martedì 22 maggio 2018

“Accabadora” di Michela Murgia. L’eternità dell’amore, tra la vita e la morte



In una società in cui il bisogno di maternità ci porta, nostro malgrado, a servirci di scienza medica e tecnologia, Michela Murgia ci ricorda come a volte, per diventare genitori o figli, basti uno sguardo, raccontando di usanze che sanno di antico e che è quasi impossibile collocare nel tempo, tanto il ricordo sembra affogare nel passato e la consuetudine secolare sembra rimanere attuale anche nell’Italia non troppo distante del Dopoguerra, proprio come in un’eternità fiabesca.
“Accabadora”, infatti, edito da Einaudi e Premio Campiello 2010, sembra proprio una fiaba, pervaso com’è dalla ricerca di vita e morte a ogni costo e da quella reale crudeltà che l’umana sete di spiegazioni cerca spesso di sedare col linguaggio fiabesco.
Michela Murgia è nata a Cabras nel 1972 e nel 2006 ha pubblicato “Il mondo deve sapere”, che ha ispirato il film “Tutta la vita davanti” di Paolo Virzì. È una scrittrice poliedrica e di indiscussi profondità e talento, che ha prestato anche la propria voce per delle versioni audiolibro di molte delle sue opere, tra cui “Accabadora”.
Bonaria Urrai, la protagonista della storia, è sola e senza figli, il suo cuore sopporta lo scorrere del tempo meglio del suo aspetto “forse era questo il motivo per cui Bonaria Urrai era vecchia da quando era giovane”. Maria Listru è una bambina di sei anni in una Sardegna arsa dal sole estivo dei primi anni Cinquanta “ed era l’errore dopo tre cose giuste”. É in un caldo pomeriggio di luglio che Bonaria Urrai porta la piccola Maria a casa con sé, dopo aver parlato con la madre sotto una pianta di limoni, e le dona un letto e una camera tutta sua, con le pareti piene di madonne e crocefissi, portando nell’immobilità della vita di entrambe la gioia di un affetto senza riserve, di un pensiero prezioso prima di coricarsi, della speranza di famiglia che vada oltre la parentela.
Per molto tempo Maria crede che Tzia Bonaria faccia solo la sarta. La prima volta che la bambina si accorge che Bonaria esce di notte ha otto anni e le chiede dove stia andando. Ma ci sono segreti che nessuna madre può rivelare a una figlia e quando Bonaria torna a casa, a notte fonda, Maria dorme e non se ne accorge neppure. Il giorno dopo la vecchia e la bambina si vestono di nero e si recano al funerale di un vicino di casa per onorare il morto e la vedova, che accoglie Bonaria con uno slancio che stupisce molto Maria. Poi, per molti anni, più nulla, Bonaria non esce più di notte. Ma il suo segreto non rimarrà nascosto per sempre.
Acabar viene dallo spagnolo e significa finire. In sardo accabadora è colei che finisce. Colei che mette fine a vite già spente. Agli occhi della comunità il suo non è il gesto di un’assassina, ma solo il destino che si compie, risparmiando la sofferenza. Ma chi è davvero l’accabadora di Soreni, il piccolo paesino sardo dove si svolge questa insolita fiaba moderna? Chi è l’ultima madre che accompagna i figli della terra verso nuove mete assai lontane? Che volto si nasconde dietro questa figura tanto oscura da sembrare quasi mitologica? E Maria, crescendo, riuscirà a smussare gli spigoli del suo carattere di piccola donna e a sopportare il peso di un segreto tanto imprevedibile?
“Fillus de anima. È così che li chiamano i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un’altra. Di quel secondo parto era figlia Maria Listru, frutto tardivo dell’anima di Bonaria Urrai.”
Questo è l’incipit del romanzo di Michela Murgia e queste poche righe sono bastate per scavare una nicchietta di curiosità e interesse così profonda dentro di noi, da portarci a non staccare più gli occhi dal libro fino all’ultima preziosa parola.
Gli avvenimenti scorrono, in questa Sardegna difficile degli anni Cinquanta, cesellati in uno stile elegante e delicato che evoca immagini vivide, come solo un buon libro riesce a fare, in un costante senso di commozione che non è dovuto al banale immedesimarsi nei personaggi che tutti compiano nel nostro intimo quando leggiamo, ma alla sensazione di non detto e a quella costante paura, che ci accompagna nella vita, che dietro a una timida felicità, tanto faticosamente guadagnata, si nasconda la tragedia imminente, il degenerare degli eventi, il fato crudele al di là di ogni controllo, che farà rimpiangere perfino una lieve quiete ormai perduta.
Non ci siamo trovati a rispecchiarci né in Maria, né in Bonaria, ma a volte abbiamo rivisto noi stessi nella consapevolezza tardiva che la felicità era lì, nelle nostre mani, molto più semplice e leggera delle nostre aspettative, solo un istante dopo che era svanita per sempre. E leggendo avremmo voluto guardare negli occhi la piccola Maria e dirle che non sempre tenere celato un segreto significa mentire e non essere leali con se stessi o con gli altri.
La Murgia dipinge personaggi che a prima vista sembrano lontani a da noi, sia nel tempo, sia nella frenesia del quotidiano, ma che nell’implacabile intercambiabilità dell’esistenza ci sono seduti accanto, come sull’autobus o al cinema, e siamo consapevoli che prima o poi, almeno una volta nella vita, prenderemo il loro posto e guarderemo il dolore e la delusione venirci incontro senza poter fare nulla per evitarli. Forse è proprio questa certezza che quasi ci porta a leggere con un piccolo tumulto nel cuore, sperando che noi stessi, nelle medesime circostanze, non compiremo gli stessi errori delle nostre protagoniste, ma coscienti che, in realtà, sarà esattamente così.
 “Accabadora” è un romanzo che ha il valore speciale delle cose che si scelgono e la sorpresa, a volte dolce, a volte amara, delle cose che accadono senza avvertire e che si può solo imparare ad accogliere umilmente. Come la vita e la morte.


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