blog, “ArruotaLibera”, è uno dei più seguiti e commentati della rete, grazie ai contenuti innovativi e allo stile graffiante, in grado di evidenziare punti di vista sempre nuovi circa casi di cronaca, attualità e tematiche di rilevanza sociale.
La storia di Pino Nicotri e del suo ingresso nel mondo del giornalismo, avvincente come una pellicola cinematografica, è la dimostrazione che il vero talento plasma il destino di un individuo in modi spesso imprevedibili e inaspettati, segnandone percorsi quasi mai programmati.
Fare giornalismo, secondo Nicotri, non deve limitarsi alla sterile cronistoria di fatti collegati dal solo filo dell’attualità, ma significa approfondire, con spirito critico, dinamiche che vanno investigate e verificate per individuare la notizia e, soprattutto, che devono essere raccontate a beneficio di chi si aspetta di ascoltare una vera e propria storia. È la potenza del soffio narrativo che fa prendere vita a un’inchiesta giornalistica, proprio come la sconfinata grandezza della fantasia permette di creare un romanzo, trovando, nelle motivazioni profonde degli avvenimenti quotidiani, l’anima della Storia che i posteri studieranno sui libri di scuola.

Giornalista, scrittore, inviato; molto più di una voce fuori dal coro: le sue inchieste l’hanno resa una vera e propria voce solista della carta stampata e non solo. Facciamo un salto indietro nel tempo: quando e da dove nasce la sua esigenza di scrivere? Cosa vuole comunicare?

Beh, è una storia lunga. Se ha un po’ di pazienza, la racconto. Ho iniziato a scrivere per denunciare quello che a me pareva fosse, e che si è poi assodato esserlo davvero, un grave complotto interno ad alcuni apparati statali per arginare le conquiste di quella che allora si chiamava classe operaia. Stiamo parlando del 1969, quando una lunga serie di lotte - scioperi, manifestazioni e agitazioni nazionali - costrinse gli industriali a fare sostanziose concessioni contrattuali e salariali ai lavoratori. In autunno gli scioperi e le manifestazioni furono tante e tali da far passare alla storia quella stagione come “l’autunno caldo”. La sua conclusione positiva rese più equi e meno arretrati i rapporti di lavoro e ampliò i diritti dei lavoratori, tanto che un giornale inglese scrisse che l’Italia era finalmente entrata, sia pure scalciando, nell’era moderna. Teniamo presente che l’anno precedente era stato il “mitico” 1968, quando un’ondata di agitazioni, scioperi e occupazioni di Università e scuole portò alla nascita del Movimento Studentesco e all’abbattimento della separazione sociale tra studenti e lavoratori. In quel periodo nacque anche il femminismo, che fece tabula rasa della sottomissione passiva delle donne e annesse discriminazioni e diseguaglianze, a tutto vantaggio degli uomini nel mondo del lavoro e nell’intera società.
Durante l’estate del ’69 cominciarono, però, a esplodere bombe sui treni, alla fiera di Milano e altrove: era un chiaro tentativo dell’estrema destra di intimidire il vasto movimento dei lavoratori e degli studenti lavoratori seminando il panico per spingere il governo e le forze armate a “mettere ordine nel Paese”, anche a costo di un colpo di Stato.  Finché il 12 dicembre di quell’anno irripetibile vennero fatte esplodere a Roma e a Milano delle bombe, una delle quali, nella sede della Banca dell’Agricoltura di piazza Fontana a Milano, uccise sul colpo tredici persone - altre 3 morirono in seguito - e ne ferì più o meno gravemente altre ottantasette. La televisione e i giornali scrissero che polizia e carabinieri affermavano che le bombe, anche quella di piazza Fontana, erano state nascoste in borse di similpelle nera prodotte in Germania dalla ditta Mossbach&Gruber, caratterizzate dal disegno di una testa di gallo sulla chiusura di metallo, e che tali borse non erano vendute in Italia. Un mio amico studente trevigiano di Ingegneria, Giorgio Caniglia, con il quale dividevo un appartamento in pieno centro, aveva proprio una borsa di quel tipo e, poiché l’aveva comprata a Padova, era evidente che la notizia che le Mossbach&Gruber non fossero vendute in Italia era falsa. Cosa ancora più grave, quando il mio amico mostrò la sua borsa a un commissario della questura, si sentì dire che ormai a Milano già sapevano chi era il colpevole. Venne infatti arrestato l’anarchico Pietro Valpreda, un ballerino d’avanspettacolo, presentato da stampa e televisione - a quell’epoca c’era solo la Rai e con un unico canale - come il mostro colpevole della strage di piazza Fontana. Nacque così la “pista anarchica” alla quale addossare la responsabilità degli attentati del 12 dicembre.
Era chiaro che la pista fosse falsa e che gli anarchici fossero dei capri espiatori, ma intuivo anche che sotto doveva esserci qualcosa di segreto e molto grave. In più sapevo che a Padova e nel Veneto era attiva una cellula di neonazisti guidata dal padovano Giorgio Franco Freda, del quale mi erano ben note la pericolosità e le protezioni di cui godeva nella polizia, nei carabinieri e nella magistratura. A quell’epoca, però, non pensavo certo al giornalismo, inoltre non avevo ancora fatto il servizio militare di leva, che durava 18 mesi e in gergo si chiamava “naia”, e temevo che se avessi “fatto casino” con la notizia in mio possesso sarebbe potuto capitarmi per rappresaglia un qualche “incidente” durante il servizio militare. Aspettai così di fare la “naia”, iniziata a metà dell’anno successivo, il 1970, e, una volta congedato, mi sposai, cambiai casa, perdendo un po’ di vista Giorgio Caniglia, e cominciai a scrivere il libro “Il Silenzio di Stato” per raccontare sia la faccenda delle borse vendute anche a Padova, sia le gesta del gruppo neonazista, comprese le complicità di cui godeva nella polizia e nella magistratura.
Poiché non pensavo affatto di fare il giornalista, ma di laurearmi sperando di fare il fisico, il libro - edito da Sapere Edizioni - lo firmai non col mio nome, ma come Comitato Antifascista Padovano, del quale comunque ero notoriamente l’organizzatore e l’animatore. Firmai però la poesia di dedica a una coppia di miei giovani amici, Paolo e Sandra, morti in un incidente d’auto. Per pagare meno tasse, l’editore pubblicò il libro come fosse un numero del periodico quindicinale InCo, iniziali di Informazione e Controinformazione, il cui direttore responsabile era un sindacalista milanese, mi pare fosse della CISL, del quale ora non ricordo il nome. Questo particolare mi permise in seguito di poter presentare anche i singoli capitoli de “Il Silenzio di Stato” tra gli articoli allegati alla domanda d'iscrizione come pubblicista all’Albo dei Giornalisti. 
La notizia che io stavo scrivendo un libro che denunciava la possibile origine e matrice padovana della strage di piazza Fontana, da molti ormai chiamata “la Strage di Stato”, tramite la moglie di un docente universitario arrivò a Roma all’orecchio di Mario Scialoja, un famoso inviato del settimanale L’Espresso, impegnatissimo a indagare e scrivere sulle “piste nere”, cioè sui gruppi, gruppetti e diramazioni varie dei neofascisti che, non solo in Italia, alimentavano il clima di violenza servendosi del terrorismo. Mario piombò a Padova, mi venne a cercare e mi convinse a rintracciare Giorgio Caniglia, che raggiungemmo assieme a casa dei suoi a Treviso. Giorgio mi cedette la borsa, anzi me la vendette per 5.000 lire dell’epoca, e io la regalai a Mario perché la portasse al magistrato Gerardo D’Ambrosio che a Milano si occupava dell’inchiesta sulla Strage di Stato.
Così fu. D’Ambrosio ricevette dalle mani di Mario la borsa già il giorno dopo nel suo ufficio a Palazzo di Giustizia. Pochi giorni dopo L’Espresso pubblicò un clamoroso articolo di Mario intitolato “C’è un’orma nuova”, che cominciava a demolire la “pista anarchica”, e D’Ambrosio inviò a Padova il maresciallo dei carabinieri Sandro Munari alla ricerca dei negozi che nel ’69 vendevano le Mossbach&Gruber. Fu così che Munari scoprì che la valigeria Al Duomo, di piazza Duomo, pochi giorni prima della strage del 12 dicembre, aveva venduto quattro o cinque borse Mossbah&Gruber a un unico acquirente e che la commessa che gliele aveva vendute aveva in seguito identificato in Freda. Munari scoprì anche che la commessa era corsa in questura sia per dire della vendita delle borse, sia per dire che l’acquirente era Freda, quando ebbe modo di vederne le foto sui giornali locali, perché era stato arrestato per propaganda sovversiva nelle Forze Armate.
Ma Munari scoprì pure che la questura di Padova, anziché trasmettere ai magistrati quelle due testimonianze, le aveva fatte sparire! Nacque così un grande scandalo, denunciato con più inchieste scoop da L’Espresso a firma di Mario Scialoja, che generò il crollo totale e clamoroso della “pista anarchica”: Valpreda venne scarcerato e partecipò a Padova alla presentazione del mio libro nella grande sala della Gran Guardia in piazza dei Signori.
Ecco: io sono entrato nel giornalismo così. Con l’esigenza e, date le circostanze, anche l’obbligo di capire, investigare, documentare, far capire e denunciare pubblicamente una storia decisamente grave. Grave e pericolosa. E poiché erano comunque gli anni del terrorismo, anzi dei terrorismi, al plurale, perché a quello “nero” delle bombe e della strage del ’69 si aggiunse come reazione quello “rosso” degli estremisti di sinistra. La vocazione a osservare, approfondire e investigare m’è rimasta: sempre vissuta come un dovere di testimonianza anche civile, oltre che professionale e umana, mi ha permesso di diventare prima collaboratore fisso de L’Espresso, poi suo giornalista in pianta stabile e corrispondente dal Veneto di Repubblica, oltre che collaboratore decisivo per la nascita dei giornali locali veneti Il Mattino di Padova e La Tribuna di Treviso. Tanto che in Fisica non mi sono poi laureato.

Cronaca, politica, attualità: il suo percorso l’ha portata ad approfondire tante storie di grande interesse. Come sceglie i temi da trattare e a quale si sente particolarmente legato, come professionista e come uomo?

I temi spesso mi vengono proposti, non so se perché sono ritenuto un buon investigatore o un buon narratore: spero per entrambe le cose assieme. Quando li scelgo io, scelgo i casi controversi o le novità che intuisco modificheranno nel bene e nel male gli usi e i costumi. Da quando ho un mio blog, prima a L’Espresso e poi per conto mio, ho più libertà di scelta e spesso lascio che a parlare siano gli altri, ospitandone gli articoli. E da quando ho preso anche a leggere più libri, specie di storia e di saggistica, ho imparato anche a scegliere temi suggeriti da tali letture. Per esempio, ci sarebbe molto da scrivere sui veri rapporti tra l’Europa e quelli che io chiamo gli Orienti, al plurale, perché comprendono il Vicino Oriente, il Medio Oriente e il lontano Oriente fino alla Cina. La Via della Seta e la Via delle Spezie hanno reso, di fatto, quasi un tutt’uno, fin dai tempi dei romani, lo spazio che va dall’Egitto alla Cina. Un tutt’uno non omogeneo e, purtroppo, sempre teatro di guerre di un qualche tipo, ma pur nelle divisioni e nelle guerre sempre molto ricco non solo di commerci vari, quali principalmente quello delle spezie, ma anche di trasmissioni del sapere scientifico, letterario, storico, e di credenze e fedi religiose. Senza le spezie che vengono dall’Oriente l’Europa non avrebbe sapori e profumi. Senza le scienze arrivate dagli Orienti, dai numeri arabi, ma in realtà indiani, all’algebra e alla trigonometria, dall’astronomia alla cartografia, l’Europa sarebbe ancora ferma all’abaco e al timone a remi. Ma con l’abaco non si possono progettare le cupole delle cattedrali, né gli aerei o i computer e i telefonini, e col timone a remi Cristoforo Colombo non avrebbe mai potuto attraversare l’Atlantico, traversata resa possibile dall’arrivo dall’Oriente anche del timone di coda.
Come professionista e come uomo mi sento legato a mo’ di cordone ombelicale al tema sfociato nella mia prima collaborazione con L’Espresso. Forse anche perché ero giovane e quelli erano i formidabili anni fine ’60 e primi ’70. Ma sono molto legato anche al tema della scomparsa di Emanuela Orlandi, al quale mi interesso dal 2001 e sul quale ho scritto tre libri. Si tratta di un argomento che mi ha insegnato una cosa che avevo già intuito, ma non compreso in modo così chiaro ed evidente. Mi ha insegnato, cioè, che alla gente non interessa tanto la verità, quanto il proprio bisogno di avere dei miti in cui credere, anche a onta dell’evidenza. Questo è evidente, però, anche in politica, specie in quella estera: si ragiona più con le viscere, che col cervello. Non a caso, poi, ci sono disastri e tragedie su vasta scala, vedi le guerre per far scoppiare le quali ognuno fa credere quello che più gli fa comodo e tutti credono nelle frottole che gli si rifila.

È ancora possibile oggi, secondo lei, fare della scrittura una professione a tempo pieno? Chi sono e che ruolo svolgono nella nostra società i giornalisti? Che consiglio darebbe a chi volesse seguire questo percorso?

Domande difficili. La professione della scrittura a tempo pieno credo, e spero, sia e sarà sempre possibile. Lo lascia credere e sperare il fatto che esiste fin da quando è nata la scrittura, anche se non era ancora alfabetica. Certo oggi tutti scrivono e si sentono giornalisti o scrittori grazia ai molti Social Forum, da Facebook in giù. È una sorta di cortile o ballatoio condominiale planetario, dove tutti si affacciano per dire o urlare qualcosa. Il giornalismo però è un’altra cosa: è la capacità di investigare e capire i fatti, di verificare le notizie, e di creare una sintesi da narrare con una storia. Fare il giornalista oggi è molto più facile di una volta. Con la posta elettronica e i telefonini si possono fare interviste in tempi più brevi, inviare gli articoli senza doverli dettare da un telefono a gettone o inviarli con una telescrivente, magari dagli uffici delle Poste Italiane, come dovevo fare io da Padova. Oggi tramite Google si possono per esempio evitare lunghe ricerche nelle biblioteche, che non sempre erano sotto casa. Anche se, purtroppo, ha preso piede, anche a causa dell’ingordigia degli editori, l’usanza di muoversi poco dalla scrivania e di lavorare molto col copia-incolla.
L’editoria di libri e giornali si sposterà sempre più dal cartaceo all’elettronico, ma il giornalismo e i giornali non sono morti e, anzi, sono stati irrobustiti dall’abbandono del telegrafo a favore del telefono e dall’abbandono della composizione col piombo a favore di quella cianografica. Il passaggio dagli aerei a elica ai grandi jet, dalle navi a vela a quelle a motore, dai treni a vapore a quelli elettrici e ora magnetici ha sempre comportato delle crisi, anche occupazionali, ma poi ha partorito nuove professioni e nuove occupazioni.
Il consiglio che mi sento di dare a chi oggi vuole fare il giornalista è di studiare in una buona scuola o facoltà universitaria di giornalismo, di imparare a menadito almeno l’inglese, ma anche una lingua straniera non europea, e di fare viaggi, soste e stage all’estero. Anche in redazioni di giornali, cartacei od online o televisivi. E ovviamente di leggere sempre molto, dai romanzi, ai saggi, ai libri di Storia, in modo da poter inserire il valore aggiunto di una migliore capacità personale di vedere, capire ed esporre le notizie e le storie. Bisogna, inoltre, anche essere sempre pronti a emigrare, cioè ad andare a lavorare all’estero: il mondo è davvero vasto e per chi ha preparazione e volontà le occasioni non mancano.
Oggi il sistema dei partiti è in crisi ed è in crisi il giornalismo italiano perché ha sempre fatto da sponda al sistema dei partiti, oltre che a quello industriale e specie della grande industria, settori pure questi in forte crisi, forse irreversibile, per la concorrenza crescente esercitata da quelli che, fino a pochi decenni fa, erano considerati Terzo Mondo e che ora sono colossi economici, e spesso anche militari, come la Cina, l’India e a seguire il Brasile, la Turchia, l’Iran in arrivo, il Sud Africa. Ecco perché bisogna saper guardare oltre i confini nazionali. E anche oltre quelli europei.  

A coronamento della sua carriera di autore, ha mai pensato di dedicarsi nuovamente alla narrativa? Che cosa le piacerebbe scrivere?

Nel 1994 ho scritto “Vicolo Scandenberg”, Marsilio Editore, che è rimasto finora il mio primo e unico romanzo. Vorrei riscriverlo. E scrivere un libro su alcune mie esperienze, anche drammatiche, che ho dovuto vivere a fine anni ’70, a partire da quando nella seconda metà del ’78 ho aiutato Giorgio Mondadori a creare i quotidiani Il Mattino di Padova e la Tribuna di Treviso. Giornali che poi Mondadori ha ceduto al Gruppo Editoriale L'Espresso.




A cosa sta lavorando attualmente? Ci racconti quali sono i suoi progetti per il futuro.

Attualmente sto seguendo gli ultimi fuochi del mistero Orlandi, che il malogiornalismo ha trasformato in show a tutto vantaggio di audience e vendite di copie, ma a tutto svantaggio della possibilità di capire cosa sia davvero successo a Emanuela e per responsabilità di chi. E poi sto cercando di mettere ordine nelle mie carte e nella mia biblioteca per poter finalmente mandare avanti e spero anche portare a compimento il lavoro sulla vera storia dell’Europa e dei suoi rapporti con gli Orienti, lavoro che ho iniziato a metà anni ’90 e interrotto nel 2001 a causa del mio iniziare a interessarmi al caso Orlandi. Insomma, sto cercando di capire cosa fare da grande...


www.pinonicotri.it



domenica 17 aprile 2016

Massimo Cicero: storia di mia zia, Mariella Cimò


Mariella Cimò è una donna generosa e creativa, dal carattere forte e indipendente. Ama gli animali e dedica gran parte della sua giornata ai suoi cani e gatti, più di cinquanta, coi quali vive, assieme al marito, Salvatore Di Grazia, in una villa poco distante da San Gregorio di Catania. Quando si perdono le tracce di Mariella è il 2011, un caldo 25 agosto. Mariella discute con Salvatore a causa di un autolavaggio di sua proprietà, nel quale il marito passava molte delle sue giornate e che lei voleva vendere contro la sua volontà. Dopo questa lite, Salvatore esce e, al suo ritorno, Mariella è scomparsa. In casa mancano i suoi documenti, della biancheria e del denaro, così, inizialmente, si pensa a un allontanamento volontario.
Agli inquirenti occorre oltre un anno per arrivare all’arresto di Salvatore Di Grazia, con l’accusa di aver ucciso Mariella e di averne occultato il corpo in modo macabro. Massimo Cicero, affezionato nipote di Mariella, ha creduto sin da subito che, dietro all’istrionica personalità di Salvatore Di Grazia e a tutti i suoi inspiegabili comportamenti, attuati dopo la scomparsa della zia, ci fosse qualcosa di oscuro e misterioso. Dopo oltre trentacinque udienze, il processo di Primo Grado, iniziato nel 2013, volge al termine e sta per fare luce su questa intricata vicenda.
Mariella, con la sua indole energica e l’amore incondizionato per il nipote Massimo e per tutta la sua famiglia, vive ancora nel ricordo dei suoi cari che hanno fatto della loro strenua ricerca della verità e della giustizia un tempio dell’anima, nel quale onorare spiritualmente la memoria della zia, senza perdere la speranza di poterlo fare ben presto anche in un luogo reale, dove lasciare un fiore.

Chi era Mariella e quanto spesso pensi a lei?

Quando una persona è straordinaria, è difficile descriverla nella sua vera essenza. Per me la zia Mariella è stata come una seconda mamma, giacché la mia è deceduta tantissimi anni fa. È stata anche una nonna per i miei figli, sempre presente per ogni nostra necessità e in ogni bella occasione.
Il nostro rapporto, come in tutte le famiglie, era affettuoso, di reciproco aiuto, ma anche di grande intesa e complicità. Ci bastava guardarci negli occhi per capirci al volo, come si dice. La zia Mariella non ha mai avuto figli, nonostante li desiderasse tantissimo, ma ha dedicato la sua immensa umanità e il suo amore a chiunque ne avesse bisogno. Adorava gli animali in modo incondizionato: nella sua villa ha avuto fino a cinquanta cani che erano tutta la sua vita.
È stata una benefattrice per molte Associazioni, ha perfino adottato a distanza due bimbi dell'Uganda, ai quali voleva provvedere fino al completamento degli studi. Chiunque abbia avuto la fortuna di incrociare il suo cammino ne ha avuto benefici. Inoltre era molto devota e aiutava assiduamente alcune missioni in Africa che si occupavano soprattutto di bimbi meno fortunati.
La zia Mariella era una donna molto determinata: niente la spaventava e non esistevano ostacoli di sorta, se decideva di fare qualcosa.
Da cinque anni a questa parte non ho mai smesso un solo minuto di pensare a lei con nostalgia e con rimpianto. Mi sveglio la notte, senza più riuscire a prendere sonno e, a causa di questo dolore, ho distrutto involontariamente l’armonia della mia famiglia, coinvolgendo tutti nella mia angoscia e questo non me lo perdonerò mai.


In questi anni qual è stato il momento più difficile, la situazione più assurda in cui vi siete trovati?

In questi anni sono stati tutti momenti difficili per non dire assurdi. Già da subito, con il rifiuto del marito di farci entrare nella casa della zia, ci siamo resi conto di quanto sarebbe stato difficile ottenere giustizia in tempi brevi. Il paradosso è che chiunque aveva accesso alla casa, mentre a noi che conoscevamo l’assoluta riservatezza della zia, invece, è stato negato, inizialmente, di mettere piede in casa, con scuse vaghe e incomprensibili, fino ad arrivare, col passare del tempo, perfino alle denunce. La casa della zia era il suo tempio e noi ne rispettavamo la riservatezza. La sua giornata scorreva tra l'accudire la sua piccola tribù di pelosetti e prendersi cura della casa e del marito, non voleva delegati nei suoi compiti. Il comportamento del marito, lontano anni luce dai valori e dalla moralità della zia, aggrava ancora di più il nostro timore che il marito sia in qualche modo implicato nella misteriosa scomparsa della moglie. Cinque anni sono lunghi e dolorosi senza avere nessuna notizia sulle sorti della zia, ma noi non ci stancheremo mai di cercare la verità.

A che punto è il processo? Come si fa a non essere solo arrabbiati per l’incertezza della giustizia e a continuare a cercare la verità, dopo tanto tempo?

Il processo è iniziato il 26 marzo del 2013 e, dopo circa trentacinque udienze, il prossimo 10 maggio ci sarà la requisitoria del Pubblico Ministero. Il 24 maggio, invece, sarà la volta delle parti. Speriamo, dunque, di essere quasi alla fine del giudizio di Primo Grado.
Nessuno restituirà a noi la vita della zia, ma conoscerne le sorti e renderle giustizia le ridarà dignità e darà a noi la forza di iniziare il triste cammino verso la rassegnazione, sperando di trovare la pace.

Chi vi è stato più accanto in questo lungo periodo di dolore e che ruolo svolgono o potrebbero svolgere l’opinione pubblica e tutti i mezzi di informazione in questi casi così drammatici?

Nel corso di questi anni siamo stati molto sostenuti dai media e dall’Associazione Penelope, che è stata la prima a condividere il nostro lungo e doloroso percorso, aiutandoci con le Prefetture di Catania e di Roma, preposte nella ricerca degli scomparsi, e grazie al loro aiuto siamo riusciti ad ottenere l’invio di un georadar per ispezionare i luoghi della villa e aiutarci a organizzare una fiaccolata a pochi mesi dalla scomparsa, con l’ausilio del Comune di San Gregorio.
Chiaramente i media e l’opinione pubblica hanno svolto un ruolo determinante, mantenendo viva l’attenzione, e, in un certo senso, anche di importante collaborazione con la Procura. Ruolo che si è dimostrato rilevante ai fini indiziari nella fase del dibattimento. Altra linfa vitale ci è arrivata dai Social Network, in particolare dal gruppo creato su Facebook, che ci ha molto sostenuto, diventando, così, per noi una famiglia virtuale. Questi anni ci hanno logorato, ma non hanno spento il nostro desiderio di Giustizia e Verità: non ci sarà mai rassegnazione finché ciò non accadrà.



È il ricordo a mantenere vive le persone che non sono più al nostro fianco ogni giorno. Qual è il tuo ricordo più vivo di zia Mariella?


Ci sono tanti ricordi della zia che teniamo sempre nel cuore. Il più bello in assoluto è quello della nascita di nostra figlia Irene, attesa dalla zia con grande gioia. È stata lei la prima a prendere in braccio la nostra bimba appena nata e la sua gioia, la sua emozione sono state per noi motivo di grande orgoglio. La chiamava la sua Nenè ed è stata anche madrina di battesimo di nostra figlia, questo l'ha resa ancora più vicina a noi... eravamo una bella famiglia. Nostra figlia la adorava, per lei era più di una zia: era sua amica, sua maestra ed è lei l'unica che in questi lunghi anni è stata sempre al nostro fianco, sempre pronta ad intraprendere le iniziative che potessero essere utili a far conoscere nostra zia e a non farla dimenticare, nella ricerca della verità.

giovedì 14 aprile 2016

Gino Marchitelli: l’elettricista che scrive noir


A San Giuliano Milanese è un agosto rovente, reso ancor più caldo da una serie di inaspettati delitti che mettono a dura prova le capacità investigative delle forze dell’ordine locali. Quella che per Cristina Petruzzi, brillante giornalista di Radio Popolare, inizia come un’inchiesta simile a tante altre, è destinata a trasformarsi in un caso molto pericoloso, dai risvolti torbidi, per il Commissario Matteo Lorenzi. Tutto comincia con la sparizione di un dirigente di una nota azienda sanitaria locale che si sovrappone al suicidio di un commercialista che opera nelle vicinanze, ma ciò che verrà ritrovato all’interno del rimorchio di un camion abbandonato nelle campagne circostanti San Giuliano Milanese sconcerterà a tal punto gli inquirenti, da sconvolgere molti equilibri, compreso quello raggiunto dalla complicata relazione tra il Commissario Matteo Lorenzi e la giornalista Cristina Petruzzi.
Inizia così “Sangue nel Redefossi”, Fratelli Frilli Editori, l’ultimo romanzo di Gino Marchitelli, lo scrittore elettricista che, col suo stile versatile, appassionato e controcorrente, sta tenendo col fiato sospeso sempre più lettori, grazie al passaparola della rete. Tra musica, teatro e letteratura, non si direbbe proprio che la principale attività di Gino Marchitelli sia stata, per anni, quella di elettricista e installatore, visto il suo talento per la scrittura a tutto tondo. Nei suoi intrecci, oltre al mistero e alla tensione tipici del noir, Marchitelli riesce a inserire il proprio interesse per la cronaca e l’attualità, non mancando di criticare, dove necessario, le debolezze della nostra società caratterizzata, ormai, da valori sempre più offuscati dal desiderio di profitto e dalla brama di potere. I personaggi delineati dall’autore sono credibili proprio perché volubili e talvolta condizionati da ciò che li circonda, ma anche dotati di personalità forti che, come nel caso di Matteo e Cristina, vedono nel confronto, spesso acceso, la vera occasione di crescita e di riscatto.



“Sangue nel Redefossi”, Fratelli Frilli Editori, è un emozionante mosaico di delitti e colpi di scena, nel quale si intrecciano indagini di polizia e giornalismo investigativo, fino a un epilogo davvero inaspettato. Raccontaci la genesi di questo romanzo: cosa ti ha ispirato durante la stesura?

Dopo aver scoperto, del tutto casualmente, questa vena da scrittore, ho capito che, se devo scrivere voglio raccontare le “storie” delle persone comuni e di come nella nostra vita, quando arriviamo ad un incrocio, tutto possa cambiare a seconda della strada e della direzione che prendiamo. Da qui la necessità di scrivere di “noi”, delle nostre vite, delle persone comuni delle nostre storie, appunto. In quest’ultimo romanzo mi hanno colpito le notizie che si leggono spesso sul traffico d’organi e come, anche per la crisi, alcune persone decidano o vengano “convinte” a privarsi di un organo per soldi. Quindi ho costruito un’ambientazione narrativa che si occupasse di questo anche inserendo organizzazioni che sfruttassero questo “macabro” mercato. Inoltre, ho preso spunto, facendo le opportune modifiche, da una storia strana di politica locale per raccontare cosa accade quando la politica è minata dall’interesse economico, ma anche dall’ambizione di chi vuol far carriera a qualunque costo, anche abbracciando mortalmente la malavita organizzata.

Da dove nasce la tua esigenza di scrivere? Che autore sei: segui l’ispirazione a qualunque ora del giorno o hai un metodo ben preciso al quale non puoi rinunciare?

L’esigenza dello scrivere è nata dal desiderio di occuparmi di storie comuni, intrise delle problematiche sociali che stiamo vivendo. Per l’ispirazione, frequentando un corso di improvvisazione e scrittura per teatro, ho avuto modo di “capire” – grazie all’insegnante – che l’ispirazione, quando arriva, va colta immediatamente. Possibilmente devi sospendere tutto quello che stai facendo e almeno appuntarti l’idea, la visione, l’intuizione che ti è venuta per riprenderla dopo senza che il tempo la trasformi. Da quel momento, subito dopo il riconoscimento che iniziava ad avere il mio primo romanzo “Morte nel trullo” ho seguito questo consiglio e devo dire che funziona. Diciamo che, forse perché ho vissuto anni terribili di isolamento culturale nei cantieri edili in mezzo ad ogni sorta di ignoranza e incapacità di linguaggio da parte di imprese e addetti, ora mi lascio andare a sensazioni, emozioni, percezioni che mi attraversano la strada e non le posticipo, mi faccio coinvolgere e ne scrivo. Ogni mia storia trae ispirazione, infatti, da qualcosa che ho visto o ho vissuto e ha lasciato un segno dentro di me.

Chi sono il Commissario Matteo Lorenzi e la giornalista Cristina Petruzzi, i protagonisti del tuo libro? Come li definiresti e, in generale, come delinei i personaggi delle tue storie?

Lorenzi è un commissario fondamentalmente democratico, ma che è intriso, degli stereotipi della dottrina di polizia o, perlomeno, lo era nel primo romanzo, poi, di storia in storia sta cambiando. Onesto, ma che non va a fondo delle contraddizioni reali che ci sono nelle forze dell’ordine. Improvvisamente incontra una giornalista di Radio Popolare, donna emancipata, di sinistra, femminista, grande reporter di cronaca nera, con un passato difficile dove l’amore è stato messo da parte per sempre e, invece, scoppia la scintilla e nasce un grande amore tra i due, che man mano si contamineranno: il commissario capirà e pulirà molte delle sue convinzioni stereotipate, diventando sempre più conscio del valore della democrazia, e lei ritroverà emozioni, sensazioni e passioni attraverso un amore che pensava non potesse mai più capitarle. I personaggi delle storie rappresentano l’umanità che abbiamo intorno, con tutti i pro e i contro della vita che esprimo senza riserve.

È ancora possibile oggi, secondo te, fare della scrittura una professione a tempo pieno? Che ostacoli hai incontrato e incontri ancora oggi nel tuo percorso? Traccia un bilancio della tua esperienza.

Fare lo scrittore a tempo pieno è oggi, a mio parere, quasi impossibile. Io, infatti, continuo a fare l’installatore di impianti elettrici! Però il Web, i nuovi metodi di comunicazione e l’auto pubblicazione stanno aprendo nuove frontiere e opportunità. La mia esperienza letteraria, per ora, è ancora una sorpresa per me. Vedere centinaia di persone che scoprono i miei libri pur non avendo io alcun accesso ai media, alle televisioni, a giornali e riviste, ma solo con il passaparola è una bella soddisfazione. Ultimamente ho raggiunto la quota di duecento presentazioni in giro per l’Italia in tre anni e mezzo di attività, tutte grazie al passaparola tra i lettori e alla diffusione sui Social: davvero un bel traguardo!

A cosa stai lavorando attualmente? Raccontaci quali sono i tuoi programmi per il futuro.

Al momento mi sto dando da fare su molti fronti, mentre continuo a tirar fili e montare salvavita. Il primo è il nuovo romanzo noir: messe da parte per un po’ le indagini del Commissario Lorenzi e di Cristina, pubblicherò un solo ‘episodio’ di “Totò Maraldo ex carabiniere in pensione, investigatore suo malgrado”, concentrandomi su un nuovo personaggio, per poi riprendere la serie di Lorenzi.
Per settembre, invece, dovrebbe uscire una mia fiaba per bambini, dal titolo “Ben, Tondo e Gatto Peppone”, nella quale ci sarà anche una sottotraccia una vena politica e sociale.
Ho iniziato, inoltre, a preparare la sceneggiatura per realizzare uno spettacolo di narrazione teatrale dal titolo “Il Pittore” e ho in progetto, finalmente, la realizzazione del libro a cui ero stato spinto da Vittorio Agnoletto, cioè la storia delle lotte dei giovani di Democrazia Proletaria e degli operai delle piattaforme petrolifere Saipem-Eni dal 1981 al 1988 corredato di un DVD di interviste che realizzerò con i miei ex compagni di lotte di allora, oggi tutti con i capelli bianchi, i quali, però, non hanno dimenticato niente di quella incredibile stagione di lotte in mezzo al mare. Forse il titolo sarà “I ribelli dell’Adriatico”.

Il prossimo 30 aprile, Amazon dedicherà un’intera giornata al mio libro “Milano non ha memoria”, Fratelli Frilli, durante il quale, per ventiquattro ore, sarà possibile scaricarlo in tutti i formati elettronici a un prezzo piccolissimo. In questo modo chiunque vorrà conoscere il mio lavoro al costo di un caffè, potrà avere l’opportunità di leggere il mio libro e di farmi sapere cosa ne pensa.

www.ginomarchitelli.com



domenica 10 aprile 2016

Marcello Simoni: il mestiere di Scrivere, tra ispirazione ed esercizio


In attesa che, all’inizio dell’estate, esca il suo prossimo romanzo, “L’abbazia dei cento inganni”, Newton Compton, capitolo conclusivo della trilogia medievale dedicata a Maynard de Rocheblanche, lo scrittore Marcello Simoni ci ha illustrato cosa significa, al giorno d’oggi, scegliere di intraprendere il mestiere di autore a tempo pieno.
In seguito a un percorso come archeologo e bibliotecario, infatti, Marcello Simoni ha esordito nel mondo della narrativa con “Il mercante di libri maledetti”, Newton Compton, vincitore del Premio Bancarella, riscuotendo un grandissimo successo di pubblico e di critica. Dopo oltre un milione di libri venduti in tutto il mondo e diritti di traduzione ceduti in diciotto Paesi, abbiamo chiesto a Marcello Simoni di trarre un bilancio della scelta che qualche anno fa gli ha cambiato la vita. Inserendosi nel solco aperto da Umberto Eco con “Il nome della rosa”, Simoni, infatti, ha saputo trasformare, adattandolo al suo stile brillante e diretto, un genere molto amato da milioni di lettori, creando storie che coniugano sapientemente gli ingarbugliati misteri del giallo, le esaltanti emozioni dell’avventura e le caratteristiche atmosfere dello storico. Ma qual è il suo segreto?
Per fare in modo che la scrittura diventi una professione, oltre all’esplorazione del proprio talento, è necessaria l’applicazione di un metodo che disciplini l’ispirazione iniziale, incanalando le energie che mettono in connessione l’autore con la propria storia. Il tempo da dedicare alla scrittura, quindi, non è più uno solo uno spazio ritagliato da una pressante quotidianità, ma risponde all’esigenza profonda di concretizzare un’attitudine, trasformandola in un’attività a tutto tondo.
Come un atleta per aspirare alle Olimpiadi ha bisogno di allenarsi costantemente, così, secondo Marcello Simoni, lo scrittore necessita di alcune ore di esercizio quotidiano dedicato al confronto diretto con la propria opera, per asciugarne lo stile, calibrarne la struttura e adattarne i personaggi, con l’obiettivo di renderla il miglior specchio del proprio talento. Perché, in fondo, l’ispirazione è solo la fase iniziale di un lungo processo di cesellamento di un’idea grezza. Dopo l’epifania di un momento, c’è la vera costruzione della storia: un lavoro intimo, instancabile, imprescindibile, che conduce a quella parola fine che, in realtà, è solo l’inizio.


Atmosfere medievali, personaggi misteriosi e delitti apparentemente inspiegabili: questi sono solo alcuni degli elementi che rendono tanto avvincenti i tuoi libri. Tu che scrittore sei? Cosa ti ha spinto a dedicarti al romanzo storico, fondendolo così efficacemente con il mistery?

Fin dalla stesura del mio primo romanzo, “Il mercante di libri maledetti”, mi resi conto che il problema principale di chi scrive narrativa è comprendere in quale genere inserirsi. Di primo acchito sembrerebbe una banalità, ma già in fase di pre-scrittura, cioè durante l’elaborazione della sinossi, mi accorsi di quanto fosse decisiva e difficile questa scelta. Il tenore della trama, il ritmo, lo stile, la prospettiva e persino il profilo psicologico dei personaggi dipendono da essa. Io però non volevo rinunciare a nulla, o quasi. Maneggiare nozioni di storia medievale, inserirli in modo funzionale e non noioso all’interno di un plot, significava, infatti, fare buon uso dei moduli dell’avventura, del thriller e del giallo. Il primo dà movimento, il secondo ritmo, il terzo mistero. Perciò mi sono servito di questi ingredienti ibridandoli in un mix molto particolare, che si adattasse al mio stile di scrittura. Tuttora resto fedele alla regola, cercando, romanzo dopo romanzo, di migliorarla, smussando gli angoli, bilanciando i pesi. Come un artigiano.

Chi sono Ignazio da Toledo e Maynard de Rocheblanche, due tra i protagonisti più amati dai tuoi lettori? Come li definiresti e, in generale, come delinei i personaggi delle tue storie?

Ignazio e Maynard sono semplicemente eroi della narrativa popolare, ovvero ciò che Umberto Eco definiva “superuomini di massa”. Come Batman e il Corsaro Nero, il Conte di Montecristo e D’Artagnan. In definitiva, mi impegno a mettere in risalto non tanto le loro buone qualità, che pur esistono, quanto i loro conflitti interiori, la loro curiosità, i loro rimorsi. In poche parole: il genio dell’intrigo.

Sei riuscito a fare del tuo più grande talento una professione a tempo pieno: che ostacoli hai incontrato e incontri ancora adesso nel tuo percorso da scrittore? Cosa significa, al giorno d’oggi, collaborare stabilmente con un grande editore?

Scrivere narrativa, professionalmente parlando, significa operare ogni giorno delle scelte. A volte di concerto con l’editore; più spesso da soli, nel silenzio del proprio studio. Detto questo, l’elaborazione dei romanzi dipende solo ed esclusivamente dal sottoscritto, che non chiede suggerimenti ad anima viva, né permette a nessuno di metter becco su ciò che sta combinando, finché non ha battuto sulla tastiera la parola Fine. Poi ci sono l’editing, le bozze, la scelta di titolo e copertina, il marketing... In una parola, il gioco di squadra. Ma veniamo al dunque: il mestiere di scrivere. Ebbene, è senz’altro esaltante lavorare in proprio, non avere capi né orari di ufficio. L’effetto della libertà assoluta però può essere fuorviante, specie per chi aspetta l’ispirazione prima di iniziare a stendere un nuovo romanzo. In realtà l’ispirazione non esiste, non come te la raccontano nei film. Si tratta piuttosto di una conquista quotidiana, un esercizio attraverso cui disciplinare la mente e la creatività. Io scrivo cinque-sei ore al giorno, tutti i giorni. Se posso anche le domeniche, magari in quelle arrivo alle due-tre ore. È quasi una necessità: ho sempre amato scrivere e se non lo facessi ne soffrirei. Quindi mi permetto una rettifica: scrivere è un esercizio, sì, ma bisogna anche essere tagliati per farlo. Il talento e la passione non ve li insegneranno mai in nessun corso di scrittura creativa. Non esistono ancora, che io sappia, trasfusioni di fantasia. Si tratta di doni che avete o non avete, sin dalla nascita. Poi bisogna correre, farsi i muscoli. E questo, be’, è tutto esercizio.

Arriva un momento nella vita di ogni opera nel quale questa smette di essere proprietà esclusiva dell’autore che l’ha ideata e diventa parte integrante della sensibilità di chi ne fruisce. Come ti rapporti con questo fenomeno? Che spunti ricevi dai tuoi lettori?

Nel corso degli anni il mio rapporto con i lettori è cresciuto. I Social Network, le presentazioni, le interviste mi hanno consentito di instaurare un legame biunivoco attraverso cui “tastare il polso” della situazione. Ho anche imparato a guardare i miei personaggi attraverso gli occhi di chi mi legge e questa è stata un’esperienza grandiosa. La lezione più importante di tutte, forse. Questo perché le persone “comuni”, quelle che vagano come spettri per gli scaffali delle librerie in cerca dei tuoi thriller, sanno andare dritti al succo. Sanno dirti subito, sin dalla prima pagina, se il romanzo funziona oppure no. Se la tua storia è viva, accattivante, o se invece può essere tranquillamente buttata giù per lo sciacquone.

A cosa stai lavorando attualmente? Svelaci quali sono i tuoi programmi per il futuro.


Ho da poco consegnato a Newton Compron il manoscritto di “L’abbazia dei cento inganni”, il capitolo conclusivo della trilogia medievale dedicata a Maynard de Rocheblanche. Una trilogia, ci tengo a precisarlo, in cui ho messo l’anima. Al momento attuale, naturalmente, sto già lavorando a qualcosa di nuovo. Un progetto esaltante, per la verità, che spero – come diceva Richard Matheson – vi farà saltare sulla sedia. Ma al momento, da bravo scrittore di mistery, non posso rivelare nient’altro.