La parola chiave della storia che vi raccontiamo oggi è alternative.
Tutta le mafie che, da secoli, dilaniano il nostro Paese, dalla ‘ndrangheta, alla
Camorra, passando per Cosa Nostra e la Sacra Corona Unita, affondano le loro
radici più profonde nella convinzione dei loro membri che non esistano alternative valide all’adesione ai loro sistemi
corrotti. Da ciò ne deriva il continuo coinvolgimento, di generazione in
generazione, di nuove leve abituate a vedere nella violenza e nella corruzione
l’unico possibile stile di vita, portando a un tale avvelenamento del tessuto
sociale, da mettere all’angolo le Istituzioni. Sin da bambini, infatti, i figli
delle famiglie mafiose vengono educati a
seguire le orme insanguinate dei propri padri. Angela Iantosca, scrittrice e giornalista di grande professionalità
e coraggio, ci racconta l’infanzia di alcuni di questi bambini nel suo
interessantissimo saggio “Bambini a
metà. I figli della ‘ndrangheta”, edito da Giulio Perrone Editore. L’arduo compito delle Istituzioni e dell’opinione
pubblica è proprio permettere ai bambini di oggi, gli adulti di domani, di
credere che esistano delle vere
alternative a una vita sottomessa alla ‘ndrangheta, fatte di condivisione,
rispetto e legalità. Perché ogni bambino ha diritto di avere un’infanzia
felice, come ogni uomo deve poter scegliere di costruire, secondo coscienza, il
proprio futuro, senza paura di mostrare da che parte sta.
L’infanzia
può essere negata in molti modi, ma crescere in un ambiente inquinato dalla
‘ndrangheta è sicuramente la più alienante delle violenze. Chi sono i figli della ‘ndrangheta?
Sono i figli della violenza, del
malaffare, delle regole dell’Onorata, della fede messa al servizio
dell’organizzazione criminale. Sono bambini abituati a vedere i genitori che
parlano di droga, di armi, di faide, di accordi, sono bambini che in nome
dell’Onorata sanno che si può uccidere la madre o una fidanzata o un figlio, se
non ubbidisce alle regole stabilite. Sono bambini educati a nascondere i loro
sentimenti, perché chi ama può facilmente tradire.
Sono bambini, non solo calabresi,
cresciuti in uno stato parallelo al nostro Stato, dove si sputa quando si sente
la parola “carabiniere”, dove non si rispettano le regole del nostro Stato,
dove poliziotti e carabinieri sono considerati degli infami, dove il diverso è
escluso, dove ciò che conta è il potere e il significato che si nasconde dietro
determinati cognomi, dove le Istituzioni non meritano alcuna considerazione,
dove i matrimoni nascono dalla necessità di rafforzare rapporti tra famiglie,
dove può capitare che le ragazze e i ragazzi non possano amare liberamente,
dove il mondo nel quale viviamo noi viene visto attraverso una lente deformante
che ci dipinge come i nemici da combattere. Sono figli di ‘ndrangheta, bambini,
dunque, a metà, sia coloro che crescono nelle famiglie dei boss, sia coloro che
sono abituati a veder sparare, sia quelli che sono educati all’uso della
violenza, sia i figli di chi senza sparare, stando comodamente seduti nelle
proprie abitazioni, fa affari illeciti, si occupa del mercato della droga, del
traffico internazionale di stupefacenti, di armi, di chi ricicla denaro sporco.
Sono bambini a metà che troppo presto devono abbandonare il mondo dell’infanzia
per un mondo che non può regalare nulla, se non sofferenze.
Svelaci
la genesi del tuo saggio “Bambini a
metà. I figli della ‘ndrangheta”, Giulio Perrone Editore: da dove nasce
l’esigenza di raccontare questa realtà?
L’idea del libro è nata durante la
raccolta del materiale relativo al primo libro, “Onora la madre – storie di ndrangheta al femminile” (Rubbettino
editore – maggio 2012). Leggendo gli articoli, le carte processuali, mi
sono imbattuta nel protocollo “Liberi di scegliere”, del Tribunale per i Minorenni
di Reggio Calabria, voluto dal suo Presidente, il Dottor Roberto Di Bella. Incuriosita
dal protocollo e spinta dalla necessità di approfondire, ho contattato il Presidente
chiedendo di poterlo incontrare per cercare di andare a fondo in una direzione
mai considerata: nessuno si è mai occupato dei minori, nessuno ha mai posto
l’accento su quanto sia importante intervenire sui minori per provare ad
interrompere la catena di sangue della ’ndrangheta che, proprio perché
sovrappone l’organizzazione criminale a quella familiare, si fonda sul ricambio
generazionale e sul tramandare le “tradizioni” mafiose di padre in figlio.
Grazie a Di Bella ho avuto modo di incontrare alcuni dei ragazzi inseriti nel
protocollo, di toccare con mano gli effetti che l’educazione ’ndranghetista
provoca su questi ragazzi. Ho pensato, dunque, di realizzare un saggio che
raccontasse i numerosi casi di atti criminali nei quali vengono coinvolti i
minori, che raccontasse la scuola, il suo ruolo difficile soprattutto in alcuni
territori, come San Luca, che raccontasse la Chiesa e che soprattutto desse
voce ai miei incontri diretti, al viaggio fisico e psicologico in questa
Calabria così martoriata.
Credo che fosse necessario raccontare
questo aspetto della ‘ndrangheta, che fosse doveroso da parte mia. Credo che
sia essenziale continuare a parlarne e comprendere la gravità di quanto accade
ogni giorno. Non possiamo occuparci dei criminali solo quando sono maggiorenni,
perché è più probabile che siano irrecuperabili. È necessario occuparsi dei
minori, evitare loro sofferenze, creare delle speranze, delle alternative,
mostrare loro una via differente da quella che gli mostrano i familiari. Ed è
ciò che fa il protocollo che permette a quei ragazzi finiti nelle maglie della
giustizia minorile di crearsi una opportunità diversa dal carcere e dalla
morte, entrando in contatto prima di tutto con se stessi.
Le
Istituzioni come affrontano concretamente queste situazioni così drammatiche?
Che provvedimenti possono prendere?
Grazie al protocollo redatto dal Tribunale
per i Minorenni di Reggio Calabria, ai ragazzi vengono date tre opportunità: o
vengono inseriti in comunità nei pressi del loro paese natio, quindi in
Calabria, o vengono mandati in Regioni limitrofe, per esempio in Sicilia dove
vengono inseriti in comunità e in contatto con associazioni (come Addiopizzo)
che attraverso un lavoro quotidiano provano a scardinare tutte quelle
sovrastrutture che gli sono state create dalla famiglia, oppure – qualora le
loro famiglie di provenienza siano particolarmente pericolose o non mostrino
capacità di poter riaccogliere un giorno nel proprio nucleo i figli - vengono
mandati in comunità o in famiglie nel nord Italia. Purtroppo il protocollo è
stato redatto dal Tribunale dei Minori di Reggio Calabria e interessa
unicamente questa provincia. Nonostante sia trascorso del tempo, inoltre,
ancora non è stato trasformato in legge. Un grande supporto da qualche mese sta
giungendo dall’Associazione di Don Luigi Ciotti, Libera.
Quanto
è difficile sensibilizzare l’opinione pubblica verso questi temi? Che ostacoli
hai incontrato in questo percorso?
Ogni incontro vede la presenza di un
pubblico attento e partecipe, in tutta Italia. Ciò che manca, tuttavia, è una
maggiore presa di coscienza. La ’ndrangheta, come tutte le mafie, non è un
problema altro da noi, ma è una realtà che noi stessi, ogni giorno, dobbiamo
combattere, nei nostri gesti quotidiani. Faccio degli esempi pratici: non
capita di rado di vedere in Calabria manifestazioni contro la mafia. Eppure
quelle stesse persone che sfilano lungo il chilometro più bello d’Italia, poi,
non le vedi entrare nei negozi di chi ha denunciato il racket. Sono importanti le manifestazioni, ma
ancora di più lo sono le scelte quotidiane, non aver paura di mostrare da che
parte si è. Ma questo non è un problema solo calabrese. Io sono di Latina e
ho avuto modo di partecipare attivamente nel 2014 alla Giornata della Memoria
organizzata da Libera nella mia città. Ebbene, eravamo più di centomila
persone, ma a sfilare per la città in ricordo delle vittime di tutte le mafie
c’erano i familiari delle vittime provenienti da tutte le regioni italiane, gli
studenti di Latina (attivi e partecipi), non gli adulti. E la stessa cosa si è
verificata anche in occasione della manifestazione organizzata a sostegno del
giudice Lucia Aielli minacciata di morte: per le strade della città c’erano
solo gli studenti, i giovanissimi, ma non gli adulti. Cosa significa questo?
Che si ha paura anche solo di mostrarsi accanto a chi lotta contro le mafie.
Personalmente, nella raccolta del
materiale, negli incontri, non ho riscontrato nessun tipo di difficoltà. La
Calabria, come il resto d’Italia, è fatta da una rete di gente sensibile e
disponibile, di veri professionisti, capaci di accoglierti e proteggerti.
Raccontaci
un episodio, un aneddoto, una storia che, tra le tante che hai conosciuto, è
rimasta maggiormente impressa nella tua memoria e nel tuo cuore di donna e di
scrittrice.
Molto forti sono stati gli incontri con
Libero, il ragazzo a cui ho anche dedicato il libro.
Libero è un
ragazzo che appartiene ad una delle famiglie più potenti della Locride. È il
primo ragazzo ad essere stato inserito nel protocollo “Liberi di scegliere”. Ho
avuto modo di incontrarlo più volte nel corso dell'anno che ha trascorso fuori
dalla Calabria e ciò che ho visto è stato un cambiamento graduale in lui, come
hanno confermato anche lo psicologo Enrico Interdonato e l'assistente sociale
Maria Baronello che lo hanno seguito. Quando Libero si è presentato a loro era
un ragazzo chiuso, privo di emozioni, ubbidiente, difficile da scalfire. Di
fronte a lui vedeva solo la morte e il carcere. Dopo un anno ha cambiato il suo
sguardo verso sé e gli altri. Quando gli ho domandato cosa vedesse di fronte a
sé, ora, mi ha risposto di non saperlo. Una risposta che rappresenta già una
grande conquista. Perché il non saperlo rappresenta un vedere di fronte a sé
nuove alternative al carcere e alla morte.
Ora è tornato nel
suo paese. Non sappiamo come finirà la sua storia. Ma una cosa è certa: ora sa
che ha una alternativa, che c'è altro oltre quel piccolo mondo fatto di dolore
e violenza nel quale è cresciuto. È stato molto emozionante assistere alla sua
crescita e, forse, farne anche parte.
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