mercoledì 20 marzo 2019

“Mister Rochester” di Sarah Shoemaker



Edward Fairfax Rochester è, ancora oggi, dopo quasi due secoli dalla sua nascita letteraria, uno degli eroi più complessi e affascinanti della letteratura. Enigmatico, burbero e mutevole, ma anche sensibile, romantico e devoto, il Rochester nato dalla penna di Charlotte Brontë e protagonista di “Jane Eyre” rivive oggi nelle pagine del romanzo scritto dall’insegnante e bibliotecaria americana Sarah Shoemaker, intitolato proprio “Mister Rochester” ed edito da SuperBeat, Neri Pozza.


In questa opera prima l’autrice fa parlare in prima persona proprio il signor Rochester, ripercorrendone l’intera esistenza in una sorta di diario che, talvolta, ha l’immediatezza del flusso di coscienza. Dalla nascita, all’infanzia, è raccontato tutto, in particolare il complicato rapporto col padre e col fratello in età adulta, fino agli anni trascorsi in Giamaica, riferendo nel dettaglio il matrimonio con Bertha e la sconcertante scoperta della sua follia. Il carattere del nostro Edward, inizialmente così gioioso, entusiasta e sensibile, alla continua ricerca della ricostruzione del temperamento materno che non ha mai vissuto, si indurisce sempre più, man mano che la vita lo mette di fronte a responsabilità più grandi di lui, che egli non manca di affrontare con coraggio e veemenza. Dalla ritrovata felicità con Céline, la ballerina francese madre di Adéle, la bambina che diventerà la sua pupilla, fino alla nuova delusione che i suoi capricci e i suoi tradimenti gli arrecheranno, Rochester è sempre più cupo, sarcastico e privo di fiducia verso il genere umano, oltre che tormentato dalla figura della moglie, ormai malata e ingestibile, seppure nascosta a tutti.


Per il primo incontro con la giovane istitutrice Jane Eyre bisogna attendere quasi trecento pagine, ma, da lì in poi e fino alla fine del romanzo, gli accadimenti noti a tutti coloro che hanno amato il libro della Brontë si susseguono in un crescendo di emozioni, tutti col filtro di Rochester, lentamente travolto da un amore che non pensava più di poter provare.
È interessante sottolineare come, pur restando fedele a tutto ciò che è scritto e raccontato nel romanzo originale, Sarah Shoemaker ricostruisca con grande cura per i dettagli l’intera esistenza di Mister Rochester, senza bisogno di restare nell’ombra dello stile della Brontë. L’espediente del diario e del resoconto scritto di pugno dallo stesso protagonista, infatti, le permette di scavare a fondo nell’animo di Rochester e ce ne restituisce un’immagine vivida e verosimile, dando voce a tutta la sua fragilità e sofferenza, oltre agli sbalzi d’umore e al misterioso cipiglio che lo hanno reso irresistibile per milioni di lettrici e lettori in tutto il mondo, per generazioni.


La prima parte della vita di Rochester, quando Jane era ancora molto lontana nel tempo e nello spazio, non stanca affatto il lettore, ma lo spinge a procedere con curiosità verso la parte più nota della storia e tutta la descrizione del corteggiamento alla giovane istitutrice, incredula e turbata, è raccontata in modo avvincente e, nello stesso tempo, delicato e coinvolgente, rendendo la lettura un piacevole completamento di quanto già fatto per chi ha letto (e riletto) il capolavoro di Charlotte Brontë. Rispetto ad altre autrici che hanno dato voce a eroi romantici come il burbero Mr. Darcy di Jane Austen o l’affascinante Rhett di Margaret Mitchell, la Shoemaker entra in simbiosi con la caratterizzazione della Brontë, ma costruisce un romanzo dallo stile molto personale, facendo suoi aspetti che la fantasia dei lettori hanno solo ricostruito per secoli e che ora sono scritti nero su bianco a coronamento di una lettura imperdibile per ogni appassionato di quelle atmosfere indimenticabili.


mercoledì 6 marzo 2019

Marvin Menini: la nuova avventura di Matteo De Foresta



Chissà se, quando ha scelto il nome del protagonista delle sue storie, lo scrittore Marvin Menini intendeva già tracciarne l’indole assegnandogli un cognome allegorico, in un certo senso, metaforico. Il giornalista Matteo De Foresta, infatti, ha una personalità complessa come un fitto bosco in cui sentieri disordinati si intersecano in continui crocicchi ai quali è difficile scegliere quale via percorrere e il sole fende rami e foglie solo in alcuni punti, entrando di traverso in un buio a suo modo rassicurante.
In “I morti non parlano”, Fratelli Frilli Editori, Marvin Menini, medico di professione, scrittore per passione, riprende le fila dell’indagine precedente, già conclusa da Matteo De Foresta, ma che, come un Pollicino dalle mani insanguinate, aveva già lasciato le prime briciole da seguire per addentrarsi in un’avventura ancor più pericolosa. La particolarità dello stile dell’autore, infatti, sempre scorrevole e diretto, caratterizzato da fitti dialoghi e un tempo verbale coniugato al presente, che rende ancora più viva la narrazione, è il filo conduttore che lega tutte le indagini del protagonista. Sebbene ciascun libro sia autoconclusivo, si percepisce, più che in altre serie, l’evoluzione del personaggio principale, non solo come investigatore e, in questo caso, giornalista, ma anche come uomo, tanto lucido da prendere istantaneamente le decisioni più giuste nel proprio lavoro, quanto confuso e apparentemente immobile nella sua vita privata, in balia delle scelte altrui.
Infatti, se, da un lato, De Foresta è chiuso in una morsa che, in quest’avventura, lo vede braccato sia dalla Polizia, sia dalla Mafia, nel disperato tentativo di scagionare l’amico vicequestore Guido Rocchetti, latitante accusato di essere colluso, dall’altro, ha un cuore diviso a metà, tra la compagna Barbara e il desiderio di essere un padre migliore per sua figlia, e l’amante Clara e il brivido che porta la sua conquista. A ciò si affianca un lavoro che Matteo ama profondamente e che poco ha a che vedere con la scrittura seduto dietro una scrivania di redazione, visto che lo vede sempre in viaggio, tra Genova, la sua città, e chissà quale altra parte del mondo.
Tra indizi imperscrutabili, tradimenti inaspettati e un finale alla polvere da sparo che mette tutto tranne la parola ‘fine’, non ci resta che attendere la prossima avventura di De Foresta per capire meglio quale sarà il destino del nostro giornalista, perché questa storia si legge troppo in fretta e ha tutta l’aria di essere solo l’inizio di qualcosa di ancor più spettacolare.


C’è un nuovo mistero da risolvere per il giornalista Matteo De Foresta: un’indagine al cardiopalma, tra Polizia e Mafia, nel tentativo di salvare un amico in pericolo e, forse, di non pensare alla confusione del suo cuore diviso a metà. Raccontaci la genesi di questa quarta avventura del tuo protagonista così amato dal pubblico, “I morti non parlano”, Fratelli Frilli Editori: cosa ti ha ispirato durante la stesura?

Ciao Alessandra, grazie per questa intervista che mi fa molto piacere.
Quando scrivo, in realtà, parto da un'immagine, una scena, a volte una canzone, oppure una parola. Ecco, in questo caso è stata proprio una parola a far nascere la nuova avventura di Matteo. Stavo terminando il romanzo precedente, “I Delitti dei Caruggi”. Uno dei protagonisti di quel romanzo, Bob, muore dicendo a Matteo una parola: Wehrmacht.
Devo farti una premessa: non sono quel tipo di scrittore che pianifica prima la trama, di solito scopro se l'assassino è il maggiordomo a metà della prima stesura. Spesso i protagonisti delle mie storie si muovono in autonomia e a volte sorprendono anche me con ciò che fanno o dicono. È stato proprio il caso di Bob: quando ha detto “Wehrmacht” mi sono domandato per quindici giorni buoni che cosa volesse dire. E quando l'ho scoperto mi sono reso conto che c'era tutto un romanzo da scrivere proprio su quella parola.

Che scrittore sei? Quando e da dove nasce la tua esigenza di scrivere e come la concili con la tua professione di medico? Segui l’ispirazione o hai un metodo ben preciso al quale non sai rinunciare?

Ho sempre scritto, fin da bambino. Quando, a undici anni, ho letto “Il signore degli anelli” per la prima volta ho cominciato a riempire i miei diari scolastici di racconti brevi ispirati al mondo fantasy. Poi, da lì, ho proseguito con vari racconti che ho pubblicato in blog o siti di scrittura. Poi, nel 2012, mi sono detto: ma perché non provare a scrivere un romanzo? Così è nato Matteo De Foresta è la sua prima avventura, “Nel cuore del centro storico”. All'epoca non avevo ancora un editore e mi sono dato al self publishing. Ho impiegato quasi tre anni a terminarlo: passare dalla dimensione del racconto a quella del romanzo è impegnativo, la prima volta è davvero dura. Ma poi nel 2015 è uscito il romanzo ed è stato un successo. Ho venduto più di cinquemila copie in digitale e da lì è decollato il matrimonio tra Matteo e la Fratelli Frilli Editori. La mia esigenza di scrittura è quasi catartica: mi aiuta a scaricare la testa, a non pensare al lavoro ed ai pazienti. Mi serve anche per essere un po' cattivo, cosa che nella vita io non sono mai, e tirare fuori il mio lato oscuro. Ciascuno di noi ne ha uno, spesso non comunichiamo con lui e addirittura lo ignoriamo accumulando tensione e ansia. La scrittura è la mia valvola di sfogo: scrivendo noir e gialli in qualche modo mi “libero”, mi purifico. In realtà non ho un metodo: come ti ho già accennato, scrivo di getto e rubo le parole a un grande scrittore come Joe Lansdale. Lui stesso ha affermato che se sapesse già come finiscono le storie che scrive non si divertirebbe nel farlo. Io la penso allo stesso modo. La storia nasce dai personaggi: meglio sono definiti, più sono autonomi e in grado di “vivere”, scegliere, pensare e agire. Io racconto solo la cronaca delle loro azioni. Per quanto riguarda la trama delle storie, parto spesso da un'immagine e un'idea. A volte può anche essere una canzone: ad esempio, la quinta avventura di Matteo, che sto scrivendo, è partita da “Sirens” dei Pearl Jam. Spesso poi ragiono sul finale, su come si potrebbe chiudere la storia. Ma scrivendo molte volte mi allontano da quanto avevo pensato. Siamo sempre lì: i miei personaggi mi sorprendono con le loro azioni e fanno quello che vogliono!

Matteo De Foresta è un personaggio autentico: tanto determinato nel suo mestiere, quanto indeciso per quel che riguarda le questioni di cuore e forse è proprio per questa imperfetta umanità che i lettori si immedesimano tanto in lui. Come lo definiresti? In generale come delinei i personaggi, sia principali, sia secondari, delle tue storie e le vicende che li coinvolgono?

Matteo è un uomo vero, un ragazzo non cresciuto del tutto che si sforza di farlo. Pensando a lui ho cercato di ispirarmi alla mia generazione e alle nostre fragilità. Noi quarantenni di oggi (anche se io ne ho ormai quasi cinquanta, ahimè) siamo una contraddizione vivente. Professionisti o lavoratori ma ancora con il cuore di ragazzini, che sono cresciuti con Goldrake, Candy Candy o Kenshiro. Siamo ancora la generazione dei fumetti Marvel e non quella dei Manga, ispirati a eterni guasconi irriverenti. Ecco, Matteo nel suo piccolo fa un po' suo il motto di Peter Parker: da grandi poteri nascono grandi responsabilità. Cerca di essere un padre presente, si domanda che cosa sia davvero l'amore, lotta tra il desiderio di avere una famiglia e allo stesso tempo di non rinunciare alla passione e al brivido della conquista. I miei personaggi nascono allo stesso modo: osservo le persone che incontro e che conosco, cerco di creare persone a tutto tondo con pregi, difetti, piccole o grandi manie. La cosa più difficile comunque nella creazione dei personaggi resta sempre “il cattivo”: voglio dire, anche nei malvagi devono esserci umanità e lati chiari. Al giorno d'oggi non si può presentare ai lettori un antieroe da film western, stereotipato e quasi al limite della psicosi per quanto è cattivo. Si devono creare esseri umani, non macchiette. Ecco, questo è il lato più difficile, ma anche più entusiasmante della scrittura. Cercare di riprodurre la vita reale pur mantenendo un pizzico di “irrealtà”. Credo che sia quanto cerca il lettore che si dedica ai gialli.

Dal successo dell’autopubblicazione sul Web, alla collaborazione con un editore d’eccellenza per qualità e impegno, molto rappresentativo del genere, sia nella città di Genova, sia a livello nazionale: facciamo un bilancio del tuo percorso d’autore, tra difficoltà e obiettivi raggiunti. Scrivere è ancora un mestiere a tutti gli effetti?

Quando “Nel cuore del centro storico” raggiunse quel risultato inatteso, contattai il compianto Marco Frilli proponendogli quel romanzo. Lui mi rispose quasi subito nel suo stile senza fronzoli: mi disse che non gli interessava un qualcosa di già pubblicato ma che, se volevo, potevo mandargli un nuovo romanzo. Se gli fosse piaciuto me l'avrebbe pubblicato. Raccolsi la sfida con l'adrenalina a mille e in soli due mesi gli mandai la seconda avventura di Matteo, “Poker con la morte”. Da lì, continuando poi il rapporto con suo figlio Carlo in seguito, ahimè, alla sua malattia, De Foresta ha visto la luce con la loro casa editrice. La Fratelli Frilli è un laboratorio di giovani, idee, novità costanti. Punta sui giovani e sugli esordienti oltre ad avere nella scuderia “mostri sacri” come Maria Masella e altri. I romanzi Frilli sono freschi, avvincenti, creati da autori che spesso fanno tutt'altro nella vita e scrivono per passione. Tu mi domandi se lo scrittore può essere ancora un mestiere. Io credo di sì, ma penso anche che lo sia per pochi. Per potersi mantenere con la sola scrittura bisogna vendere numeri da capogiro. È bene che chi vuole scrivere questo lo sappia: nel novantanove percento dei casi resterà solo una passione, un hobby, e non diventerà mai un lavoro. Ma questo forse è anche il bello della scrittura: per farlo serve passione e non lo si può fare a scopo di lucro. Si scrive sempre per se stessi prima di tutto. Poi, se si piace agli altri, tanto meglio. Ma è secondario. A volte “dover scrivere” può essere un'arma a doppio taglio. Lo racconta molto bene Stephen King in quel grandissimo romanzo che è “Misery”. Un'allegoria del rapporto tra scrittore ed editore. Comunque, sì: può essere ancora un mestiere. Servono talento, occasione giusta, momento giusto e ovviamente il fattore “C”. Le serie televisive, poi, hanno cambiato tutto. Grandissimi scrittori italiani come Camilleri, Manzini, Malvaldi devono il loro immenso successo, oltre alla loro abilità, alla diffusione che i loro personaggi hanno avuto attraverso la TV.
Il bilancio del mio percorso? Per ora non lo faccio. Mi sento all'inizio, ancora un esordiente e soprattutto un dilettante. Per ora tengo la testa bassa e lavoro, anche se mi godo il piccolo successo che sta avendo Matteo De Foresta.

A cosa stai lavorando attualmente? Svelaci quali sono i tuoi progetti per il futuro e quanto dovremo aspettare per la prossima indagine di De Foresta…

Matteo esce in libreria una volta all'anno, di solito nel mese di Febbraio. Spero quindi che nel 2020 possa uscire in quel periodo la nuova avventura di Matteo a cui sto già lavorando. Sarà una storia più noir, con meno implicazioni di “grande respiro” come la mafia e più incentrata su un cattivo comune. Si parlerà, in qualche modo, della storia recente della mia città, Genova, che ha visto nascere tra le prime l'estremismo e le bande armate negli anni Settanta. Si parlerà, ovviamente, di amore non solo per Matteo. Ho poi un accordo di massima con Carlo Frilli per ripubblicare con la sua casa editrice la prima avventura di Matteo. Piace ad entrambi l'idea di completare la “collezione” con tutti i romanzi del De Foresta pubblicati sotto la loro egida. In più, sto lavorando ad un nuovo personaggio, distante anni luce da Matteo. Ma sempre genovese e sempre investigatore. Ho già scritto la sua prima avventura e mi sto mettendo, in contemporanea a Matteo, al lavoro sulla sua seconda.
Grazie ancora per questa piacevole chiacchierata e un saluto a tutti i lettori del tuo Blog!