A
lei scrivere romanzi piace proprio
tanto. Ce lo ha confessato col sorriso, nel suo stile scanzonato e senza
prendersi troppo sul serio. Soprattutto perché sono loro a guidarla, prendendola per mano, capitolo dopo capitolo. Ma
chi è lei? Si tratta di Alessandra Redaelli, critica d’arte e
curatrice di mostre d’arte contemporanea e loro sono Martina, Ananda, Nirvana e
un mosaico di coloratissimi personaggi, protagonisti del suo primo romanzo, “Arte, amore e altri guai”, Newton Compton Editore, una storia
frizzante e fuori dagli schemi, il cui impatto può essere paragonato a quello
della Pop Art di Andy Warhol nel secolo scorso.
A
dare una marcia in più a questa opera prima, oltre all’impronta stilistica
molto personale dell’autrice, che aveva già caratterizzato i suoi saggi sulla
storia dell’arte, sono proprio i suoi protagonisti. Quelle creature nate a due
dimensioni, tra inchiostro e tastiera che, sul più bello, prendono
letteralmente vita e si mettono a fare tutto da soli. E noi, lettori, ma evidentemente anche scrittori, ci mettiamo l’anima
in pace e li assecondiamo, soprattutto quando a ispirarci è stata la nostra
quotidianità. Alessandra Redaelli scrive di ciò che conosce e di ciò che ama e
questo genuino trasporto si percepisce, pagina dopo pagina.
Martina,
la protagonista della storia, è una donna che ha da poco superato i quaranta e
si divide tra gli impegni di mamma di due adolescenti, i suoi gemelli Ananada e
Nirvana, e gli obblighi di redazione della rivista d’arte con cui collabora. Ha
un marito bello e attraente che ama moltissimo, ma quando si rende conto che
qualcosa nel suo matrimonio inizia a scricchiolare, sarà costretta a mettersi
profondamente in discussione, cercando di non perdere l’ironia che la
contraddistingue, nonostante i guai che sembrano darle la caccia. Quella di
Martina è una vita nella quale è facile immedesimarsi, fatta di fragilità, ma
anche di tanti colori diversi, come potrebbe essere quella di ciascuna di noi,
eroine di noi stesse, sempre di corsa, ma mai troppo impegnate per guardarci
dentro, alla ricerca di un pizzico di romanticismo e passione.
Il passaggio dalla
critica d’arte alla narrativa sembra esserti stato particolarmente congeniale,
vista la naturalezza con cui hai costruito una storia divertente e dissacrante
al tempo stesso, anche se, in fin dei conti, non ti sei allontanata troppo dal
tuo mondo, visto che tanti stravaganti artisti fanno incursione tra le pagine
di “Arte, amore e altri guai”, Newton Compton. Come nasce questa esigenza di
raccontare e cosa ti ha ispirata durante la stesura del tuo primo romanzo?
L’esigenza
di raccontare una storia come quella di Martina nasce dalla mia lunghissima
esperienza all’interno di un mensile specializzato. Ho lavorato per tantissimi
anni come collaboratrice fissa per la rivista Arte – della Cairo Editore – e
collaboro ancora, ma per un lungo periodo ho vissuto proprio la vita della
redazione. Ho avuto a che fare con diversi direttori, ognuno con i suoi talenti
speciali e con le sue peculiarità. Ho lavorato gomito a gomito con colleghi
fantastici con cui c’era uno scambio continuo e ho conosciuto una quantità di
artisti, giovani o già famosi, che mi hanno entusiasmato e mi hanno fatto amare
immensamente questo mondo. E poi c’era il caporedattore storico, quello il cui
nome, nella cerchia dei critici e dei giornalisti di settore di Milano, fa
ancora “tremare le vene e i polsi”. Un individuo pazzesco, indimenticabile, a
tratti feroce e a tratti tenerissimo, che mi ha insegnato tantissimo e che ho
messo al posto d’onore nei ringraziamenti del mio primo saggio. A lui – che
oggi è in pensione e si gode la vita in una tranquilla cittadina del Piemonte –
mi sono ispirata per uno dei personaggi che amo di più di “Arte, amore e altri
guai”: il terribile Pitbull.
Già nei panni di saggista
e divulgatrice hai dimostrato come, anche un argomento serio come quello della
storia dell’arte, possa essere raccontato col sorriso. Facciamo un bilancio dei
tuoi primi passi come narratrice: è un’esperienza che pensi di ripetere in
futuro? Che autrice sei e come hai dovuto adattare il tuo metodo a seconda dei
vari generi in cui ti sei cimentata?
Assolutamente
sì: è un’esperienza che intendo ripetere. E già mi frullano mille idee per la
testa.
Scegliere un tono leggero, apparentemente facile (e dentro quell’
“apparentemente” c’è tanto) e uno sguardo scanzonato e dissacrante nei
confronti di una materia considerata ostica come l’arte contemporanea è stata
la mia sfida, e credo di averla vinta. Tanti colleghi – che peraltro stimo
moltissimo e da cui ho imparato tanto – si affidano per parlare d’arte a un
linguaggio erudito e complesso. Io ho voluto dimostrare che per parlare di
cultura si può usare un linguaggio diverso e che la leggerezza, a volte, è la
chiave migliore, perché non fa paura, non è respingente, non mette
l’interlocutore in soggezione, ma al contrario lo fa sentire a suo agio. Già
dimostrare che un mucchio di caramelle o una stanza vuota sono opere d’arte non
è la cosa più semplice del mondo, se poi lo si fa arrotolandosi dentro frasi
involute il lettore rischia di mettersi a prendere a testate il muro per poi
passare a una fiction in tv. Far capire invece anche a chi non bazzica la
materia, che l’arte contemporanea può essere assaporata col piacere di una
fiction – ma una fiction che ti lascia dentro qualcosa, ti apre la mente e ti
rende felice – ecco, è una bella soddisfazione.In realtà non c’è tanta differenza tra il linguaggio di “Keep Calm e impara a capire l’arte” o di “I segreti dell’arte moderna e contemporanea” e quello del romanzo. L’idea – sostanzialmente – è la stessa: parlare di cose serie (in questo caso il matrimonio a una svolta, i deragliamenti amorosi, il ruolo della donna, l’amicizia, il sesso) in maniera leggera ma precisa e senza sconti. Diciamo che, ora che conosco Martina, la protagonista del romanzo, penso che “Keep Calm” e “I segreti” potrebbe averli scritti proprio lei.
Come definiresti Martina,
l’indimenticabile protagonista della tua storia? In generale, come hai
delineato tutti i personaggi, più o meno importanti, che le ruotano attorno, a
partire dai suoi figli adolescenti, Ananda e Nirvana?
Martina
è una donna multitasking tipica del
nostro tempo: mamma acrobata, moglie, massaia (più o meno…), professionista.
Vorrebbe dare il meglio di sé in tutti i suoi ruoli, ed è sempre in corsa
contro il tempo: sia quello della quotidianità – che le sembra perennemente
insufficiente – che quello degli anni che passano, del corpo che cambia. Quello
che succede al suo matrimonio è come uno schiaffo in piena faccia, e tuttavia è
la chiave che le permette di rileggersi come una donna nuova, capace ancora di
sedurre e di salvarsi attraverso la passione per il suo lavoro, l’aiuto delle
amiche e – arma fondamentale – l’autoironia. Diciamo che per lei si chiude una
porta e si apre un portone (o un burrone, come direbbe Fedez… sta a voi
decidere).
Immagina di avere una
macchina del tempo: quale grande artista o scrittore del passato ti piacerebbe
conoscere e intervistare? E quali domande gli faresti?
Oh…
Vorrei essere Berthe Morisot e – cavolo – giuro che riuscirei a sedurre Manet,
a fargli lasciare la moglie (tanto non l’amava: la tradiva compulsivamente) e a
farmi sposare da lui. Altro che accontentarmi del fratello! Ok, seriamente?
Vorrei incontrare Artemisia Gentileschi anziana – è morta a sessant’anni… per quegli
anni era anziana – e farle una lunga intervista, capire come ha fatto allora,
in una delle epoche più buie, lei, donna, indifesa e sola, a farsi strada in
quel mondo di lupi (maschi) che è l’arte e a uscirne come la più vittoriosa
delle guerriere.
A cosa stai lavorando
attualmente? Svelaci quali sono i tuoi progetti per il futuro.
La
mia professione ufficiale è quella
della curatrice di mostre, e per i mesi a venire ho tanti appuntamenti (si
trova tutto sulla mia pagina Facebook). Per Newton Compton, poi, sto lavorando
a un nuovo saggio. Sarà completamente diverso dai due precedenti, perché non
sarà scandito in microcapitoli monografici su un’opera, ma avrà un andamento
fluido e consequenziale. Anche se il tono – dont’t
worry – sarà assolutamente il mio. E poi… chissà. Ti dirò: a me scrivere
romanzi piace proprio tanto.