martedì 29 marzo 2016

Letizia Lopez: il vero “Mostro” è l’indifferenza della Società


Sono trascorsi quasi tre mesi da quando la Procura della Repubblica di Roma ha disposto la riesumazione della salma di Andrea Ghira, sepolto a Melilla, in Spagna, col nome di Massimo Testa De Andres. La richiesta di nuovi esami è stata fatta da Stefano Chiriatti, Avvocato della famiglia Lopez, per sapere se davvero quelle spoglie appartengono all’unico tra gli assassini del Circeo che è sempre riuscito a sfuggire al carcere, vivendo da latitante. I primi esami, che per le autorità spagnole hanno accertato l’identità di Ghira più dieci anni fa, non hanno mai convinto la famiglia Lopez, che ora, con accertamenti scientificamente più avanzati, si augura di avere risposte più certe.  
In attesa che questi risultati aggiungano un nuovo tassello a quello che tutti conosciamo come il “massacro del Circeo”, è difficile tenere i conti in questa storia ingarbugliata. Un giallo che non è un giallo, perché i nomi degli assassini si conoscono sin dal primo istante, ma che, per le vicende giudiziarie che ne sono seguite, è l’emblema di una giustizia beffarda, spesso ben lontana dalla verità.
Sono trascorsi oltre quarant’anni da quel 29 settembre 1975, quando, in una villa a San Felice Circeo, sul litorale laziale, Angelo Izzo, Gianni Guido e Andrea Ghira, tre giovani della cosiddetta Roma bene, seviziano per oltre un giorno due ragazze di diciannove e diciassette anni, Rosaria Lopez e Donatella Colasanti. Quando Donatella viene nascosta nel bagaglio della Fiat 127, intestata al padre di Gianni Guido, è ancora viva. Si è finta morta per evitare il colpo di grazia e questa piccola astuzia, figlia della paura e della necessità, le salva la vita, finché le sue grida vengono sentite da alcuni passanti che la tirano fuori da quell’auto, ferita e ricoperta di sangue. Per Rosaria, invece, non c’è più nulla da fare. Sua sorella, Letizia Lopez, ricorda come, solo poche settimane prima, ha letto sui giornali la vicenda di Milena Sutter, la tredicenne, figlia dell’industriale, rapita e uccisa a Genova, e ha pensato che certe cose accadano solo ai ricchi. Non può credere alle sue orecchie, quando le raccontano in che tranello è caduta Rosaria, una ragazza come tante, con una vita davanti.
Sono poco più di venti gli anni che Gianni Guido trascorre in carcere, a fronte di una condanna a trent’anni, molti dei quali passati da latitante in Sud America. Dopo essere stato estradato in Italia a metà degli anni Novanta, Guido ha concluso la sua pena nel 2009 e ora è libero.
Sono quattordici gli anni che aveva Valentina Maiorano, trucidata nel 2005, assieme alla madre, Maria Carmela Linciano, da Angelo Izzo, quando gli viene concessa la semilibertà. Ora Izzo sta scontando l’ergastolo, ma la sua personalità istrionica e disturbata continua a metterlo al centro delle cronache, suscitando molte polemiche.
Numeri su numeri, anni su anni rubati alla vita di una giovane, Rosaria Lopez, che non ha potuto esaudire nessuno dei suoi sogni e che, a causa delle maglie troppo larghe della nostra giustizia, ancor oggi aspetta una nuova verità, continuando a vivere nel ricordo della sorella, Letizia Lopez.


Chi era Rosaria e quanto spesso pensi a lei?

Rosaria era una ragazza semplice, molto dolce e premurosa. È cresciuta in collegio e aveva tanti sogni nel cassetto che, purtroppo, non si sono realizzati. La penso sempre, in ogni momento della giornata. In particolare, quando mi capita di leggere sui giornali che una giovane donna ha subito violenza o è stata uccisa per mano di un uomo, il mio pensiero corre a mia sorella e il dolore per la sua perdita si rinnova.


In questi anni qual è stato il momento più difficile, la situazione più assurda in cui vi siete trovati?

La circostanza più dolorosa e assurda in cui ci siamo trovati è stato l’isolamento cui ci ha condannati questa tragedia. Ci sono ancora tanta falsità e ipocrisia nella nostra società. I tempi per elaborare un lutto del genere sono lunghissimi per una famiglia e quasi mai vengono rispettati a causa dell’indifferenza che ci circonda. Sono poche le persone che ci sono state realmente accanto in questi anni. La maggior parte della gente pensa che determinate realtà non la riguardino e, semplicemente, si volta dall’altra parte, non provando neppure a calarsi nei panni di chi soffre. Altri, invece, si approfittano del dolore, a volte ci speculano addirittura, l’ho constatato a mie spese. E penso spesso anche a Donatella Colasanti, stroncata da un tumore a meno di cinquant’anni, che, al contrario di Rosaria, riuscì a salvarsi quella notte al Circeo, ma che poi, di fatto, è stata uccisa dall’indifferenza delle Istituzioni. Ricordo quante volte Donatella gridò il suo sdegno e la sua preoccupazione di fronte alla decisione di rimettere in libertà Angelo Izzo che, come sappiamo tutti, è tornato a uccidere. Donatella, a modo suo, aveva ammonito l’opinione pubblica, ma non è servito a nulla. La violenza, prima di esplodere, dà sempre dei segnali che vanno capiti e ascoltati, perché ciò che conta davvero è solo la prevenzione di queste tragedie. I ragazzi violenti sono il frutto della nostra mala società, ecco perché il mio appello va soprattutto alle Istituzioni, affinché prestino più attenzione.   


Conosciamo tutte le vicende, giudiziarie e non solo, che, in questi anni, hanno coinvolto Angelo Izzo e Gianni Guido. Nelle ultime settimane l’attenzione si è concentrata di nuovo su Andrea Ghira: quali novità vi hanno portato a contestare l’esame del DNA fatto sulla salma riesumata nel 2005 in un cimitero spagnolo e che gli inquirenti hanno identificato in Andrea Ghira? Potrebbe essere, invece, ancora vivo e tuttora realmente latitante?

La nostra opposizione risale già al 2005 col ricorso alla Corte Europea, che ha portato ad alcuni risultati in passato. Ci è sembrata assurda, sin da subito, l’approssimazione dei risultati del DNA fatti allora e la facilità con cui sono stati accettati dagli inquirenti e dalle autorità spagnole. Abbiamo bisogno di maggior certezza, è necessario essere sicuri che la salma sepolta in Spagna sia davvero di Andrea Ghira e finché qualcuno non mi darà questa sicurezza, non ci crederò.
Dopo tanti anni, non ci aspettavamo più che qualcuno ci desse retta. Se oggi la Procura ci ha ascoltati e ha deciso di riaprire il caso è, senza dubbio, grazie alla perseveranza del nostro Avvocato, Stefano Chiriatti. Abbiamo fiducia nella nostra consulente, la genetista Marina Baldi, e confidiamo che, finalmente, questa volta si accerti a chi appartengano i resti riesumati a Melilla. Ci hanno spiegato che le procedure per estrarre il DNA da uno scheletro sono lunghe e nient’affatto semplici, ma siamo in attesa dei risultati a giorni.


Come si fa a non essere solo arrabbiati per l’incertezza della giustizia e a continuare a cercare la verità, dopo tanti anni?

La mia rabbia è una spinta ad andare avanti. È una rabbia verso le Istituzioni, soprattutto, che vorrei fossero più attente e più lungimiranti. Non è solo il destino che ha subito mia sorella a farmi sentire così, ma tutta la violenza che ci circonda e che deve essere fermata. Nessuno ci protegge, siamo lasciati soli e questo è assurdo
In queste settimane, ad esempio, mi ha colpito molto il caso di Luca Varani, il povero giovane torturato e ucciso a Roma. Anche qui le persone coinvolte sono giovani, ma comunque senza scrupoli e spesso si nascondono dietro all’uso di stupefacenti.
Possibile che le Istituzioni non possano far nulla per prevenire queste tragedie, molto spesso annunciate? I veri mostri sono l’indifferenza e il disinteresse della nostra società e delle nostre Istituzioni.



Che ruolo svolgono o potrebbe svolgere l’opinione pubblica e tutti i mezzi di informazione in questi casi così drammatici?

L’opinione pubblica dovrebbe essere più coerente e più coesa. L’opinione pubblica, oggi, sembra aver perso la propria identità. Si cela dietro ai luoghi comuni, che vanno dal vittimismo alla cattiveria, senza mai esporsi concretamente e subendo tutto. Quest’indifferenza ci logora profondamente, ma io continuerò a battermi, senza sosta, a sostegno della verità, della giustizia e della trasparenza, perché le vittime sono sempre i più deboli, come mia sorella, e vanno protetti.
I primi a contribuire per migliorare la nostra società potrebbero essere i genitori, che dovrebbero osservare i propri figli con occhio critico, per cercare di capire i segnali che mandano, senza essere ciechi per paura. Comprendo la tentazione di abbandonarsi al rifiuto delle debolezze dei propri figli, ma cercare di reagire sarebbe il modo migliore per aiutare le Istituzioni e la società intera, senza nascondersi.



Chi sarebbe oggi Rosaria? Qual è il tuo ricordo più vivo di lei?


È difficile dire chi sarebbe potuta diventare mia sorella, perché la vita è imprevedibile e ci mette di fronte a tante scelte. A volte i nostri sogni non si realizzano, ma comunque il destino ci sorprende. Ho così tanti ricordi di lei, ancora scolpiti nella mia memoria! Rosaria amava recitare e, di sicuro, vederla recitare mi avrebbe reso felice.

sabato 26 marzo 2016

Lorena Bianchi: quando l’amore è più prezioso dell’oro


Esiste qualcosa di più prezioso dell’oro? Fiamma è convinta dell’eternità dell’oro, tanto quanto dell’immortalità dei sentimenti. È una fanciulla giovane, coraggiosa e piena di talento. Fiamma è cresciuta in fretta imparando con curiosità, insieme all’apprendista Menico, il mestiere del padre, Messer Vincenzo Giraldini, uno degli orafi più ricercati della Capitale. Ma, come tutte le donne di Bottega, il suo percorso è più tortuoso di quello degli uomini che la circondano, nonostante la sua abilità. Quando i committenti iniziano a prediligere i gioielli raffinati ed eleganti di Benvenuto Cellini, Fiamma decide di recarsi proprio nella sua Bottega, per apprendere tutti i suoi segreti, ma non immagina che ad attenderla ci sia proprio il destino. È negli occhi verdi di Lorenzo de Luna, giovane orafo prediletto da Cellini, che Fiamma trova il gioiello più prezioso, vedendo sbocciare la propria femminilità, senza inibizioni. La passione che li unisce è travolgente, ma si interrompe bruscamente. Così Fiamma si ritrova sola, ancora una volta costretta a reinventarsi nel ricordo del suo grande amore e accanto al compagno più fedele che abbia mai avuto: l’oro che continua a forgiare con perizia e entusiasmo, giorno dopo giorno.
“Il Profumo dell’Oro”, di Lorena Bianchi, edito da Rizzoli, è molto più di una emozionante storia d’amore tra due anime inquiete, come quelle di Fiamma e Lorenzo. Si tratta infatti di un romanzo storico che ricostruisce in modo meticoloso la fastosa Roma della metà del Cinquecento, divisa tra i capricci del Papato e la severità dell’Impero. La capacità con cui Lorena Bianchi ci restituisce l’atmosfera vibrante e competitiva delle botteghe orafe del tempo, un mestiere che è una vera e propria arte anche oggi, fatta di estro e sensibilità verso il materiale forgiato, è sorprendente tanto quanto la credibilità dei personaggi, sia storici, sia di fantasia. I dialoghi sono impreziositi da un linguaggio che sembra portarci davvero indietro nel tempo, così come le descrizioni, puntuali, ma mai artefatte e arricchite da suggestioni che rendono la lettura una vera e propria esperienza sensoriale. Un romanzo delicato e coinvolgente, per chi desidera lasciarsi travolgere dalla forza dei veri sentimenti, più preziosi di qualsiasi gioiello.


L’oro è eterno, proprio come l’amore: questa è la principale convinzione di Fiamma, la giovane orafa protagonista di “Il Profumo dell’Oro”, Rizzoli. Raccontaci la genesi di questo romanzo: cosa ti ha ispirato durante la stesura? Cosa vuoi comunicare?

Amo molto l’arte e la storia, e l’oro è il metallo che accompagna l’uomo fin dai tempi più antichi. L’arte orafa è sempre presente anche nella nostra vita: si pensi al dono per celebrare la nascita di un bambino o agli anniversari, ai regali tra innamorati e agli anelli di fidanzamento. I gioielli non sono solo ornamenti, ma esprimono la personalità di chi li indossa e i sentimenti di chi ha voluto farne un dono. L’oro è dolce, malleabile e duttile, ma anche inalterabile e indistruttibile: profondamente femminile, con la sua bellezza, la sua forza e la sua capacità di trasformarsi. È nata così l’idea dell’oro e di una giovane donna, capace di svelare i suoi segreti, di fondere nel metallo prezioso ricordi e sentimenti.

Non solo una travolgente storia d’amore, ma anche un emozionante romanzo storico dalla ricostruzione precisa e accurata. Quanto tempo hai dedicato alla ricerca e qual è stato il tuo primo approccio al mondo dell’oreficeria e delle pietre preziose della Roma di Benvenuto Cellini?

La ricerca storica è una fase fondamentale del lavoro, per me tra le più divertenti: inizia molto prima che abbia anche solo un’idea della trama e non termina mai. Benvenuto Cellini ci ha lasciato un’autobiografia che si legge come un romanzo: era un artista geniale e un mascalzone incorreggibile e nelle sue pagine si assapora quella Roma da Dolce Vita ferocemente distrutta dal Sacco del 1527.

Chi è Fiamma, la protagonista del tuo libro e quanto c’è di vero nelle vicende che la coinvolgono? Come la definiresti e, in generale, come delinei i personaggi dei tuoi romanzi, tra storia e fantasia?

Fiamma è vicinissima a noi donne di oggi nel suo desiderio di affermarsi nel mondo, nell’amore che prova per gli uomini della sua vita, nel modo in cui affronta le avversità senza arrendersi mai. È appassionata, intelligente e coraggiosa. Non accetta schemi prestabiliti da altri e sa che dovrà sempre dimostrarsi più scaltra e abile di qualunque uomo. I miei personaggi sono figli dell’epoca in cui vivono, ma sono convinta che le emozioni e i sentimenti siano immutabili e universali, indipendentemente dal tempo e dallo spazio.

Da dove nasce la tua esigenza di scrivere? Che autrice sei e quando ti sei resa conto che questa grande passione sarebbe potuta diventare un mestiere?

Per me scrivere è come innamorarsi. Provo l’emozione di incontrare i personaggi per la prima volta e voglio sapere tutto di loro. A volte è un colpo di fulmine, altre volte è una storia che mi cresce accanto, si allontana e poi ritorna e non posso più lasciarla andare. Sento la mancanza dei personaggi quando sono lontano dal manoscritto e sono molto gelosa del tempo che dedico alla stesura di un romanzo. È un amore passionale, che non considero affatto un mestiere: è qualcosa che sento e che sono.

A cosa stai lavorando attualmente? Svelaci quali sono i tuoi progetti per il futuro.


Ho in mente tantissime trame! Ma non posso svelarvi nulla di nuovo, per il momento. Spero di cuore di avere sempre la fortuna di poterle condividere con i miei meravigliosi lettori.


giovedì 24 marzo 2016

Stefano Giovinazzo e Edizioni della Sera: la mia avventura da ‘Editore Puro’


Che il settore dell’Editoria sia stato uno dei più colpiti dalla paralizzante crisi economica degli ultimi anni è, ormai, un fatto risaputo. Di sicuro ci vorrà ancora molto tempo prima che la situazione si assesti definitivamente, raggiungendo anche un nuovo equilibrio col crescente mercato del digitale, ma una cosa è certa: solo chi saprà perseguire e valorizzare la qualità sarà nuovamente premiato dal successo. Proprio ciò che sta accadendo a Stefano Giovinazzo, fondatore e Direttore Editoriale della Casa Editrice “Edizioni della Sera”. Dopo una breve parentesi come giornalista e scrittore, Stefano Giovinazzo ha capito immediatamente che il percorso che voleva intraprendere nel mondo dell’Editoria riguardava la creazione di un progetto editoriale nuovo e originale, ritagliato a misura di un pubblico di lettori in cerca di talento, competenza, entusiasmo e, naturalmente, di buone letture.
Il catalogo delle “Edizioni della Sera” è vario e trasversale, passando dalla narrativa, alla saggistica, fino alla poesia e ai classici, con particolare attenzione verso la letteratura per ragazzi, alla quale sono dedicate diverse collane, e verso le storie di sport e di sportivi, temi interessanti e innovativi per un cosiddetto editore indipendente.
In seno alla Casa Editrice è nata anche l’Agenzia Letteraria “Studio Garamond” che, tra i tanti servizi offerti, si occupa principalmente di scovare i nuovi talenti, valutandone le opere, e di aiutare gli autori a proporre i propri manoscritti agli Editori nel modo più efficace possibile.
Ma cosa significa, al giorno d’oggi, sostenere e valorizzare un progetto editoriale così ambizioso e coraggioso, in un Paese dove i lettori sono in costante diminuzione? Ce lo spiega direttamente Stefano Giovinazzo, raccontandoci il suo percorso da Editore Puro e la genesi delle “Edizioni della Sera”.  

Cosa significa essere un Editore indipendente in un Paese nel quale si legge sempre meno? Quando e come hai deciso di intraprendere questo percorso e quali ostacoli hai incontrato e incontri ancora oggi sul tuo cammino?

Essere un Editore indipendente in un Paese come il nostro significa portare avanti un'idea senza alcun condizionamento. A dire la verità anche il termine “indipendente” riferito all'editore e al libraio, in questi anni è stato abusato. Io mi definisco un Editore, sarà il tempo a dirmi come ho svolto il mio lavoro. Ci terrei piuttosto a valorizzare il termine “editore puro”, colui che vive soltanto della sua professione che, nel nostro caso, dovrebbe riferirsi soltanto alla vendita del proprio catalogo di libri.
Dopo il periodo universitario, girando tra uno stage e l'altro, tra una redazione e l'altra, ho acquisito sia competenze che consapevolezze. Le ultime mi hanno fornito quel pizzico di euforia e incoscienza, per pensare di creare dal nulla un progetto editoriale che potesse ritagliarsi uno spazio nell'editoria italiana odierna. Gli ostacoli sono quotidiani, li ho messi in conto e non ne faccio più motivo di lamento, ma di forza: l'editoria è una corsa a ostacoli, dall'idea del libro fino al macero, la bravura è mantenersi costanti nella corsa e arrivare al traguardo con un ottimo tempo.



Tra l’avvento dell’ebook e la costante diminuzione della qualità dei prodotti che approdano alla grande distribuzione, come riesce a barcamenarsi un Editore che vuole premiare il talento? Cosa sta accadendo all’editoria italiana?

Premiare il talento mi sembra la chiave giusta. Questo talento, diventato testo e messo in commercio, va poi apprezzato e valorizzato e spesso qui finisce il nostro lavoro o almeno ha un grosso limite: la distribuzione su ampia scala. L'editoria italiana sta vivendo una trasformazione: dalla crisi del 2008 si sta passando a un'editoria più consapevole: editori e librai che dialogano meglio e in modo diretto, editori e distributori che si guardano in faccia invece che di spalle, autori ed editori che fanno fronte comune, autori e librerie che si incontrano. Tirature più basse, costi più contenuti e grande consapevolezza dei numeri.

Prima di approdare all’editoria ti sei dedicato in prima persona e con grande passione alla scrittura. Oggi ti senti più scrittore o Editore? E perché?

No, per carità, solo Editore. Ho scritto qualche cosa di narrativa, rigorosamente rimasta nel cassetto. Di poesia, qualche volume, un premio e tanti apprezzamenti. Gli scrittori sono pochi, restano in eterno.



Nella tua carriera di giornalista hai collaborato con numerose testate e ne hai fondate a tua volta: cosa significa essere giornalisti al giorno d’oggi? Che ruolo svolge un buon giornale nei confronti dell’opinione pubblica?

Il giornalismo è cambiato profondamente negli ultimi venti anni. Si è frantumato. Il giornalista ha dovuto invertire la rotta e adeguarsi a un mestiere diverso che rischia, e spesso si avvicina al confine, di risultare inutile. Un'utilità invece c'è: garantire la qualità delle notizie, raccontare “bene” la realtà, scavare, in un mondo sempre più bombardato di tante informazioni di superficie.

A cosa stai lavorando attualmente? Raccontaci quali sono i tuoi progetti per il futuro.


Sto portando avanti il progetto editoriale di “Edizioni della Sera” con cui stiamo sviluppando sia le collane di narrativa, sia quelle di saggistica letteraria. Con l'agenzia letteraria “Studio Garamond”, invece, stiamo curando la comunicazione per alcuni clienti del settore dell’editoria e portando avanti la collana 'Supernova' che ci sta regalando soprese e apprezzamenti. Infine, il neonato marchio “Roma per sempre” ci sta facendo riflettere sull'editoria romana dopo la pubblicazione della prima antologia “Romani per sempre”.

www.edizionidellasera.com



domenica 20 marzo 2016

Alessandro Bastasi: il lato oscuro della Milano da Bere


Massimo Gerosa è un uomo come tanti. Ha una bella moglie, una figlia appena maggiorenne e un lavoro prestigioso che gli garantisce un tenore di vita elevato e soddisfacente. Almeno finché la Comor, la multinazionale informatica per cui lavora, lo licenzia da un giorno all’altro, senza una motivazione specifica. La crisi economica strozza il Paese e le aziende si stanno attrezzando eliminando ciò di cui credono di poter fare a meno: il personale dirigenziale più qualificato. Da quel momento la vita di Massimo Gerosa cambia radicalmente e ogni prospettiva si capovolge, aprendo scenari drammatici. Il matrimonio naufraga in modo irreparabile, tanto che la moglie lo caccia di casa e perfino la figlia, Cristina, che inizialmente tenta di stare accanto al padre, lo abbandona, non sentendosi compresa da un uomo ormai troppo distante da chiunque. Dopo mesi vissuti passando nottate in bianco tra alberghi di quart’ordine e la sua auto, Massimo diventa il guardiano notturno della sede di un movimento politico di estrema destra, del quale, col tempo, sposa l’ideologia nazionalista e estremamente razzista. Nella sua profonda solitudine, Massimo arriva perfino a progettare un delirante attentato contro Roberto Modigliano, prossimo Ministro dell’Economia e esponente di una ricca famiglia ebrea del milanese, che egli considera la causa principale della sua rovina. Ma nella Milano da bere nulla è come sembra e anche Modigliano nasconde un terribile segreto che Massimo porterà inaspettatamente alla luce.
“Era la Milano da bere”, Fratelli Frilli Editori, di Alessandro Bastasi, è un romanzo crudo e diretto, dallo stile tagliente e asciutto, che racconta la vera e propria ‘morte civile’ di un uomo che, perdendo il proprio lavoro a causa della crisi economica che attanaglia l’Italia, vede svanire tutto quello che ha costruito. Ciò che colpisce, oltre all’attualità della storia magistralmente raccontata dall’autore, è il profondo senso di solitudine che circonda tutti i personaggi del romanzo, in particolar modo il protagonista, proprio come la fitta nebbia che ricopre perfino il lusso della cosiddetta Milano da bere. Anche il rapporto tra Massimo e Cristina, padre e figlia, è logorato dalla mancanza di attenzione e di conoscenza reciproca, come se entrambi si trovassero su una giostra impazzita, dalla quale non possono più scendere. Un noir che, alle tinte del thriller metropolitano, unisce l’introspezione del giallo psicologico, fino a un epilogo amaro e sorprendente.


“Era la Milano da bere”, Fratelli Frilli Editori, è uno spaccato duro e coraggioso della nostra società, che racconta l’annientamento di un uomo come tanti a causa della crisi, non solo economica, che ci attanaglia. Raccontaci la genesi di questo romanzo: cosa ti ha ispirato durante la stesura?

Ho concepito il romanzo nel pieno della crisi iniziata nel 2008, quando le cronache raccontavano di lavoratori sopra i tetti, cassa integrazione e licenziamenti a più non posso, manager finiti a dimorare in macchina e in coda alle mense di carità per un piatto di minestra. Poi, agli inizi del 2013, leggo di intercettazioni nei confronti di esponenti di Casa Pound a Napoli, della violenza e dell’antisemitismo che li caratterizzano e ho messo insieme le due cose: certi effetti apparentemente inconcepibili, quali l'adesione acritica a un movimento di estrema destra, trovano una genesi ben comprensibile e prevedibile nella crisi economica, morale, sociale e culturale del Paese.

Da dove nasce il tuo bisogno di scrivere? Che autore sei: segui l’ispirazione in ogni momento della giornata o hai un metodo collaudato al quale non sai rinunciare?

Sul bisogno di scrivere cito una frase di Emil Cioran che mi ha sempre colpito e che sento profondamente mia: "Il mio intento, quando scrivo un libro, è di svegliare qualcuno, di fustigarlo. Poiché i libri che ho scritto sono nati dai miei malesseri, per non dire dalle mie sofferenze, è proprio questo che devono trasmettere in qualche maniera al lettore. No, non mi piacciono i libri che si leggono come si legge un giornale: un libro deve sconvolgere tutto, rimettere tutto in discussione." Non ho un vero e proprio metodo collaudato. Lo spunto per un romanzo mi può nascere in qualsiasi momento, da un articolo di giornale, da una chiacchierata con un amico, dall’immagine di un viso triste di un uomo o di una donna incrociati per strada. Da quel momento qualcosa mi ronza in testa e comincio ad abbozzare una storia, a costruire dei personaggi, a buttar giù una traccia. Poi comincio e, procedendo con la scrittura, i personaggi acquistano corpo, prendono le loro strade, tanto che spesso devo tornare indietro e riscrivere interi pezzi coerenti con nuove caratteristiche e nuove vicende, in un procedimento che a volte è semplice, altre volte lungo e complesso. Soprattutto quando personaggi che non avevo previsto si intrufolano nella storia.

Chi è Massimo Gerosa, il protagonista del tuo romanzo? Come lo definiresti e che rapporti ha con le persone che lo circondano, in particolare con la figlia, Cristina? Come delinei, in generale, i personaggi delle tue storie?

Chi è Massimo Gerosa? È il frutto degli anni Ottanta, per cominciare, gli anni nei quali si è imposta l’egemonia dell’ideologia individualista, contrapposta a quella collettivista del decennio precedente. Gli anni nei quali l’obiettivo di una vita era diventato vincere, raggiungere il successo a qualunque costo, anni nei quali sempre di più l’idolo da venerare diventava il denaro, a scapito della cultura, della solidarietà, dell’etica civile. Era la Milano da bere, appunto. Massimo Gerosa, di umile origine, ha sposato in pieno il mito arrivista del neoliberismo ed è questo che cerca di inculcare nella mente della figlia Cristina. La quale di fronte ai “valori” della sua famiglia ha un atteggiamento comprensibilmente ondivago, in certi momenti ne è attratta, in altri le procurano un forte disagio, che né il padre né la madre riescono a comprendere. Non c’è dialogo, tra di loro. Nemmeno dopo che il padre è stato licenziato e cacciato di casa dalla moglie.  “Perché non è mai venuto a parlarmi?”, dice Cristina a un certo punto del romanzo, “A raccontarmi quello che era successo, quello che pensava? Darmi calore, vicinanza, fiducia. Nulla, no, non esistevo proprio”. E poi: “Soltanto dopo, dopo che se n’è andato, quando si sentiva triste e solo nell’albergo da quattro soldi dov’era finito, qualche volta mi chiamava al telefono e mi invitava a cena, e io accettavo, perché speravo che finalmente mi avrebbe aperto il cuore, e invece niente, anche allora soltanto un ‘come stai’, ‘che gente frequenti’ e ‘cosa pensi di fare da grande’, come se fossi ancora una bambina”. Cristina è la “bambina” che lui avrebbe voluto plasmare a sua immagine e somiglianza, e per questo non badava a spese, la migliore scuola, gli ambienti più esclusivi, la prospettiva di una laurea alla Bocconi. Fino alla caduta e alla discesa all’inferno, dal quale crede di risalire aderendo acriticamente a un gruppo di destra eversiva.
Per quanto riguarda i rapporti di Massimo con gli altri personaggi quello che nel romanzo ho cercato di far emergere è soprattutto la solitudine nella quale vivono i protagonisti. Che ho voluto inserire nella struttura stessa del romanzo, dove le vicende dei personaggi sono percorsi narrativi per lo più paralleli, che qualche volta si incrociano, sì, ma solo apparentemente, solo per sfiorarsi, senza entrare mai in un rapporto profondo, esistenziale. Ognuno per sé, in una lotta di tutti contro tutti.
Circa il mio modo di delineare i personaggi, prima di tutto li abbozzo, poi loro prendono forma, consistenza, carattere durante la stesura, quasi autonomamente. Non riesco a farmi una tabellina in cui incasellare fin dall’inizio le loro caratteristiche. Sono loro stessi che spesso mi fanno capire chi sono veramente, ad esempio quando mi trovo di fronte a uno snodo e devo decidere quale strada prendere.

I tuoi libri sono impregnati di attualità, pur conservando una struttura simile a una pièce teatrale che li rende originali, nel loro stile diretto e scorrevole. Cosa vuoi comunicare ai tuoi lettori? Il tuo passato di attore teatrale ha influenzato il tuo percorso di scrittore?

Ai miei lettori vorrei raccontare l’attualità mostrando il lato oscuro della società in cui sono immersi, dar loro un punto di vista diverso. Senza però voler consegnare delle soluzioni, non è compito mio in quanto autore. Sotto questo aspetto, credo che ci sia stata un’evoluzione importante dai miei primi romanzi. Cerco sempre di più di limitarmi a raccontare delle storie, in modo il più possibile asciutto e secco, senza fronzoli, senza compiacimenti letterari. Il “messaggio” deve emergere dalla scrittura, da come racconto la storia, dalle azioni dei personaggi, dai dialoghi, senza imposizioni personali del narratore. Ecco, in questo approccio forse conta il mio passato di attore, perché ogni volta cerco di raffigurarmi i personaggi sulla scena, cerco di catturare i loro tic, le loro movenze, il loro modo di parlare, tanto che spesso leggo a voce alta un pezzo per vedere l’effetto che fa.  E l’effetto che farebbe in scena.

A cosa stai lavorando attualmente? Raccontaci quali sono i tuoi programmi per il futuro.

Ho terminato in prima stesura un nuovo romanzo, che ha solo bisogno dell’approvazione dell’editore per tornare a lavorarci sopra, in un confronto sia con l’editore sia con alcune persone di cui “mi fido”, i miei lettori-beta, se così li posso chiamare. E poi staremo a vedere, in testa già mi frulla qualche idea… 

www.alessandrobastasi.blogspot.it





giovedì 17 marzo 2016

Roberto Genovesi: i segreti della scrittura 2.0


Ogni storia ha il proprio linguaggio. Anche un romanzo, se decodificato nel modo giusto, rivela di essere ben più di ortografia, sintassi e suggestione. In un momento di grande cambiamento del mondo dell’Editoria come quello che stiamo vivendo, chiunque desideri diventare uno scrittore deve abituarsi all’idea che non ci sono più i lettori di una volta. E non è affatto un modo di dire. Cosa si aspettano, dunque, i lettori 2.0? Quelli cresciuti a merendine e videogiochi, per intenderci, in grado, ormai, di utilizzare lo smartphone ben prima di imparare l’alfabeto? A queste e a molte altre domande ha risposto Roberto Genovesi, giornalista, sceneggiatore, autore televisivo e scrittore di romanzi storici e non solo, in grado di entusiasmare, grazie al suo stile ammaliante e alle sue tecniche innovative, generazioni sempre nuove di lettori. Esperto di videogiochi e Docente di Teoria e Tecnica dei linguaggi interattivi e cross-mediali in varie Università, Roberto Genovesi riesce non solo a far vivere i suoi personaggi anche fuori dalle pagine dei libri, ma anche e soprattutto a far entrare i lettori nella storia. Che si tratti di Roma Imperiale, Germania Nazista o Londra Vittoriana, la lettura di uno dei romanzi di Genovesi è emozionante proprio come un viaggio, coinvolgente come un videogame e avvincente come una serie TV. A comporre questa miscela di grande efficacia, oltre alle storie interessanti e ai personaggi credibili, contribuisce una struttura solida, costruita con grande attenzione, che ha nella semplicità delle descrizioni e nell’immediatezza dei dialoghi le sue colonne portanti, sfruttando la potenza narrativa di alcune tecniche che rendono il ritmo sempre più incalzante, come continui cambi di punto di vista, molti simili agli stacchi di un’inquadratura in una fiction TV. E così, pagina dopo pagina, un libro non solo si divora, ma sembra proprio di vederlo, una scena dopo l’altra, senza rinunciare al piacere della lettura di testi di grande qualità. A tutto ciò bisogna aggiungere l’impatto social che ogni nuovo libro di Genovesi ha, grazie alla grande attenzione dell’autore per questi nuovi mezzi di comunicazione, in grado di rendere virale ogni contenuto. I Tweet e le pagine Facebook dedicate a ogni romanzo, infatti, ne allungano sorprendentemente la vita, attraverso la condivisione di foto, citazioni e talvolta perfino di capitoli aggiuntivi che coinvolgono anche i lettori più esigenti, i quali necessitano di stimoli sempre nuovi. Del resto la creatività è la vera anima della scrittura, anche e soprattutto nell’era digitale.   

Dall’Antica Roma, alla Germania della Seconda Guerra Mondiale, passando per la Terrasanta delle Crociate e la Londra di fine Ottocento, chi legge i tuoi romanzi ha la fortuna di viaggiare nel tempo e nello spazio. Tu che scrittore sei: segui l’ispirazione in qualunque momento della giornata o hai un metodo ben preciso dal quale non puoi prescindere?

Le idee per un romanzo o per una storia, più in generale, arrivano sempre quando meno te l’aspetti. Anzi, se ti metti seduto alla scrivania con l’intento di creare, è il momento in cui non viene fuori niente. Spesso le idee migliori arrivano dalla metabolizzazione di immagini, letture, eventi accaduti anche molto tempo prima che sedimentano e poi, filtrate dalle esperienze personali, si trasformano in un plot. Il lavoro più importante a monte della stesura di un romanzo o di una sceneggiatura è quello di capire se ciò che stai inventando è davvero originale e se valga la pena di raccontarlo. Scrivere rimasticature non ha senso e non è rispettoso per i lettori. La creazione di un romanzo, per quanto mi riguarda, si sviluppa in tre fasi. La prima è quella della raccolta della documentazione storica. La seconda è quella della scrittura di uno storyboard nel quale viene delineata tutta la storia a grandi linee e i suoi passaggi dettagliati con indicazione di tempi e location. A quel punto il grosso del lavoro è fatto. La terza fase, quella della scrittura del testo è la più semplice e consequenziale rispetto alle prime due.

La maggior parte delle tue storie possono essere lette a tutte le età: qual è il tuo segreto per riuscire a coinvolgere tanto efficacemente anche un pubblico di giovani adulti? E come riesci a conciliare tutto ciò con le esigenze dei lettori più grandi?

Io cerco di scrivere storie che abbiano diversi livelli di lettura, ognuno dedicato a una fascia d’età diversa, ma in linea di massima convergenti verso il target medio dei miei lettori che è quello dei giovani adulti. Non sottovaluto la maturità dei ragazzi che oggi, anche grazie alla frequentazione dei videogiochi, è molto più importante di quella dei loro coetanei delle generazioni passate. Non puoi rappresentare il male se non metti in evidenza il suo potere e le conseguenze delle sue azioni. Se edulcorassi le mie storie i lettori si sentirebbero presi in giro.

È ancora possibile oggi, secondo te, fare della scrittura una professione a tempo pieno? Che consiglio daresti a chi, come te, volesse intraprendere questo percorso?

Una risposta per volta. Alla prima domanda rispondo che la situazione del mercato dell’editoria è sotto gli occhi di tutti, ma è anche vero che i romanzi per bambini e ragazzi sono quelli che soffrono meno di questa situazione. Io dico che non è solo questione di crisi ma anche di come si approccia il lavoro di scrittura. Uno scrittore dovrebbe essere sempre in grado di rimettere in discussione il suo stile e i contenuti delle sue storie. La professione di autore non può essere un lavoro monotono e monotematico. Quelli che dicono: “Io scrivo così e scrivo da sempre queste storie, ma purtroppo è il mercato che ci penalizza tutti,” non hanno capito la bestia con la quale hanno a che fare. I lettori di oggi non sono quelli di cinque o dieci anni fa. Senza scomodare troppo l’abusato termine di ‘nativi digitali’, dobbiamo immaginare che il potenziale lettore di oggi si aspetta qualcosa di diverso da un romanzo. Il lettore, abituato a interagire con il racconto tramite i videogiochi, abituato a comporre la storia attraverso i fumetti, abituato a correre dietro alla storia attraverso i ritmi delle fiction televisive di ultima generazione, si aspetta qualcosa di più di un racconto didascalico, ma esige un’esperienza multisensoriale nuova. Se questa capacità creativa non è nelle corde dell’autore è inutile scomodare il destino cinico e baro o fantomatici lettori ignoranti e superficiali. Per farsi capire da qualcuno che parla una lingua diversa, nuova bisogna scrivere usando quella lingua e tutti i suoi parametri. Ci troviamo di fronte ad una progressiva mutazione genetica dei linguaggi e non si torna più indietro.
E veniamo ai consigli. Per imparare a scrivere bisogna prima di tutto imparare a leggere. E questo non significa semplicemente riconoscere i vocaboli e il loro significato, ma riuscire a comprendere la magia che si nasconde dietro al racconto. Bisogna lasciarsi stupire. Solo provando direttamente lo stupore si è in grado di riprodurlo. Leggere molto, possibilmente autori che prediligano stili diversi, sperimentali, innovativi e poi scrivere. Provare e riprovare, non accontentarsi della prima stesura, non fidarsi delle stroncature ma nemmeno dei grandi elogi. Ma soprattutto, non cedere agli editori a pagamento. Non è importante pubblicare subito ma pubblicare qualcosa che poi resti. Molti grandissimi autori hanno scritto solo uno o due romanzi nella loro vita e molti grandissimi autori sono stati regolarmente rifiutati dalle case editrici prima di pubblicare qualcosa. Di fronte a un rifiuto non bisogna abbattersi o cedere alle lusinghe di chi ti dice che sei bravo perché punta al portafogli. Gli editor delle case editrici per cui io lavoro sono molto competenti e non è vero che i manoscritti inviati finiscono nel cestino. Alle elementari avevo un’insegnante di italiano che un giorno mi disse che tutto avrei potuto fare da grande, tranne che il giornalista e lo scrittore. Le due professioni che poi ho finito per fare per vivere. Probabilmente a quei tempi aveva ragione lei, ma io presi il suo parere come una sfida e probabilmente dovrei ringraziala per ciò che mi disse allora.

Per saper scrivere bene occorre, certamente, leggere tanto: che libro c’è sul tuo comodino? E se, come autore, potessi appropriarti del romanzo scritto da un collega del passato, quale sarebbe?

La mia esperienza quotidiana con la creatività altrui è multimediale. Leggo anche fino a cinque romanzi contemporaneamente ma allo stesso tempo leggo fumetti, divoro serie tv – anche in questo caso più di una alla volta – mi lascio coinvolgere in giochi di ruolo online. Cerco sempre di cogliere gli elementi comuni di questi tipi di scrittura apparentemente diversi, ma sempre più convergenti. Quanto alla appropriazione non parlerei tanto di titoli quanto di stili. Io adoro Michael Moorcock, Tim Willocks, David Foster Wallace, Murakami Haruki e, più in generale, tutti quegli autori che fanno della struttura della narrazione l’architrave che rende le loro storie inimitabili e ti fanno capire che solo nel modo che loro hanno scelto per raccontarle potevano essere effettivamente raccontate. E poi due colonne portanti come José Saramago e Marcel Proust che stanno lì in alto, dove nessuno può raggiungerli. Figuriamoci io.

A cosa stai lavorando attualmente? Ci sono nuovi libri in arrivo? Raccontaci quali sono i tuoi progetti per il futuro.


È in uscita l’intera saga della Legio Occulta in unico volume. Inoltre sto portando avanti due progetti diversi. Un romanzo thriller di ambientazione storica moderna e una nuova saga ambientata nella Roma di Traiano nella quale sovrappongo ad un impianto storico rigoroso la mia consueta visione allucinata e distorta dei fatti realmente accaduti. Collocarla in un filone storico horror sarebbe eccessivo, ma le suggestioni fantastiche per uno come me che viene dalla narrativa di genere sono inevitabili. Il primo volume della trilogia uscirà prima dell’estate 2016 per Newton Compton che è il mio editore per i romanzi storici. Gli altri due a cadenza regolare nei mesi successivi.



www.robertogenovesi.com



domenica 13 marzo 2016

Barbara Impat: emigranti, istruzioni per l’uso tra integrazione e disintegrazione


Il tuo Paese natio ha poco da offrirti e sogni un futuro altrove? Prepara la valigia, fai un biglietto di sola andata e inizia a pianificare la tua vita all’estero. Facile a dirsi, ma concretamente quanti ci riescono nel lungo periodo? All’inizio, a causa dei tanti problemi pratici coi quali si scontra chi decide di espatriare, si fa poco caso a ciò che comporta emotivamente la prospettiva di trascorrere tutta la propria vita in un altro Paese. “Via da qui”, di Barbara Impat, scrittrice di grande talento e traduttrice naturalizzata in Provenza da oltre un decennio, non è certo un manuale pratico per districarsi tra le noie burocratiche di chi sta progettando una vita lontano dall’Italia, ma un’intensa raccolta autopubblicata di emozioni, sensazioni e sentimenti che molti, tra coloro che hanno scelto di espatriare, hanno provato almeno una volta nel corso della loro esperienza di migranti. Ventuno racconti brevi su sogni e paure, illusioni e disillusioni di chi ha sperimentato il coraggio che occorre per integrarsi senza disintegrarsi, inseguendo le proprie aspirazioni anche a costo di lasciare il proprio Paese, ma senza dimenticare le proprie origini. Una esilarante, quanto amara, selezione di racconti in bilico tra insoddisfazione e nostalgia, realtà e luoghi comuni, incoscienza e tolleranza, che, complice lo stile brioso e accattivante dell’autrice, farà sorridere chi ha già fatto il grande passo, ma anche riflettere più a fondo chi sta cercando il proprio angolino di mondo dove iniziare a sentirsi a casa.


“Via da qui” è un variegato mosaico di storie che raccontano paure, sogni e delusioni di chi ha scelto di emigrare, lasciando il nostro Paese in cerca di realizzazione. Raccontaci la genesi di questo libro: cosa ti ha ispirato durante la stesura? E cosa vuoi comunicare?

Mi ha ispirato la “crisi di mezzo espatrio”, rovinosamente coincisa con quella di mezza età! Più seriamente: all’origine c’è stato quel sentimento di sottile frustrazione che provano - prima o poi - tutti gli italiani all’estero. Quando? Nel momento in cui intuiscono di aver fatto un biglietto di sola andata. Momento seguito da un’altra sconcertante intuizione: quella che il ritorno definitivo in patria potrebbe avvenire solo… in posizione orizzontale! Cosa voglio comunicare? Non saprei. Non c’è un messaggio particolare, parlerei piuttosto di stati d’animo, emozioni che si provano vivendo fuori dall’Italia - come la crisi di identità culturale che ti può colpire quando ti accorgi di sentirti straniero un po’ ovunque, nostalgico di più vite e Paesi allo stesso tempo. Un pasticcio interiore, sicuramente, ma dipinto con ironia, spero.

Quanto c’è di vero nei personaggi e nelle esilaranti, ma, a tratti, toccanti vicende che narri? C’è qualcosa di autobiografico?

Le storie – ci tengo a dirlo – sono tutte inventate. Tuttavia c’è molto, anzi moltissimo di autobiografico nei personaggi. Non a caso, la protagonista di molti racconti (Agata, l’expat imbranata, traduttrice maniacale e tendenzialmente a dieta) somiglia a qualcuno che conosco come le mie tasche. Probabilmente il racconto più autobiografico è Quassù e laggiù (che è anche il titolo del mio Blog), in cui narro il gustoso rientro in patria di un’emigrata che si cambia in aereo per vestirsi “all’italiana”, cercando così di eludere le inevitabili – seppur bonarie - critiche di chi la troverà ingrassata, malvestita e trascurata. Non più italiana, insomma.

Raccontaci la tua esperienza nel self publishing: come sei approdata a questo mondo? Quali sono i pro e i contro?

Mi sono lanciata nel self publishing perché consapevole della difficoltà di farsi pubblicare dalle case editrici. Ho letto vari e-book sull’argomento e devo dire che, a distanza di qualche mese, confermo quanto scritto da molti autori: quando ci si autopubblica, scrivere qualcosa di valido è solo la condizione necessaria per vendere, ma è assolutamente insufficiente se manca una promozione a tamburo battente. Ergo: cercare blog dove farsi intervistare, condividere estratti dell’opera, usare i social in modo assiduo e, aggiungo, spammare un po’ ovunque la propria opera. Un lavoro quotidiano, insomma, che non ho il tempo, né la costanza di fare, purtroppo. Tuttavia, marketing a parte, consiglio vivamente di provare, perché il self publishing è un’esperienza interessantissima. Anche se, rimanga tra di noi, il mio sogno è passare al cartaceo...

Tra le tue attività gestisci un Blog davvero interessante: quali sono le regole d’oro per avere un Blog di successo?

Ti ringrazio! Beh, dipende da cosa intendi per “successo” – il mio è un blog neonato (ha appena un anno) oltre che atipico, perché non tratta gli argomenti classici della vita all’estero – quelli legati alla vita pratico-amministrativa, per intenderci. Insomma: ha un taglio editoriale abbastanza umoristico e scanzonato, che lo rende un “prodotto di nicchia”, per così dire. Comunque, ritornando alla definizione di “blog di successo”, gli ingredienti indispensabili sono: articoli validi (interessanti, innovativi, non troppo brevi e mai scopiazzati da altri blog), stile accattivante e originale; infine – come sopra – un ottimo lavoro di marketing. Se non hai una bella pagina Facebook, non spendi qualche soldino per promuovere sito e pagina, e – soprattutto – non dedichi un paio d’ore al giorno a rispondere ai “fan”, pubblicare post attinenti al blog ed essere presente sui vari social, difficilmente arriverai a raggiungere un vasto pubblico. E credo che il vero successo sia proprio essere letti il più possibile, giusto?

A cosa stai lavorando attualmente? Raccontaci quali sono i tuoi progetti per il futuro.


Attualmente sto scrivendo un romanzo. Visti i ritmi con cui procedo mi sono data una scadenza: dicembre 2020 – che per me è come dire dopodomani! Poi sto leggendo varie cose interessanti sul web marketing – anche per motivi professionali, poiché sono traduttrice e devo aggiornarmi costantemente – e, last, but not least, sto valutando alcune idee di sviluppo professionale per poter tornare in Italia. Anche qui, viste le tempistiche, non credo di concretizzare prima del 2020. Come dicono i francesi: “chi va piano, va sano” – e omettono stranamente l’ultima parte dell’adagio… che sia un presagio? Cara Alessandra, ti ringrazio per l’intervista. Un saluto al gusto lavanda dalla Provenza!

giovedì 10 marzo 2016

Antonella Neri: scopri chi sei e imparerai a cantare


Solitamente si è portati a pensare che saper cantare sia un talento naturale che può essere coltivato con lo studio di un metodo. Ciò è vero solo in parte: essere intonati e avere un buon orecchio sono doti innate che possono essere affinate con l’esercizio, ma saper cantare richiede molto di più. Studio, impegno e disciplina sono fondamentali per imparare a cantare, tuttavia per scoprire le potenzialità e le sfumature della propria voce, tra timbro ed estensione, occorre molto di più dell’applicazione meccanica di un metodo preconfezionato. Nel libro “Come canti? Scopri la tua voce”, Ut Orpheus Edizioni, l’autrice, Antonella Neri, pianista, cantante e insegnante di canto di grande esperienza, condivide con tutti i lettori, professionisti o semplici appassionati di musica, le sue considerazioni circa l’importanza di conoscere sé stessi e il proprio corpo in qualità di strumento, ancor prima di imparare un metodo di studio e di dedicarsi alla tecnica vocale. Imparare a cantare, infatti, richiede una profonda consapevolezza delle proprie capacità e anche dei propri limiti per riuscire a superarli, non solo attraverso regole ben precise, ma anche e soprattutto grazie alla percezione del proprio talento e alla voglia di esprimerlo a pieno. Antonella Neri racconta il proprio viaggio nel mondo della musica, mettendo al centro quella che lei definisce la persona-cantante ancora prima della tecnica e del metodo, dando interessanti spunti di riflessione a tutti coloro che desiderano imparare, a prescindere dal fatto che si tratti di dilettanti appassionati o di professionisti già navigati. Considerare il canto come una forma di conoscenza del proprio intimo, oltre che come un’arte che affonda le sue radici nella storia e nella cultura del nostro Paese, ne rende l’apprendimento un’esperienza emotiva e, allo stesso tempo, educativa, così profonda, da trasformarla in una vocazione prima che in una vera e propria professione a tempo pieno.     

Pianista, cantante, insegnante: la sua vita e la sua carriera sono dedicate, da sempre, alla divulgazione della musica e del canto a tutto tondo. Quando e da dove nasce questa esigenza? Cosa vuole comunicare?

Per me la musica, fin da piccola, ha rappresentato una scelta e insieme una necessità. Ho cominciato a suonare il pianoforte a cinque anni, a cantare ancora prima. Ho scoperto prestissimo di avere l’orecchio assoluto. Da lì in poi non mi sono mai più allontanata da quello che per me è stato ed è, oltre che una passione infinita, un richiamo fortissimo, il pensiero centrale della mia vita. Ho avuto due grandi Maestri che mi hanno aperto le porte alla bellezza dell’arte musicale: Carlo Bruno per il Pianoforte e Margherita Rinaldi per il Canto. Entrambi esigentissimi, inflessibili, dalle doti musicali superiori. Nonostante le lunghe ore di lezione e anche dopo moltissimi anni di studio, sentivo di fare solo piccoli passi dentro questo incredibile universo, e sono stata sempre felice che fosse così: tanto ancor da scoprire e da imparare!
Occuparmi di musica e di canto anche oggi, dopo tanti anni, significa andare alla scoperta di una dimensione vitale che rivela continuamente nuovi aspetti, sfumature, sensazioni, significati. E, soprattutto, il contatto con la natura più profonda di noi stessi e del mondo intorno a noi: mondo fisico, sonoro, psichico. In particolare l’arte del canto, al cui approfondimento tecnico mi dedico ormai da più di quindici anni, è un tesoro che custodisce un segreto inafferrabile, proprio per questo così cercato e anelato.



Nel suo saggio “Come canti? Scopri la tua voce”, Ut Orpheus Edizioni, illustra un metodo innovativo per lo studio e il perfezionamento del canto lirico, che privilegia le esigenze personali del cantante, a prescindere dalla tecnica. Di cosa si tratta?

"Come canti? Scopri la tua voce" mette al centro la persona-cantante e non il metodo o la "tecnica". Per persona-cantante si intende che il cantante debba essere visto non solo dal punto di vista delle abilità vocali, ma anche dalla sua capacità di apprendere.
La capacità di apprendere il canto significa, prima di tutto, aprirsi alla percezione. Per fare questo è necessario conoscere se stessi, e superare ostacoli e blocchi che impediscono la completa e serena esplorazione della voce. Non si tratta, dunque, di applicare un "metodo" pre-confezionato, o rigidi principi tecnici, ma di guidare la persona-cantante nel percorso di scoperta e, successivamente, dell'uso raffinato della voce. La centralità della percezione, unita alla conoscenza del proprio modo di “essere cantante” e delle proprie attitudini corporee e musicali, consente a tutti di valorizzare al meglio le proprie possibilità vocali, aumentando l’auto-efficacia e riducendo i tempi di studio. Da questo deriva anche una sorta di riscrittura del concetto di “tecnica vocale”.
In un momento storico in cui lo strumento-voce viene spesso separato dalla dimensione intima e personale e “sezionato” anatomicamente, credo che sia necessario pensare alla “tecnica” come alla capacità del corpo di auto-organizzarsi nel canto, come lo strumento che ci consente di entrare in contatto con la nostra capacità percettiva globale. Nel canto lo strumento è il corpo, e l’esecutore e lo strumento coincidono. Si può anche dire che il cantante è lo strumento che suona se steso e quindi le implicazioni di tipo personale, psicologico e psichico non sono poche.

Tra le sue numerose attività, è fondatrice e Presidente dell’Associazione culturale non-profit “Cantare l’Opera”. Facciamo un bilancio di questi primi dieci anni di attività: quali sono gli scopi dell’Associazione e quali gli obiettivi raggiunti?

Il sito www.cantarelopera.com è nato nel 2003 quasi “per gioco”, da un’idea che nutrivo da tempo.  Pensato, al debutto, come strumento basato su un sistema originale per imparare la corretta dizione delle arie dell’Opera italiana, si è, poi, affermato come uno dei principali siti italiani dedicati all’Opera e al canto, diventando, in breve, un punto di riferimento sul Web per insegnanti, studenti e cantanti, professionisti e appassionati di Opera lirica. Sulla scia del crescente successo del sito, nel 2006 è nata l'omonima Associazione non-profit che offre ai propri soci un'ampia gamma di servizi e alta visibilità a chi opera nel mondo del Canto. Oggi www.cantarelopera.com è il primo portale in Italia dedicato alla formazione e all’informazione del cantante ed è sempre più conosciuto come un "luogo" dove ci si informa, si impara, si riflette, si trovano spunti per migliorarsi e ci si fa conoscere.



È ancora possibile oggi, secondo lei, fare della musica una professione a tempo pieno? Che consiglio darebbe a un giovane che volesse intraprendere questo percorso?

In Italia è molto difficile, le Istituzioni non investono nella formazione musicale. Salvo rari casi, molto è lasciato alla “fortuna”, alla “creatività” e all’iniziativa del singolo. Si sa che la musica è ad apprendimento precoce, in alcuni casi precocissimo: pensi, invece, che nel nostro sistema scolastico la possibilità di iniziare a studiare uno strumento a scuola è prevista solo a partire dai corsi ad indirizzo Musicale della Scuola Media: sono rivolti cioè a ragazzi che hanno già minimo undici anni! Aggiunga che la didattica musicale, nella scuola dell’obbligo, è di carattere prevalentemente “formativo”. I ragazzi veramente portati per la musica, i futuri musicisti non ricevono un’istruzione adeguata.
Non parliamo poi delle condizioni in cui versano i nostri Teatri Lirici! E pensare che l’Opera è nata in Italia, la lingua Italiana è la lingua universale del canto, i nostri Teatri di tradizione sono i più belli al mondo. Ma questo, nel nostro Paese, non sembra avere più valore.
A un giovane direi di guardarsi intorno, di essere curioso, di non perdere tempo, di scegliersi insegnanti preparati.
E poi di crederci, sempre. La motivazione intrinseca è fondamentale per riuscire nel campo artistico dove sono necessari sacrifici notevoli.

A cosa sta lavorando attualmente? Ci racconti quali sono i suoi progetti per il futuro.

Sto lavorando al secondo volume di “Come canti?”, che contiene la pratica e gli esercizi.
Questi sono stati pensati e formulati sulla base dell’approccio di cui abbiamo parlato prima, e sono orientati, quindi, alla ricerca della consapevolezza corporeo-sensoriale in generale e allo sviluppo percettivo, seguendo il filo di un input didattico che parte dalla conoscenza della “tipologia” della persona-cantante, fino a esplorare i grandi temi dell’apprendimento vocale: metodo di studio, capacità di concentrazione e di riduzione delle interferenze esterne, lavoro sulle sensazioni fisiche, sulla risonanza della voce, sulla percezione uditiva, sulle qualità musicali.
Terrò a Roma nel mese di aprile un seminario di presentazione di questo “metodo” che precede un vero e proprio Laboratorio di tecnica vocale che si svolgerà dal 17 al 27 agosto prossimi al "FESTIVAL DEL GOLFO" 2016 organizzato dall’Ente Concerti Castello di Belveglio.
Una "full immersion" in cui si potrà sperimentare l’approccio alla voce che propongo in “Come canti?”.

www.antonellaneri.it