venerdì 2 ottobre 2015

Angela Iantosca: chi sono i figli della ‘ndrangheta


La parola chiave della storia che vi raccontiamo oggi è alternative. Tutta le mafie che, da secoli, dilaniano il nostro Paese, dalla ‘ndrangheta, alla Camorra, passando per Cosa Nostra e la Sacra Corona Unita, affondano le loro radici più profonde nella convinzione dei loro membri che non esistano alternative valide all’adesione ai loro sistemi corrotti. Da ciò ne deriva il continuo coinvolgimento, di generazione in generazione, di nuove leve abituate a vedere nella violenza e nella corruzione l’unico possibile stile di vita, portando a un tale avvelenamento del tessuto sociale, da mettere all’angolo le Istituzioni. Sin da bambini, infatti, i figli delle famiglie mafiose vengono educati a seguire le orme insanguinate dei propri padri. Angela Iantosca, scrittrice e giornalista di grande professionalità e coraggio, ci racconta l’infanzia di alcuni di questi bambini nel suo interessantissimo saggio “Bambini a metà. I figli della ‘ndrangheta”, edito da Giulio Perrone Editore. L’arduo compito delle Istituzioni e dell’opinione pubblica è proprio permettere ai bambini di oggi, gli adulti di domani, di credere che esistano delle vere alternative a una vita sottomessa alla ‘ndrangheta, fatte di condivisione, rispetto e legalità. Perché ogni bambino ha diritto di avere un’infanzia felice, come ogni uomo deve poter scegliere di costruire, secondo coscienza, il proprio futuro, senza paura di mostrare da che parte sta.


L’infanzia può essere negata in molti modi, ma crescere in un ambiente inquinato dalla ‘ndrangheta è sicuramente la più alienante delle violenze. Chi sono i figli della ‘ndrangheta?

Sono i figli della violenza, del malaffare, delle regole dell’Onorata, della fede messa al servizio dell’organizzazione criminale. Sono bambini abituati a vedere i genitori che parlano di droga, di armi, di faide, di accordi, sono bambini che in nome dell’Onorata sanno che si può uccidere la madre o una fidanzata o un figlio, se non ubbidisce alle regole stabilite. Sono bambini educati a nascondere i loro sentimenti, perché chi ama può facilmente tradire.
Sono bambini, non solo calabresi, cresciuti in uno stato parallelo al nostro Stato, dove si sputa quando si sente la parola “carabiniere”, dove non si rispettano le regole del nostro Stato, dove poliziotti e carabinieri sono considerati degli infami, dove il diverso è escluso, dove ciò che conta è il potere e il significato che si nasconde dietro determinati cognomi, dove le Istituzioni non meritano alcuna considerazione, dove i matrimoni nascono dalla necessità di rafforzare rapporti tra famiglie, dove può capitare che le ragazze e i ragazzi non possano amare liberamente, dove il mondo nel quale viviamo noi viene visto attraverso una lente deformante che ci dipinge come i nemici da combattere. Sono figli di ‘ndrangheta, bambini, dunque, a metà, sia coloro che crescono nelle famiglie dei boss, sia coloro che sono abituati a veder sparare, sia quelli che sono educati all’uso della violenza, sia i figli di chi senza sparare, stando comodamente seduti nelle proprie abitazioni, fa affari illeciti, si occupa del mercato della droga, del traffico internazionale di stupefacenti, di armi, di chi ricicla denaro sporco. Sono bambini a metà che troppo presto devono abbandonare il mondo dell’infanzia per un mondo che non può regalare nulla, se non sofferenze.

Svelaci la genesi del tuo saggio “Bambini a metà. I figli della ‘ndrangheta”, Giulio Perrone Editore: da dove nasce l’esigenza di raccontare questa realtà?

L’idea del libro è nata durante la raccolta del materiale relativo al primo libro, “Onora la madre – storie di ndrangheta al femminile” (Rubbettino editore – maggio 2012). Leggendo gli articoli, le carte processuali, mi sono imbattuta nel protocollo “Liberi di scegliere”, del Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria, voluto dal suo Presidente, il Dottor Roberto Di Bella. Incuriosita dal protocollo e spinta dalla necessità di approfondire, ho contattato il Presidente chiedendo di poterlo incontrare per cercare di andare a fondo in una direzione mai considerata: nessuno si è mai occupato dei minori, nessuno ha mai posto l’accento su quanto sia importante intervenire sui minori per provare ad interrompere la catena di sangue della ’ndrangheta che, proprio perché sovrappone l’organizzazione criminale a quella familiare, si fonda sul ricambio generazionale e sul tramandare le “tradizioni” mafiose di padre in figlio. Grazie a Di Bella ho avuto modo di incontrare alcuni dei ragazzi inseriti nel protocollo, di toccare con mano gli effetti che l’educazione ’ndranghetista provoca su questi ragazzi. Ho pensato, dunque, di realizzare un saggio che raccontasse i numerosi casi di atti criminali nei quali vengono coinvolti i minori, che raccontasse la scuola, il suo ruolo difficile soprattutto in alcuni territori, come San Luca, che raccontasse la Chiesa e che soprattutto desse voce ai miei incontri diretti, al viaggio fisico e psicologico in questa Calabria così martoriata.   
Credo che fosse necessario raccontare questo aspetto della ‘ndrangheta, che fosse doveroso da parte mia. Credo che sia essenziale continuare a parlarne e comprendere la gravità di quanto accade ogni giorno. Non possiamo occuparci dei criminali solo quando sono maggiorenni, perché è più probabile che siano irrecuperabili. È necessario occuparsi dei minori, evitare loro sofferenze, creare delle speranze, delle alternative, mostrare loro una via differente da quella che gli mostrano i familiari. Ed è ciò che fa il protocollo che permette a quei ragazzi finiti nelle maglie della giustizia minorile di crearsi una opportunità diversa dal carcere e dalla morte, entrando in contatto prima di tutto con se stessi.

Le Istituzioni come affrontano concretamente queste situazioni così drammatiche? Che provvedimenti possono prendere?

Grazie al protocollo redatto dal Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria, ai ragazzi vengono date tre opportunità: o vengono inseriti in comunità nei pressi del loro paese natio, quindi in Calabria, o vengono mandati in Regioni limitrofe, per esempio in Sicilia dove vengono inseriti in comunità e in contatto con associazioni (come Addiopizzo) che attraverso un lavoro quotidiano provano a scardinare tutte quelle sovrastrutture che gli sono state create dalla famiglia, oppure – qualora le loro famiglie di provenienza siano particolarmente pericolose o non mostrino capacità di poter riaccogliere un giorno nel proprio nucleo i figli - vengono mandati in comunità o in famiglie nel nord Italia. Purtroppo il protocollo è stato redatto dal Tribunale dei Minori di Reggio Calabria e interessa unicamente questa provincia. Nonostante sia trascorso del tempo, inoltre, ancora non è stato trasformato in legge. Un grande supporto da qualche mese sta giungendo dall’Associazione di Don Luigi Ciotti, Libera.

Quanto è difficile sensibilizzare l’opinione pubblica verso questi temi? Che ostacoli hai incontrato in questo percorso?

Ogni incontro vede la presenza di un pubblico attento e partecipe, in tutta Italia. Ciò che manca, tuttavia, è una maggiore presa di coscienza. La ’ndrangheta, come tutte le mafie, non è un problema altro da noi, ma è una realtà che noi stessi, ogni giorno, dobbiamo combattere, nei nostri gesti quotidiani. Faccio degli esempi pratici: non capita di rado di vedere in Calabria manifestazioni contro la mafia. Eppure quelle stesse persone che sfilano lungo il chilometro più bello d’Italia, poi, non le vedi entrare nei negozi di chi ha denunciato il racket. Sono importanti le manifestazioni, ma ancora di più lo sono le scelte quotidiane, non aver paura di mostrare da che parte si è. Ma questo non è un problema solo calabrese. Io sono di Latina e ho avuto modo di partecipare attivamente nel 2014 alla Giornata della Memoria organizzata da Libera nella mia città. Ebbene, eravamo più di centomila persone, ma a sfilare per la città in ricordo delle vittime di tutte le mafie c’erano i familiari delle vittime provenienti da tutte le regioni italiane, gli studenti di Latina (attivi e partecipi), non gli adulti. E la stessa cosa si è verificata anche in occasione della manifestazione organizzata a sostegno del giudice Lucia Aielli minacciata di morte: per le strade della città c’erano solo gli studenti, i giovanissimi, ma non gli adulti. Cosa significa questo? Che si ha paura anche solo di mostrarsi accanto a chi lotta contro le mafie.
Personalmente, nella raccolta del materiale, negli incontri, non ho riscontrato nessun tipo di difficoltà. La Calabria, come il resto d’Italia, è fatta da una rete di gente sensibile e disponibile, di veri professionisti, capaci di accoglierti e proteggerti.

Raccontaci un episodio, un aneddoto, una storia che, tra le tante che hai conosciuto, è rimasta maggiormente impressa nella tua memoria e nel tuo cuore di donna e di scrittrice.

Molto forti sono stati gli incontri con Libero, il ragazzo a cui ho anche dedicato il libro.
Libero è un ragazzo che appartiene ad una delle famiglie più potenti della Locride. È il primo ragazzo ad essere stato inserito nel protocollo “Liberi di scegliere”. Ho avuto modo di incontrarlo più volte nel corso dell'anno che ha trascorso fuori dalla Calabria e ciò che ho visto è stato un cambiamento graduale in lui, come hanno confermato anche lo psicologo Enrico Interdonato e l'assistente sociale Maria Baronello che lo hanno seguito. Quando Libero si è presentato a loro era un ragazzo chiuso, privo di emozioni, ubbidiente, difficile da scalfire. Di fronte a lui vedeva solo la morte e il carcere. Dopo un anno ha cambiato il suo sguardo verso sé e gli altri. Quando gli ho domandato cosa vedesse di fronte a sé, ora, mi ha risposto di non saperlo. Una risposta che rappresenta già una grande conquista. Perché il non saperlo rappresenta un vedere di fronte a sé nuove alternative al carcere e alla morte.
Ora è tornato nel suo paese. Non sappiamo come finirà la sua storia. Ma una cosa è certa: ora sa che ha una alternativa, che c'è altro oltre quel piccolo mondo fatto di dolore e violenza nel quale è cresciuto. È stato molto emozionante assistere alla sua crescita e, forse, farne anche parte.

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