Camila Leon |
Se,
come ci insegnano a scuola, ogni parola ha il proprio significato, dovremmo
smettere di chiamarli Disturbi
dell’Apprendimento o, più comunemente DSA, e iniziare a chiamarle semplicemente
difficoltà. Perché i cosiddetti disturbi sembrano quasi un marchio a
fuoco, destinato difficilmente a risolversi e che rischia di segnare un bambino
per sempre nel suo percorso scolastico, rendendolo tortuoso e impervio. Mentre
le difficoltà, sia i bambini, sia gli
adulti, possono e devono affrontarle. Possibilmente insieme, facendo gioco di
squadra tra loro e con la scuola e gli esperti che possono aiutarli. Solo così
le difficoltà si superano davvero. Ma cosa sono realmente i DSA? E come possono
essere affrontati dai genitori senza essere ingigantiti inutilmente? Ce lo
spiega Gianluca Marasca, Dottore in Fisioterapia e specializzato in
Riabilitazione Neurocognitiva dell’età evolutiva. Secondo Marasca ogni bambino
ha una sua personalissima storia che va studiata e conosciuta nello specifico e
con grande attenzione, giacché non è sufficiente affidarsi ai soli test in
grado di diagnosticare le specifiche difficoltà. Esperto nello studio del
legame corpo-apprendimento e nell’utilizzo degli albi illustrati come supporto
per comprendere meglio i pensieri e le esperienze dei piccoli pazienti,
Gianluca Marasca mette a nostra disposizione la sua professionalità,
spiegandoci, con parole semplici, come imparare a interagire coi nostri bambini,
dopo aver conosciuto le loro storie
interiori.
Quali sono i più comuni
disturbi dell’apprendimento nei bambini e nei ragazzi in età scolare? E quali
quelli meno diffusi e più difficili da diagnosticare?
Diciamo
che ci sono delle differenze fra noi e i paesi anglosassoni. Io ho un punto di
vista che deriva dai nostri studi e dalle nostre ricerche di carattere
nazionale. I più comuni disturbi dell’apprendimento sono quelli legati alla
letto-scrittura, ma io inserirei prepotentemente anche le difficoltà
nell’acquisizione del linguaggio, le disprassie,
ovvero quelle difficoltà legate maggiormente alla relazione con gli oggetti e
gli strumenti e quelle legate alle relazioni con il mondo e con gli altri (che
danno origine a quelle difficoltà chiamate tecnicamente difficoltà dello schema
corporeo e/o della coordinazione motoria, insomma i bambini goffi, per farla semplice).
Nei
DSA non ci sono deficit neurologici o ipoacusici o di ipovisione, altrimenti le
difficoltà negli apprendimenti sarebbero secondarie ai problemi primari:
esempio ho un deficit dell’udito quindi mi è quasi impossibile fare una
trasformazione fonema-grafema, ovvero dalla parola che sento, al segno grafico.
Cerco
di rendere le cose semplici, anche se sono molto più complesse.
In
Italia si diagnosticano i comuni DSA a partire dalla prima elementare (di
solito gli allarmi avvengono nel secondo quadrimestre, anche se insegnanti
molto attenti, scrupolosi e bravi se ne accorgono dopo il primo mese di scuola).
Ovviamente
queste difficoltà emergono perché emergono quadri o livelli di apprendimento
più specifici per cui è più facile notare il gap, la differenza fra un bambino che scrive abbastanza bene e un
altro che ci impiega tempi enormi per ricopiare una paginetta di A o di sillabe
ecc. L’aspetto “produttivo” è il focus
nei DSA.
Per
rispondere alla seconda parte della domanda: la maggior parte della testistica
si orienta verso il risultato, il prodotto finale, e trascura, ovviamente e per
me purtroppo, i metalivelli di apprendimento. Quindi quelli meno diffusi o
difficili da valutare sono proprio i metalivelli, le aree di sviluppo
prossimale o potenziale, cioè come quel bambino, con la sua specifica storia,
in quel momento, “muove” i suoi processi cognitivi: attenzione, percezione,
linguaggio, problem solving.
Ad
esempio: oggi Paolo non riesce a
scrivere e ha difficoltà di ortografia, ma non sappiamo come si è organizzato
il suo cervello o come si organizzerà nei mesi successivi, non sappiamo che
tipologia di esperienze Paolo ha
fatto quando era più piccolo, non sappiamo se ha avuto traumi,
ospedalizzazioni, otiti ricorrenti, difficoltà emotive e così via, insomma
della storicità del piccolo Paolo non
sappiamo nulla, ma i test, che io odio,
ci dicono che non sa leggere una parola o che il suo vocabolario non contempla
mille parole ma solo cento, oppure che, impugnando male la penna o la matita,
ovviamente, ha un gesto grafico faticoso e illeggibile. La scrittura,
fondamentalmente, ci serve per rilevare le informazioni e rileggerci.
Quali sono i campanelli
d’allarme che devono allertare famiglie e scuole? Cosa bisogna fare
immediatamente?
Bella
domanda, molto complessa. Detto fra noi e a beneficio di chi ci legge, la
maggior parte dei disturbi dell’apprendimento nasce nelle difficoltà legate
alle emozioni, alle separazioni, ai traumi, alle relazioni dei genitori di quei
bambini in difficoltà e il prodotto che si vede alla fine è che il bimbo in
questione non sa leggere, non sa scrivere e via dicendo.
Di
solito i genitori sono totalmente immersi nella relazione col proprio figlio
che non vedono o fanno finta di non
vedere, da qui la grande responsabilità dell’insegnante.
Io,
ad esempio, ho iniziato un programma di supervisione già dalla primissima
infanzia, nelle materne o nei nidi. Osservare un bambino in quei contesti è
predittivo delle “competenze” future.
Il
gioco è il mezzo che sfrutto durante la terapia: mi muovo intorno a quello che
i bambini fanno o vogliono fare o, in certi casi, non fanno. Sono tutte
informazioni utilissime.
La
maggior parte di queste difficoltà sono appunto nelle “relazioni” e non
specifiche di una competenza non appresa in quel momento a scuola. Se un
genitore non ha mai giocato col proprio figlio questo si riverbererà sulle
relazioni sociali future, sulle relazioni con gli strumenti operativi e
primariamente sui processi cognitivi e adattivi di quel bambino. La faccio
semplice anche se la questione è molto complessa, naturalmente.
Detto
ciò, basta osservare un bambino in mezzo agli altri: si isola, si relaziona
solo con se stesso, non gioca, gioca solo con un bambino, gioca o piange solo
con la maestra, gioca con tutti, è sereno, come gioca, con cosa gioca o non fa
proprio nulla: questi sono i segnali da osservare e cogliere.
Che funzione ha la
terapia con uno specialista in questi casi? Può essere considerata una cura?
Noi
non siamo specialisti e neanche tuttologi,
ma abbiamo le competenze per lavorare col bambino a livello multidimensionale:
non separiamo i processi cognitivi da quelli prettamente somatici sensoriali,
non separiamo il linguaggio dal gesto (il gesto è la parola), il motorio dal
cognitivo ecc.
Non
si tratta di cura, ma di un percorso
verso una nuova riorganizzazione. Un vero e proprio viaggio…
Che ruolo può, o potrebbe
svolgere, la scuola? Cosa devono pretendere
le famiglie dal sistema scolastico e quali difficoltà potrebbero
incontrare?
La
scuola, come è pensata e organizzata oggi, non può fare molto, purtroppo. I tempi,
i costi, i numeri vengono considerati più importanti del singolo bambino. Sarò
laconico: la scuola va ripensata. I numeri vanno ripensati e, soprattutto, le
competenze e/o intelligenze vanno rimodulate.
Ogni
bambino è completamente diverso da un altro, perché la sua storia è diversa
dalla storia di un altro.
Raccontaci un episodio,
un aneddoto, una storia che, in questi anni di professione, è rimasta
particolarmente impressa nella tua memoria.
Gabriele
viene da me nell’ultimo anno di materna, prima dell’inizio dell’asilo. Mi viene
descritto come un bambino chiuso, con difficoltà nel gioco e difficoltà
prassiche. Ha un linguaggio adeguato, ma emotivamente sembra isolato.
Lavoriamo
moltissimo con gli albi illustrati,
dei supporti che utilizzo molto spesso e nei quali mi sto specializzando e, dato che mi piace raccontare storie ai bambini, è
un esercizio che propongo sempre. Se la lettura dell’albo è stata piacevole o
entusiasmante, provo a calzare degli esercizi prettamente neurocognitivi (sfrutto
la percezione e l’attenzione sul corpo) e parto da lì.
Gabriele
e io stiamo insieme una volta la settimana per circa tre o quattro mesi, un
periodo relativamente breve dal nostro punto di vista.
La
mamma, oggi, a distanza di un anno, mi ha mandato un video dove lui organizza
teatrini, li costruisce con le proprie mani, racconta storie, è molto
divertito. Ma, soprattutto, la mamma mi ha detto che di me Gabriele ha un bel
ricordo e pensa al mio studio come al posto più bello al mondo dove giocare e
questo, oltre a farmi piacere, mi commuove davvero.
Ne
potrei raccontare tante di storie, ma questo è l’emblema di quello che io
vorrei che i bambini e i genitori percepissero del mio lavoro: poco importa che
oggi un bambino impugni meglio una penna o legga più veloce intonato e bla bla bla, vorrei bambini sereni, felici
di condividere con gli altri le loro emozioni. Solo così si impara davvero
qualcosa.
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