In
una società in cui il bisogno di maternità ci porta, nostro malgrado, a
servirci di scienza medica e tecnologia, Michela
Murgia ci ricorda come a volte, per diventare genitori o figli, basti uno
sguardo, raccontando di usanze che sanno di antico e che è quasi impossibile
collocare nel tempo, tanto il ricordo sembra affogare nel passato e la
consuetudine secolare sembra rimanere attuale anche nell’Italia non troppo
distante del Dopoguerra, proprio come in un’eternità fiabesca.
“Accabadora”,
infatti, edito da Einaudi e Premio
Campiello 2010, sembra proprio una fiaba, pervaso com’è dalla ricerca di vita e
morte a ogni costo e da quella reale crudeltà che l’umana sete di spiegazioni
cerca spesso di sedare col linguaggio fiabesco.
Michela
Murgia è nata a Cabras nel 1972 e nel 2006 ha pubblicato “Il mondo deve
sapere”, che ha ispirato il film “Tutta la vita davanti” di Paolo Virzì. È una scrittrice
poliedrica e di indiscussi profondità e talento, che ha prestato anche la
propria voce per delle versioni audiolibro di molte delle sue opere, tra cui
“Accabadora”.
Bonaria
Urrai, la protagonista della storia, è sola e senza figli, il suo cuore sopporta
lo scorrere del tempo meglio del suo aspetto “forse era questo il motivo per cui Bonaria Urrai era vecchia da quando
era giovane”. Maria Listru è una bambina di sei anni in una Sardegna arsa
dal sole estivo dei primi anni Cinquanta “ed
era l’errore dopo tre cose giuste”. É in un caldo pomeriggio di luglio che
Bonaria Urrai porta la piccola Maria a casa con sé, dopo aver parlato con la
madre sotto una pianta di limoni, e le dona un letto e una camera tutta sua,
con le pareti piene di madonne e crocefissi, portando nell’immobilità della
vita di entrambe la gioia di un affetto senza riserve, di un pensiero prezioso
prima di coricarsi, della speranza di famiglia che vada oltre la parentela.
Per
molto tempo Maria crede che Tzia
Bonaria faccia solo la sarta. La prima volta che la bambina si accorge che
Bonaria esce di notte ha otto anni e le chiede dove stia andando. Ma ci sono
segreti che nessuna madre può rivelare a una figlia e quando Bonaria torna a
casa, a notte fonda, Maria dorme e non se ne accorge neppure. Il giorno dopo la
vecchia e la bambina si vestono di nero e si recano al funerale di un vicino di
casa per onorare il morto e la vedova, che accoglie Bonaria con uno slancio che
stupisce molto Maria. Poi, per molti anni, più nulla, Bonaria non esce più di
notte. Ma il suo segreto non rimarrà nascosto per sempre.
Acabar viene
dallo spagnolo e significa finire. In
sardo accabadora è colei che finisce. Colei che mette fine
a vite già spente. Agli occhi della comunità il suo non è il gesto di un’assassina,
ma solo il destino che si compie, risparmiando la sofferenza. Ma chi è davvero
l’accabadora di Soreni, il piccolo paesino sardo dove si svolge questa insolita
fiaba moderna? Chi è l’ultima madre che accompagna i figli della terra verso
nuove mete assai lontane? Che volto si nasconde dietro questa figura tanto
oscura da sembrare quasi mitologica? E Maria, crescendo, riuscirà a smussare
gli spigoli del suo carattere di piccola donna e a sopportare il peso di un
segreto tanto imprevedibile?
“Fillus de anima. È così
che li chiamano i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e
dalla sterilità di un’altra. Di quel secondo parto era figlia Maria Listru,
frutto tardivo dell’anima di Bonaria Urrai.”
Questo
è l’incipit del romanzo di Michela Murgia e queste poche righe sono bastate per
scavare una nicchietta di curiosità e interesse così profonda dentro di noi, da
portarci a non staccare più gli occhi dal libro fino all’ultima preziosa
parola.
Gli
avvenimenti scorrono, in questa Sardegna difficile degli anni Cinquanta,
cesellati in uno stile elegante e delicato che evoca immagini vivide, come solo
un buon libro riesce a fare, in un costante senso di commozione che non è
dovuto al banale immedesimarsi nei personaggi che tutti compiano nel nostro
intimo quando leggiamo, ma alla sensazione di non detto e a quella costante
paura, che ci accompagna nella vita, che dietro a una timida felicità, tanto
faticosamente guadagnata, si nasconda la tragedia imminente, il degenerare
degli eventi, il fato crudele al di là di ogni controllo, che farà rimpiangere
perfino una lieve quiete ormai perduta.
Non
ci siamo trovati a rispecchiarci né in Maria, né in Bonaria, ma a volte abbiamo
rivisto noi stessi nella consapevolezza tardiva che la felicità era lì, nelle
nostre mani, molto più semplice e leggera delle nostre aspettative, solo un
istante dopo che era svanita per sempre. E leggendo avremmo voluto guardare
negli occhi la piccola Maria e dirle che non sempre tenere celato un segreto
significa mentire e non essere leali con se stessi o con gli altri.
La
Murgia dipinge personaggi che a prima vista sembrano lontani a da noi, sia nel
tempo, sia nella frenesia del quotidiano, ma che nell’implacabile
intercambiabilità dell’esistenza ci sono seduti accanto, come sull’autobus o al
cinema, e siamo consapevoli che prima o poi, almeno una volta nella vita,
prenderemo il loro posto e guarderemo il dolore e la delusione venirci incontro
senza poter fare nulla per evitarli. Forse è proprio questa certezza che quasi
ci porta a leggere con un piccolo tumulto nel cuore, sperando che noi stessi,
nelle medesime circostanze, non compiremo gli stessi errori delle nostre
protagoniste, ma coscienti che, in realtà, sarà esattamente così.
“Accabadora” è un romanzo che ha il valore speciale
delle cose che si scelgono e la sorpresa, a volte dolce, a volte amara, delle
cose che accadono senza avvertire e che si può solo imparare ad accogliere
umilmente. Come la vita e la morte.
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