mercoledì 21 novembre 2018

Francesca Mandetta: il veterinario 2.0, storia di una professione al passo coi tempi



Ne è passato di tempo da quando chi si prendeva cura degli animali operava per lo più al di fuori delle grandi città, dove il legame tra uomo e animali è più stretto, un po’ per vocazione, un po’ per necessità. Oggi, infatti, la circostanza che in moltissime famiglie metropolitane almeno un componente abbia quattro zampe ha reso la professione del veterinario un mestiere d’eccellenza che richiede studio, titoli e formazione continua, ma anche sensibilità e sacrifici, tanto che, proprio come a qualsiasi altro medico, anche al veterinario è richiesta sempre più spesso una reperibilità ininterrotta nell’arco delle ventiquattro ore della giornata e un rapporto di simbiotica fiducia non solo con l’animale, ma anche e soprattutto col suo proprietario. È nata così l’esigenza, soprattutto nelle grandi città, di vere e proprie cliniche veterinarie aperte anche la notte e in grado di far fronte non solo alle esigenze di routine, ma anche a casi di emergenza sempre più delicati per salvare la vita di animali che oggi sono considerati componenti della famiglia accuditi e amati come tutti gli altri.
Ma cosa significa intraprendere la professione del medico veterinario al giorno d’oggi? Qual è il suo ruolo in qualità di operatore medico, scienziato e persona di fiducia e supporto a chi vuole prendersi cura di un animale anche in un contesto cittadino? Ci sono nuove leggi che tutelano le nuove esigenze degli animali e dei loro proprietari, insieme ai professionisti del settore? E come si può far fronte sempre più efficacemente a piaghe metropolitane come abbandono e randagismo? A rispondere a queste e a molte altre domande, spiegandoci meglio tutti i risvolti di questo mestiere sempre più all’avanguardia, ci ha pensato la Dottoressa Francesca Mandetta, tra le colonne della nuova Clinica Vetetrinaria Spinaceto di Roma che, nell’intervista che segue, ci ha raccontato la sua storia, dai primi passi, fino a oggi, e quanto l’empatia e la preparazione siano ugualmente importanti per chi volesse intraprendere la professione di medico veterinario.



Empatia, sensibilità e tanto studio e impegno: prendersi cura degli animali, pazienti non in grado di comunicare a parole il disagio e il dolore, è una professione che richiede un profondo senso di responsabilità. Quando e come si è resa conto di avere la vocazione per questo mestiere?

Sin da piccola ho sempre voluto diventare un medico veterinario. Quando a scuola si cercava di immaginare cosa fare da grandi, io non avevo nessun dubbio: il veterinario era il mio sogno che, fortunatamente, è diventato realtà. Ho sempre pensato che questo fosse il mestiere più bello del mondo ed è tra i miei primi ricordi di bambina. Da piccola ammiravo il nostro veterinario che, all’epoca, era il cosiddetto veterinario di campagna e coltivare questo obiettivo, nei lunghi anni di studio, mi ha permesso di coniugare le mie due grandi passioni: la medicina e gli animali.



Un numero sempre maggiore di famiglie nel nostro Paese ha uno o più componenti a quattro zampe: quanto è importante instaurare un corretto rapporto di fiducia col proprio medico veterinario per comprendere al meglio i bisogni dei nostri fratelli animali? In cosa consiste la prevenzione in questo senso e quali comportamenti sarebbe bene mettere in atto?

Il rapporto col medico veterinario è fondamentale per chi possiede un animale, perché egli svolge il ruolo che, per noi umani, è svolto dal cosiddetto medico di famiglia. Deve essere un punto di riferimento che conosce il nostro animale, sia da un punto di vista clinico, sia comportamentale e che, quindi, è in grado di fare diagnosi in modo puntuale e il più velocemente possibile, quando necessario, mantenendo la giusta lucidità nella cura e nella gestione sia del paziente, sia della sua famiglia umana. Il rapporto, quindi, da parte nostra non è solo lavorativo, ma anche, in un certo senso, di amicizia, al di là delle patologie e delle necessità contingenti. È proprio questo rapporto di fiducia di fondo che permette al veterinario di supportare e guidare il proprietario nelle scelte migliori per il proprio animale anche dal punto di vista clinico. Oltre alla professionalità di noi medici, infatti, credo sia importante che i padroni dei nostri pazienti si affidino a noi anche come persone, sviluppando un’empatia davvero molto utile per svolgere con competenza e dedizione il nostro mestiere. In fondo l’atteggiamento che caratterizza la maggior parte dei proprietari dei nostri pazienti non è molto diverso da quello che hanno i genitori quando scelgono il pediatra per il proprio bambino: al di là delle capacità del medico apprezzano anche l’atteggiamento empatico e il modo di porsi della persona nei confronti dell’intero contesto familiare, oltre che del bambino. Trattare l’animale come se fosse nostro rappresenta una marcia in più nella nostra professione di veterinari. Questa combinazione di fattori caratterizza, a mio avviso, quello che oggi potremmo definire il veterinario 2.0.
È proprio costruendo questo rapporto di profonda e reciproca fiducia che si comprende l’importanza del concetto di prevenzione. La disinformazione che a volte c’è nei confronti del ruolo del medico veterinario sta proprio nel fatto che ancora molti proprietari di animali si rivolgono a noi solo quando emerge una patologia, ritrovandosi a prendere decisioni difficili di fronte a medici che considerano professionisti e in cui hanno fiducia, ma che, umanamente, sono degli estranei. Se invece si instaurasse il giusto rapporto col medico veterinario, fatto di visite di controllo e di prevenzione a seconda dell’età e delle condizioni del proprio animale, tutto sarebbe più semplice e naturale, per quanto possibile, anche in caso di malattia o emergenza, proprio come accade con un pediatra per il proprio bambino o con un medico di famiglia che ci conosce più di chiunque altro. La prevenzione è indispensabile anche per i nostri animali, così come lo sono, nello specifico, i vaccini e i trattamenti antiparassitari, oltre a una buona e sana alimentazione, da valutare per il singolo animale, in base allo stile di vita.



La Clinica Veterinaria Spinaceto, oggi in una nuova sede completamente ristrutturata e sempre più a misura dei pazienti, è diventata un’eccellenza del settore, grazie a un’equipe di medici di grande esperienza. Cosa significa offrire al pubblico un servizio ventiquattro ore su ventiquattro? Ci spieghi l’importanza di proporre ai proprietari degli animali un supporto che spesso va oltre le esigenze mediche, sostenendoli anche nelle fasi dell’adozione e dell’adattamento in casa, cercando di far fronte a eventuali difficoltà comportamentali.

Avere a disposizione una struttura e un medico veterinario ventiquattro ore su ventiquattro oggi è fondamentale. I nostri animali, infatti, hanno bisogno di assistenza continuativa, non solo per le urgenze, ma anche per la possibilità di consigliare i proprietari sulle cure preventive e future per i loro animali e anche sul primo ingresso in famiglia in seguito all’adozione di un nuovo animaletto, oltre all’adattamento in casa e coi suoi abitanti, nel rispetto di tutti. Il ruolo del medico veterinario, infatti, è anche questo e spesso oggi i futuri proprietari vengono a trovarci ancor prima di adottare un animale per essere indirizzati verso la scelta giusta, sia per loro, sia per il futuro componente della famiglia, per capire come prendersene cura, preparando la casa al meglio per accoglierlo, e vogliono essere supportati in caso di problemi comportamentali o difficoltà di adattamento. Quindi il nostro compito non è solo strettamente medico di cura delle patologie, ma anche di supporto dei proprietari nelle loro scelte.



Randagismo e abbandono sono ancora oggi, soprattutto nelle grandi città, delle piaghe alle quali è difficile far fronte e troppo spesso ignorate. Quali sono in merito i consigli del veterinario, sia verso le famiglie, sia verso le istituzioni?

La crisi economica di questi anni non ha aiutato ad affrontare in modo sistematico queste piaghe, anche se, sia per il randagismo, sia per l’abbandono, è stato fatto molto ultimamente, in termini legislativi, ma soprattutto di sensibilizzazione. La microchippatura obbligatoria per i cani, oltre a multe salate per chi li abbandona, e il tentativo di costruzione dell’anagrafe felina sono esempi della rinnovata attenzione verso i nostri animali, ma senza dubbio c’è ancora molta strada da fare, perché è stato fatto molto per quanto riguarda i cani, ma poco per le specie non convenzionali, come pesci e tartarughe, e ancor meno per i gatti che restano comunque il primo e preferito tra i nostri animali domestici, tanto in termini di numero di adozioni, quando di abbandoni, purtroppo. Il nostro primo compito come medici veterinari, dunque, è quello di sensibilizzare sempre più i cittadini spiegando loro che gli animali non sono oggetti e non si può pensare di adottare un gatto, un cane o magari un coniglietto per poi liberarsene senza pensare alle conseguenze. Bisogna spiegare chiaramente le responsabilità che derivano da un’adozione e anche sollecitare le istituzioni a fare sempre di più. Obbligare alla microchippatura di tutti gli animali domestici, non solo dei cani, potrebbe essere un primo passo, magari agevolando dal punto di vista fiscale le famiglie, riducendo il più possibile le spese, soprattutto per le persone meno fortunate, visto che possedere un animale in molti casi è ancora considerato alla stregua del possesso di un bene di lusso, ma questa è una classificazione ormai anacronistica. Le istituzioni dovrebbero offrire dei servizi gratuiti per permettere ai cittadini di registrare i propri animali, facendo maggiori controlli e dando anche dei vantaggi ai proprietari concedendo la possibilità di detrarre maggiormente le spese mediche e farmaceutiche. Qualche passo in avanti nell’inclusione degli animali all’interno della famiglia come veri e propri componenti si sta facendo, ma, a mio avviso, si dovrebbe aspirare a rendere l’azione di un animale controllata e sicura dal punto di vista legislativo come quella di un bambino.



In tutti questi anni di esperienza e pratica della professione si sarà presa cura anche di pazienti particolari e insoliti. Ci racconti un episodio, un aneddoto, una storia che è rimasta particolarmente impressa nel suo cuore, sia come medico, sia come donna.

In tanti anni di professione ho avuto moltissimi pazienti e ho seguito le loro famiglie e le loro storie, accompagnandoli per un pezzo di vita, quindi mi sembrerebbe quasi di fare un torto a qualcuno di loro, scegliendone solo uno. Ognuno è stato speciale e ha lasciato un segno dentro di me, come medico e come persona, e ho avuto tante soddisfazioni che conservo nel cuore, ma anche tante sconfitte, visto che la medicina ha dei limiti. Devo, però, ammettere che i pazienti che mi hanno segnato più profondamente sono stati proprio i miei animali, quelli per cui, oltre al ruolo di medico, ho rivestito anche quello di proprietario e, perché no, in un certo senso di “mamma” umana. Loro mi hanno insegnato molto, perché mi hanno fatto comprendere cosa provano i nostri clienti quando si affidano a noi veterinari e, proprio per questo, penso che il rapporto di empatia e di fiducia medico-paziente sia importantissimo. Essere un buon medico veterinario non è solo studio e aggiornamento, ma anche la capacità di mettersi nei panni del proprietario e di considerare il paziente come se fosse un nostro animaletto.

mercoledì 7 novembre 2018

Pino Nazio: vi racconto Aldo Moro e la Guerra Fredda in Italia



La scorsa primavera si è celebrato un triste anniversario: sono trascorsi quarant’anni esatti dall’agguato di via Fani che ha dato inizio alla prigionia di Aldo Moro, col doloroso epilogo noto a tutti, che ha stravolto gli equilibri della scena politica italiana del tempo. Ma cosa sanno le generazioni più giovani di questo statista unico nel suo genere? Se ne conoscono e se ne studiano a sufficienza, ancora oggi, la vita e il pensiero? E si è riusciti a far veramente luce sul mistero della sua morte e a comprendere le dinamiche storico-politiche che l’hanno contrassegnata? A queste e a molte altre domande tenta di rispondere Pino Nazio nel suo ultimo libro, “Aldo Moro. La Guerra Fredda in Italia”, Edizioni Ponte Sisto, con la prefazione di David Sassoli.
Giornalista, scrittore, autore televisivo e tra le colonne della trasmissione “Chi l’ha visto?” in qualità di inviato per oltre dieci anni, Pino Nazio, in questo nuovo libro, ha ripercorso, con la lucidità e la passione che lo contraddistinguono come autore sempre alle prese coi misteri d’Italia sui quali c’è ancora molto da dire, le tappe del pensiero di Aldo Moro e, in particolare, le fasi che ne hanno caratterizzato il rapimento, la prigionia e, infine, il tragico ritrovamento, oltre alle tortuose indagini che sono state compiute in seguito per cercare di comprendere moventi, mandanti ed esecutori materiali dei fatti.
Oltre all’impeccabile ricostruzione degli eventi, è estremamente interessante l’analisi che l’autore fa degli equilibri politici che si sono sgretolati nel nostro Paese in seguito a questo fatto di sangue che è ben più di un caso di cronaca nera come gli altri. Infatti, dopo essersi occupato con successo di molti casi ancora alla ribalta, come quello di Emanuela Orlandi, di Serena Mollicone, di Yara Gambirasio e di Giuseppe Di Matteo, Pino Nazio, muovendosi dal rapimento di Moro, dipinge con mano sicura il quadro storico-politico che ha caratterizzato il clima della Guerra Fredda in Italia, facendo collegamenti e confrontando episodi e testimonianze fondamentali per comprendere anche l’attualità di oggi solo apparentemente lontana da certe dinamiche.
Una lettura imperdibile, tra sociologia e giornalismo, per chi ama studiare la Storia per capire e vivere il presente con consapevolezza e dignità.



A quarant’anni dall’agguato di via Fani sono ancora molti i misteri che avvolgono il sequestro e l’omicidio di uno dei più grandi statisti del Dopoguerra. Chi era Aldo Moro e cosa rappresenta ancora oggi? Raccontaci la genesi del tuo libro “Aldo Moro. La Guerra Fredda in Italia”, Edizioni Ponte Sisto.

Moro è stato uno dei più importanti uomini politici del Dopoguerra, per due volte Presidente del Consiglio in lunghi Governi –nella prima Repubblica in cui i dicasteri spesso duravano pochi mesi- Ministro degli Esteri durante una delle fasi più critiche della Guerra fredda, Ministro della Pubblica istruzione e della Giustizia, prima Segretario e poi Presidente della DC. Ma, al di là di quanto possa descrivere ogni singolo incarico, Moro nel Dopoguerra è stato il democristiano più influente - dopo Alcide De Gasperi e insieme ad Amintore Fanfani - fino alla sua tragica morte. Oggi –e le celebrazioni per il quarantennale della sua scomparsa lo hanno confermato- Moro è stato un uomo del confronto e del dialogo, anche quando l’intesa comportava rischi altissimi come –in piena Guerra fredda- l’apertura verso il Partito comunista italiano. Il mio libro nasce dall’esigenza di fornire un quadro chiaro in cui è avvenuto il rapimento e la morte dello Statista, delle luci e delle ombre che hanno avvolto la sua fine e di squarciare il velo delle omertà e delle ipocrisie che ancora oggi aleggiano intorno a quel corpo ritrovato in una Renault rossa in via Caetani.

La tua interessante analisi collega una serie di fatti sanguinosi precedenti e successivi all’assassinio di Moro, ricostruendo una rete oscura che tenta di mettere in fila tutti i tasselli di quella che fu la Guerra Fredda nel nostro Paese. A quali conclusioni sei giunto?

Moro ha pagato il prezzo più alto per aver osato sfidare l’equilibrio che si era creato dopo la Seconda Guerra Mondiale in cui all’Italia –considerato Paese sconfitto- era stato destinato un ruolo subalterno e a sovranità limitata. Dalle macerie in cui il Fascismo e Mussolini avevano trascinata l’Italia, il Paese ha saputo risorgere entrando nel gruppo delle potenze economiche planetarie senza che venissero rimossi i limiti imposti al Belpaese in materia di Difesa, Politica estera e pieno sviluppo della democrazia: il PCI non avrebbe dovuto mai varcare la soglia del governo. Moro, capendo che l’Italia si sarebbe definitivamente emancipata solo aprendo le porte della “stanza dei bottoni” ai comunisti italiani, rischiò il tutto per tutto e per questo venne ucciso. Certo, i colpi che l’hanno trafitto sono stati esplosi da uomini delle Brigate Rosse, ma chi ha permesso che lui venisse rapito e ucciso non erano né in via Fani né in via Caetani. Basti pensare che nonostante fosse da tempo e pubblicamente indicato come un bersaglio, che le Br avevano sparato e ucciso molte volte prima di lui, gli è stata negata l’auto blindata che avrebbe salvato la sua vita e quella degli agenti della sua scorta.

Quando si raccontano fatti di cronaca ancora tanto sentiti, la condivisione e la divulgazione del proprio lavoro è un aspetto importante tanto quanto la fase di ricerca e di stesura del testo. Svelaci un episodio, un aneddoto, una storia che in questi mesi di presentazioni al pubblico è rimasta particolarmente impressa nel tuo cuore di professionista e di uomo.

Molti sono gli episodi che hanno segnato questo libro e affondano le radici in un lavoro di studio e di ricerca di una dozzina d’anni. Tra gli elementi che ricordo ci sono sicuramente le pesanti minacce ricevute da uno dei brigatisti condannati per il sequestro e l’uccisione di Moro perché avevo avuto la sfrontatezza di ricordargli che esistono agli atti dei diversi processi elementi tali da far supporre che dietro alle Br vi fosse un clima di complicità da parte di servizi segreti, nazionali e internazionali, deviati e non. Oramai è ben chiaro come, dove e quando le Br sono state non-ostacolate, non-disturbate, non-fermate, nella loro “strategia di attacco al cuore dello Stato” che aveva nel rapimento di Moro non tanto lo sviluppo di una “geometrica potenza”, quanto una chiara politica di eliminazione di uno scomodo politico. Infatti dopo il 9 maggio del 1978 non c’è stata la rivoluzione ma una pesante sconfitta del movimento operaio, del Partito Comunista e la vittoria di un blocco conservatore che ha dominato per quasi tre lustri l’Italia e che ha avuto nel Caf –il patto Craxi-Andreotti-Forlani- la sua espressione più autoritaria.



Prima come inviato della trasmissione “Chi l’ha visto?”, poi come autore, ti sei sempre occupato di casi di cronaca nera con profondità e delicatezza. Secondo la tua esperienza come sarebbe più corretto approcciarsi a queste storie per far sì che anche l’opinione pubblica possa dare il proprio catartico contributo alla risoluzione dei casi? Dai un suggerimento a un giovane giornalista che voglia seguire le tue orme.

Quando ci sia avvia sul sentiero del giornalismo investigativo bisogna abbandonare due suggestioni, sia quella “complottista” che vede dietro ogni evento una oscura manovra di poteri occulti, sia quella “integrata” per cui la realtà, la verità storica, non hanno mai delle spiegazioni che non siano le versioni ufficiali delle autorità. Si deve evitare di credere che la tragedia dell’11 settembre 2001 sia frutto di un disegno dei servizi segreti americani e che un aereo non è mai caduto sul Pentagono o che la morte di John Kennedy sia stata opera del solo Lee Oswald. Non possiamo credere che noi siamo controllati da microchip installati sottopelle, che i vaccini provochino l’autismo e che Totò Riina non sapesse che esistesse una organizzazione criminale chiamata mafia. Il bravo giornalista che vuole indagare la realtà –non solo la cronaca nera- deve partire dai fatti, controllare e verificare il proprio lavoro, evitare facili suggestioni e opinioni ritenute valide solo perché sostenute da molti. In una epoca in cui dominano le fake-news e ogni possessore di smartphone è convinto di essere un esperto tuttologo solo perché ha accesso a Internet questo lavoro è particolarmente difficile. Per quanto possibile il giornalista deve andare sul campo, lasciare il mouse e usare le proprie gambe. Non ricordo un solo caso di cui mi sono occupato in cui non abbia scoperto qualche novità, qualche rivelazione, qualche risvolto nascosto, andando a verificare sul luogo del delitto, della tragedia, dell’avvenimento.

A cosa stai lavorando attualmente? Svelaci quali sono i tuoi progetti per il futuro.

Altri libri, una pièce teatrale, e progetti per la Tv e la Rete. Il Paese attraversa un momento molto difficile, c’è il rischio di un enorme passo indietro dal punto di vista economico, sociale, dei diritti civili e della stessa democrazia, provare a raccontare quello che accade senza qualcuno ti detti cosa scrivere è un impegno a cui non voglio venire meno. Anche se questo ha un alto prezzo da pagare. Nel mio lavoro non dimentico mai quel detto anglosassone che ricorda al giornalista che per lui la notizia è come il denaro per un impiegato di banca: non deve mai dimenticare che sta maneggiando qualcosa che non gli appartiene.


www.pinonazio.it