Col suo
nuovo album, “Fumo al vento”, il
musicista folk Luca Ricatti,
riscopre le sue radici, raggiungendo una nuova e meritata maturità artistica e
personale. Frutto di una lunga lavorazione e interamente autoprodotto, questo
disco proviene dalle corde più profonde della personalità del musicista che, è
proprio il caso di dirlo, si esprime a pieno attraverso le corde della sua
chitarra acustica, filo conduttore dell’opera. Ironico, pungente, evocativo,
Luca racconta non solo sentimenti, ma vere e proprie storie, rivisitando ritmi
e melodie popolari, descrivendo paesaggi e tradizioni e rievocando epoche
passate impossibili da dimenticare. Dal dialetto romanesco, alle ballate
medievali, Luca Ricatti è un interprete intenso e talvolta emozionato, che fa
della piccola imperfezione vocale una vera e propria cifra stilistica e della
critica costruttiva alle autorità del nostro tempo una sottile metafora del suo
essere. I suoi, più che testi, sono filastrocche cucite sull’attualità
attraverso il linguaggio universale della Storia e della caducità della natura
umana. Tuttavia, nonostante fiumi
d’asfalto e orizzonti di cemento,
non dobbiamo permettere alla ripetitività della vita di città di portarci via
la nostra voglia di progettare un futuro migliore, che abbia radici e ali, e,
per questo cantautore di grande talento, c’è un unico rimedio: la musica, se non vogliamo che il silenzio ci porti via
davvero, come fumo al vento…
Raccontaci le genesi del tuo nuovo album “Fumo al
vento”: cosa ti ha ispirato? Cosa hai voluto esprimere e comunicare?
L'origine
di molti brani si perde nel tempo. Ci sono canzoni che ho iniziato a scrivere
più di quindici anni fa. Nel frattempo ero preso da altri progetti e ci
lavoravo quando potevo. “Fumo al vento”
è il culmine di un processo di maturazione della mia identità musicale e
personale. Dopo molti anni passati a fare cose diverse, tra cui anche
musica elettronica, ho sentito l'esigenza di tornare alle radici della mia
esperienza musicale, che per me significava soprattutto tornare alla chitarra
acustica. Le musiche delle tradizioni orali italiane erano una conseguenza
inevitabile di questa ricerca di “radici”. La maggior parte dei pezzi
dell'album sono scritti da me, ma sono fortemente influenzati dal folclore.
Dietro questo bisogno di solidità, di trovare dei punti fermi, però, c'è anche
la presa di coscienza della provvisorietà della vita umana e anche dell'arte,
che non è eterna come ci piace immaginare. Da qui il titolo. In effetti se ti
fermi a pensare che tutto, prima o poi, svanirà e sarà dimenticato,
inevitabilmente finisci col chiederti cosa è davvero importante per te, a cosa
vuoi dedicare il poco tempo che hai disposizione.
Da dove nasce la tua esigenza di
fare musica? Che cantautore sei e quali sono i temi che vuoi approfondire e le
storie che vuoi raccontare?
È
una domanda difficile. La musica fa parte della mia vita da quando ero bambino,
per me è un modo naturale di esprimermi. In effetti la scrittura di canzoni è
solo una parte della mia attività di musicista. La parte musicale è qualcosa
che fluisce in modo molto spontaneo. Invece per scrivere un testo devo essere
davvero motivato, anche perché è un processo che dura mesi, a volte anni.
I
temi che tratto più spesso sono l'ecologismo, il rapporto tra l'uomo e la
natura, la crudeltà del potere e i suoi abusi.
C'è
un'immagine che mi affascina molto e che viene dall'iconografia medievale. È la
“danza macabra”: i morti escono dalle tombe per trascinare i vivi in un ballo.
È una cosa che ha origini chiaramente religiose, ma a me affascina soprattutto
per il suo aspetto “egualitario”, perché alla danza partecipano tutti, poveri e
ricchi, che è un modo per dire che almeno di fronte alla morte gli uomini sono
davvero tutti uguali. Per questo, quando racconto di persone morte per
ingiustizie e abusi, uso i ritmi delle danze popolari. Come in “Ballo del
matto”, ispirato alla storia di Franco Mastrogiovanni, o in “Ballo della
pietà”, in cui racconto di un ragazzo ucciso a forza di botte da persone in
divisa. Il contrasto suona strano, ma in qualche modo funziona. Mi piace il fatto di usare un'immagine
antica per parlare di problemi moderni.
A quale pezzo di “Fumo al vento”
ti senti più legato e perché?
Non
sono capace di citare un solo titolo. Alcune di queste canzoni le ho scritte
nel corso di anni e per questo le sento molto intime, come “Foglia morta”,
“Fumo al vento” o “Polvere da sparo”. Queste
canzoni sono davvero “pezzi di me”.
Poi
c'è il “Ballo del matto”, che riscuote sempre successo quando la eseguo dal
vivo ed è una cosa che mi fa molto piacere, perché è una canzone di denuncia
sociale. La prima volta che lessi del caso Mastrogiovanni, che non era affatto un
“matto”, ne rimasi sinceramente sconvolto. Franco è morto durante un
trattamento sanitario obbligatorio, dopo circa novanta ore legato mani e piedi
a un letto di ospedale. La sua è una storia di vera e propria persecuzione. La
canzone ho iniziato a scriverla molto tempo dopo aver letto della sua vicenda.
Mi aveva lasciato dentro un segno profondo, una cosa che a un certo punto ho
dovuto esprimere.
È ancora possibile, oggi,
secondo te, fare della musica una professione a tempo pieno? Fai un bilancio
della tua esperienza di cantautore, tra ostacoli e soddisfazioni.
Le
soddisfazioni e gli ostacoli sono direttamente proporzionali. È molto dura e
per questo ogni singolo complimento, ogni concerto andato bene riempiono il
cuore. Ad ogni modo, farne una professione è divenuto quasi una chimera. Nel
corso degli ultimi venti anni il mercato discografico ha subito un vero
stravolgimento, che, come tutte le crisi economiche, ha acuito le differenze
tra ricchi e poveri, laddove i poveri sono gli attori del mercato indipendente,
non legato alle major.
Personalmente ho scelto la
strada dell'autoproduzione perché non riesco più a vedere grandi vantaggi
nell'avere un contratto con un'etichetta. Produrre un disco è un passo fondamentale nella carriera di
un musicista, ma al tempo stesso è ormai un investimento molto poco conveniente
e questo ha creato tutta una serie di storture. In realtà, l'ultima attività
potenzialmente redditizia per i musicisti è rappresentata dai concerti, ma è
facile essere ghettizzati, ritrovarsi a suonare sempre negli stessi posti. Per
spostarsi oltre i confini ristretti della propria regione senza rimetterci, tra
viaggio, vitto e alloggio, bisogna essere in grado di chiedere cachet elevati.
Insomma, è difficile.
Ma,
nonostante tutto, non sono pessimista. La situazione del mercato discografico è
ben lontana dall'essersi stabilizzata e non è da escludere che col tempo si
configurino scenari migliori. Siamo tutti alla ricerca di nuovi equilibri. Di
sicuro internet ha un ruolo sempre più importante e gli artisti in grado di
usare la rete in modo efficace avranno molte più frecce al loro arco.
A cosa stai lavorando
attualmente? Raccontaci quali sono i tuoi progetti per il futuro.
Sto
facendo promozione all'album. Poi scrivo sul mio blog che, per essere il blog
personale di un musicista, ha buoni riscontri in termini di numero di visite e
ricevo continui apprezzamenti da lettori affezionati Scrivo anche una rubrica fissa sulla rivista LineaTrad. E poi sto lavorando sulla chitarra, che è la cosa
che più mi appassiona, in particolare su diversi arrangiamenti in fingerpicking di balli tradizionali. Sto
scrivendo anche nuove canzoni, ma nel prossimo album ci sarà più spazio per i
brani strumentali. D'altra parte la chitarra acustica sta vivendo un periodo di
popolarità e la comunità di appassionati è in crescita. È molto stimolante
sapere che in un mondo ormai del tutto digitalizzato, sempre più persone si
interessano alla musica acustica.