mercoledì 11 marzo 2020

Tre buone ragioni per… leggere durante la “quarantena”



L’emergenza Coronavirus in Italia è arrivata inaspettata come un temporale estivo, ma non scomparirà altrettanto facilmente. Per questa Pandemia, che ha colpito il nostro Paese più duramente degli altri, scopriranno, senza dubbio, una cura adeguata. Tuttavia, per curare l’animo ferito degli Italiani ci vorrà molto più tempo. Per quanto siamo un popolo energico, noto per l’entusiasmo che, spesso, ci fa mettere da parte i ricordi negativi, per esaltare maggiormente quelli positivi, qualcosa rimarrà marchiato a fuoco nel nostro cuore e, probabilmente, anche nelle nostre abitudini.
Chi ci governa ci ha chiesto coraggio e pazienza nell’affrontare un nemico microscopico e letale come un virus, restando in casa e stravolgendo la nostra esistenza, almeno momentaneamente. Non è facile reagire alla frustrazione continua che risiede nella sensazione di stare perdendo tempo. O meglio, di vedere il nostro tempo passare rimanendo impotenti, senza poterlo impiegare in ciò che più amiamo e che, fino a pochi giorni fa, poteva costituire, perfino, noiosa routine. L’unico modo per affrontare a testa alta le quattro mura della nostra casa è convincerci che ci proteggeranno e che, anche al loro interno, può germogliare la primavera del nostro cuore e del nostro intelletto, sempre più bersagliato dalla frenesia del quotidiano. La ‘cura’ migliore è, senza dubbio, la lettura. Ecco, dunque, le nostre tre buone ragioni per leggere durante la “quarantena” obbligata.

1.      Leggere in “quarantena” è viaggiare con la fantasia, senza uscire di casa. Leggere è il modo migliore di viaggiare, senza bisogno di alzarsi dal divano di casa. Esplorare generi diversi e, magari, tuffarsi indietro, nel passato e in avanti, verso un futuro ancora da scrivere, sono i segreti per non sentirsi rinchiusi e oppressi e non lasciarsi sopraffare dalla noia. Come ogni buona abitudine, leggere fa bene anche al nostro fisico, oltre che alla nostra mente, e sarà un ottimo modo per tenere in esercizio anche la fantasia dei bambini, apprendendo senza fatica.
2.      Leggere in “quarantena” è recuperare i tanti libri lasciati sul comodino. Chissà quanti libri avrà, ciascuno di noi, “parcheggiati” sul proprio comodino e mai finiti o, addirittura, mai iniziati. E ciò per motivi diversi. Chi acquista e legge molti libri, a volte ne lascia indietro qualcuno. Chi legge poco e acquista libri raramente non trova mai le motivazioni giuste per iniziare o finire. Il tempo in casa e l’impossibilità di uscire, anche per acquistare nuovi libri, può far riscoprire il piacere di completare la lettura di quelli lasciati a metà o di iniziarne alcuni mai letti prima.
3.      Leggere in “quarantena” è affacciarci e consolidarci nell’utilizzo dei libri digitali, grazie alla disponibilità di alcuni editori e piattaforme. Anche chi legge molto, a volte, preferisce le edizioni cartacee a quelle digitali. Per quanto il mercato dell’ebook sia stabile nel nostro Paese, la diffidenza dei lettori è sempre troppa. Questo periodo di impossibilità ad uscire, tuttavia, può farci scoprire o consolidare la lettura di libri digitali, anche grazie alla disponibilità di editori e piattaforme che stanno mettendo a disposizione di tutti i lettori una gran quantità di titoli gratuiti o a prezzi irrisori per passare il tempo. Questa forma di lettura sostenibile va favorita e incentivata sempre di più.


mercoledì 12 febbraio 2020

“Castigliego e i tormenti del Papa” di Alessandro Maurizi



Non è Dan Brown, ma, per chi ama i gialli ambientati in Vaticano, è perfino meglio. Si tratta dell’ultimo romanzo di Alessandro Maurizi, “Castigliego e i tormenti del Papa”, Fratelli Frilli Editori, una nuova indagine del commissario italo-spagnolo nato dalla penna dell’autore viterbese.
Dopo il successo di “Roma e figli delmale”, la prima indagine di Castigliego che si dipanava in ambienti ecclesiastici sporchi e corrotti, Alessandro Maurizi è salito di livello e ha catapultato il suo affascinante e irriverente commissario direttamente ai piani alti della gerarchia ecclesiastica.
È proprio con gli ambienti pontifici che Castigliego si ritrova ad avere a che fare questa volta, nel cuore pulsante del Vaticano, durante un conclave segnato da omicidi e fatti di sangue che elegge un pontefice terrorizzato da quanto sta accadendo e che prende il nome di Celestino VI. Probabilmente un omaggio a Dante, per chi ricorda il Celestino V collocato tra gli ignavi infernali dal Sommo Poeta, a causa del cosiddetto gran rifiuto. Celestino VI si ritroverà invischiato nell’avvelenamento di un cardinale durante il conclave, un misterioso incidente che solo Castigliego potrà risolvere.
Il commissario inizierà la sua indagine partendo dalla morte di Freitas, una giornalista indipendente che, grazie a un appunto inquietante trovato tra le sue carte, lo metterà inconsapevolmente sulla strada giusta. Si tratta di una sola misteriosa parola: Sheol. Nell’Antico Testamento, come spiegherà a Castigliego l’amico arcivescovo Delfo Furesi, Sheol è il luogo terrificante e oscuro in cui Dio minaccia di imprigionare gli uomini, senza distinzione alcuna per le loro azioni, buone o cattive.
Un omicidio dopo l’altro, il commissario Castigliego, sempre seguito dalla sua squadra e da un nuovo istrionico aiutante, ma fondamentalmente solo e solitario, si inoltrerà in un’indagine ancora più complessa della precedente, destinata a scoperchiare porte che danno sull’abisso più oscuro, sul quale nessuno vorrebbe affacciarsi.
Alessandro Maurizi è tornato a deliziare i lettori con una nuova avventura del commissario Castigliego che lo candida, sempre più, a essere potenziale protagonista del piccolo schermo, magari con una serie proprio a lui dedicata. Alcuni capitoli e alcune pagine di questo nuovo noir, che strizza sempre più l’occhio al thriller, sembrano scritte apposta per diventare le scene di una sceneggiatura. Lo stesso Castigliego, protagonista indiscusso, ma non invadente sulla solidità della storia in sé, ha decisamente il phisique du role per diventare un grande commissario televisivo: ribelle, ma anche rigoroso. Lasciando da parte queste considerazioni, Alessandro Maurizi ha la capacità di intrecciare reti di personaggi e situazioni in modo magistrale e originale nello stesso tempo, incontrando i gusti di più tipi di lettori e rendendo vividi e verosimili ambienti che hanno fatto grandi altri autori, spesso meno ferrati di lui. Per chi conosce Roma, il Vaticano, la storia e la cronaca di questi luoghi, è quasi come sentirsi a casa. Mentre, per chi è lontano da questi ambienti, è come entrare dalla porta di servizio e diventare protagonisti assoluti della scena, semplicemente leggendo.
Il vero mistero, adesso, è dove si svolgerà la prossima indagine di Castigliego? L’immancabile gatto Salgado, muto testimone di tutte le avventure del commissario dal sangue ispanico e suo unico vero amico, cosa ne penserà? Ma soprattutto, quanto durerà l’attesa per noi lettori, ormai strettamente dipendenti?


mercoledì 15 gennaio 2020

Luana Troncanetti: storie di donne in nero


Di storie di donne non siamo mai sazie. Soprattutto se sono scritte col trasporto che caratterizza lo stile di Luana Troncanetti. Dopo il successo de “I silenzi di Roma”, Fratelli Frilli Editori, Luana Troncanetti ha dimostrato tutta la sua sensibilità con “Gabbie”, una raccolta di racconti autopubblicata che mette insieme storie di “donne in nero”, intrappolate in gabbie, vere o immaginarie, dalle quali faticano a tirarsi fuori.
Miriam, Giorgia, Adalet, Eva e Nunzia sono le cinque protagoniste di altrettante storie che toccano profondamente l’immaginario e la sensibilità del lettore. Chi conosce il talento letterario dell’istrionica autrice, rimarrà piacevolmente colpito, ancora una volta, dalla potenza descrittiva delle sue pagine, nelle quali è facile immedesimarsi. Ciascuno dei personaggi femminili che vivono queste vicende, talvolta crude, è una sfaccettatura letteraria dell’imperscrutabile fragilità delle donne e di tutti i ruoli che ognuna di noi ha nella propria vita.
Questa raccolta di racconti ha un unico vero difetto: è troppo breve per saziare la fame di tutte le lettrici più voraci.


Cinque donne in gabbia che fanno i conti con le sbarre che le imprigionano, fuori e dentro loro stesse: “Gabbie”, una raccolta di racconti auto pubblicata, contiene storie caratterizzate da interessanti spunti di riflessione, che, tra l’altro, hanno vinto premi importanti. Raccontaci la genesi di questo libro: cosa ti ha ispirato durante la stesura? Cosa volevi comunicare?

“Gabbie” è una raccolta auto pubblicata sui generis: in realtà quattro racconti su cinque figurano in antologie cartacee con edizione canonica. È capitato, citando il titolo dell’unico inedito, che qualcuno mi chiedesse di leggere questi scritti. Mi sono detta che in pochi sarebbero stati disposti ad acquistare un’antologia soltanto per me. L’idea, banalissima, è stata quella di radunarli per offrire assaggi della mia penna a un prezzo più che contenuto.
A differenza di Agrodolce, una raccolta pubblicata anni fa con l’Erudita (Giulio Perrone), quando li ho accorpati in un unico file mi sono accorta del fil rouge: donne infilate in una prigione. 
Non restava che ideare un titolo e una copertina che le rappresentasse. Gabbie mi sembrava calzante, così come l’immagine libera da copyright che ho utilizzato per realizzare la cover.
Il messaggio è racchiuso nell’aforisma di Victor Hugo che introduce l’e-book: “L’anima aiuta il corpo e in certi momenti lo solleva. È l’unico uccello che sostenga la sua gabbia.”

Che scrittrice sei? Quando e da dove nasce la tua esigenza di scrivere? Segui l’ispirazione a ogni ora della giornata o hai un metodo collaudato al quale non puoi rinunciare?

La mia attuale esigenza di scrivere mi sorprende. Come sia nata, di colpo, questa voglia di raccontare storie davvero non te lo so dire; il mio sogno sarebbe stato quello di disegnare. Scrivo in modo più o meno sistematico da circa dieci anni, nel caos più totale, “con le scie degli aerei nemici sulla testa.” Così mi diverte definire il mio metodo collaudato.

Miriam, Giorgia, Adalet, Eva, e Nunzia: ecco le cinque donne protagoniste dei racconti noir. Come le definiresti? In generale, come delinei i personaggi delle tue storie e le vicende che li coinvolgono?

Le mie donne sono uccelli senza voce, mi hanno chiesto di raccontare il loro canto nero. Soffocate da precetti e pregiudizi, alcune di loro si macchiano di colpe che pagano senza sconti di pena. Altre, del tutto innocenti, sono tuttavia incarcerate in quella mastodontica balla che una donna, soprattutto se madre, deve farcela sempre. Nessuno, però, la sostiene o le insegna come. Fra le cinque, Eva e Nunzia sono le uniche ad avere figli. Le sole - in ogni possibile accezione - costrette a sporcarsi le mani di sangue. Mi sento male tutte le volte in cui rileggo le loro storie.
Per quanto mi riguarda, nei romanzi è vitale una programmazione degli eventi e una delineazione preventiva dei personaggi. Succede anche nelle duecento pagine che l’idea iniziale assuma risvolti imprevisti, ma è più difficile. La scaletta aiuta a non perdermi e soprattutto a non far smarrire il lettore.
Nei racconti brevi sono i protagonisti che mi raccontano la loro storia. Fino a poco tempo fa avrei sghignazzato all’idea di trasformarmi in una dattilografa. Invece, mi succede questo: anche quando parto da un tema assegnato, e non da un’ispirazione tutta mia, scrivo sotto dettatura. Carmen è un esempio su tutti. Sfora abbondantemente le dieci cartelle, rappresentando in genere la mia dimensione ideale. L’ho buttato giù in un’ora, quasi in trance, senza sapere quale piega avrebbe preso la storia. Era Grazia, la narratrice, che mi diceva tutto. 

Tra Web, selfpublishing e case editrici, gli autori di oggi sono portati, ma anche obbligati, a reinventarsi continuamente. Facciamo un bilancio del tuo percorso di scrittrice, tra difficoltà quotidiane e obiettivi raggiunti. È ancora possibile oggigiorno, secondo te, vivere di scrittura?

È possibile per pochissimi. Anche i più affermati si tengono stretto il lavoro che produce reddito.  Portano avanti il secondo, quello della scrittura, che potrebbe produrne con incognite che spesso prescindono logica e meritocrazia. Mi sembra una scelta saggia ed è così da sempre.  

A cosa stai lavorando attualmente? Svelaci quali sono i tuoi programmi per il futuro.  

Ho quasi terminato di raccogliere la documentazione necessaria a scrivere il sequel de I silenzi di Roma, un noir edito dalla Fratelli Frilli Editori. In questa seconda puntata darò maggior risalto a Paolo Proietti, ispettore capo della squadra mobile sezione omicidi di Roma. Al momento è il coprotagonista del romanzo insieme a Ernesto, tassista e amico fraterno.
Per delineare nel miglior modo possibile le azioni del mio ispettore, sto scomodando due poliziotti e un’avvocata penalista. Ho rallentato di almeno tre mesi l’inizio della stesura, voglio evitare svarioni procedurali o suggestioni al limite del surreale; ho letto in giro di ufficiali di Polizia in servizio attivo che soffrirebbero di attacchi di panico e/o altre patologie invalidanti anche per chi svolge professioni meno complesse. Romanzare è lecito, concedere licenze alla realtà senz’altro possibile. Nonostante ciò, ho preferito frenare i tempi della seconda uscita per offrire una storia che non scalfisca la veridicità e la logica. È un atto di cura dovuto al lettore, anche al meno esigente.
Il secondo progetto richiederà parecchio tempo: si tratta di un romanzo che ho steso di pancia circa tre anni fa. Va ampliato e revisionato in ogni virgola. Non ha un genere specifico, il tema principale è il terremoto. L’argomento mi sta a cuore perché sono di origine marchigiana. Conosco bene, anche se in forma trasversale, lo strazio di chi deve ancora combattere un evento che ha devastato cinque regioni italiane. Racconterò quella più vicina a me per ragioni di sangue, il pensiero abbracciato al dolore di tutte le altre.    
                                                                                                                             


mercoledì 18 dicembre 2019

Blogoriale: a chi interessa ciò che scriviamo?


Non amo inventare parole nuove, perché ritengo che la lingua italiana sia già sufficientemente ricca di sinonimi con sfumature di significato talmente sottili, da diventare quasi “contrari” per chi non ha troppa voglia di comunicare. Tuttavia blogoriale è un termine di mia invenzione che mi martella in testa già da un po’. A metà strada tra un post e un editoriale, il blogoriale è un editoriale a misura di Fatti i fatti tuoi!. Per certi verso un ritorno al passato, quando, parecchie ere digitali fa, i blog erano diari personali in cui si raccontava la propria quotidianità e, a volte, con quel pizzico di supponenza che è propria di chi scrive, si commentava l’attualità, il sentire comune, le storie degli altri.
Mi sono scervellata parecchio su come iniziare questo nuovo percorso. Dopo aver dato voce e volto a tante persone e alle loro storie, guardarsi dentro senza essere prolissi e presuntuosi non è semplice. Ma, tutto sommato, il blog è mio e, almeno ogni tanto, faccio come mi pare. Perché noi scrittori, scribacchini, giornalai, pennivendoli, marchettari, chiamateci come più vi aggrada, ce lo chiediamo spesso (praticamente sempre): a chi interessa ciò che scriviamo?


Anni fa, ancor prima di entrare a far parte del mio ordine professionale, scrivevo per un direttore verso il quale non nutrivo alcuna stima. Un pallone gonfiato, come direbbero in un film americano, senza né arte, né parte, ma con un ego grande come un buco nero. Ricordo che una volta mi commissionò un articolo sulla scrittura, il giornalismo e l’editoria di oggi. Il solito pezzo di colore che non risponde a nessun interrogativo e non dà nessuna notizia, per non scontentare nessuno, più che altro. Mi impegnai, come è mio costume. E mi scavai dentro a fondo. Dopo aver conosciuto e intervistato (già all’epoca) tanti promettenti autori emergenti e piccoli editori volenterosi, qualche conclusione utile e personale potevo trarla. Era un pezzo accorato e forse un filino presuntuoso, lo ammetto volentieri, smanioso di andare dritto al punto e lasciare un segno, proprio come sono io. E, naturalmente, non sortì l’effetto che speravo su Mister Universo Direttore. “A nessuno frega un cazzo della tua opinione, non stai facendo il tema della Maturità,” mi apostrofò, cassando il mio lavoro come quello di una Cappuccetto Rosso che sa a malapena digitare sulla tastiera. Naturalmente mi incazzai. E tanto. Ma abbozzai. Tornai a casa da quella riunione di redazione ferita e allattai mia figlia, anche se, probabilmente, con tutta quell’acidità che avevo in corpo, era più yogurt che latte.
È passato un po’ di tempo da questo episodio e, con un pizzico di esperienza in più, devo amaramente ammettere che Mister Direttore aveva ragione. La dura, durissima verità è che a nessuno importa nulla di ciò che scriviamo. Anche perché, lo avrete letto recentemente, secondo un nuovo rapporto Ocse, gli studenti italiani sono sotto la media non solo per quanto riguarda le scienze, ma anche, e in modo più preoccupante, per quanto concerne la lettura, la letteratura e la comprensione di ciò che leggono. Cioè, non solo leggono poco, schifano i giornali e si informano frammentariamente, ma il più delle volte non capiscono nemmeno quello che leggono. Ergo, se già è difficile digerire frasi con soggetto, predicato e complemento, cosa vuoi che gliene importi ai giovani di sforzarsi di capire cosa pensa quel povero nerd che ha scritto quella cosa o quell’altra? Un Benny Hill Show, con solo risate finte in sottofondo, praticamente. E menomale che l’indagine è stata svolta sui più giovani, sui quali, sempre più spesso, ci fa comodo accanirci, perché temo che i risultati su noi adulti sarebbero davvero allarmanti. Del resto, questi giovani nativi digitali li cresciamo noi che avevamo il telefono a gettoni, ma predichiamo bene e razzoliamo male.


Anche per noi, pseudo-professionisti (o aspiranti tali) della parola scritta non va tanto meglio. Scriviamo gratis o, se va bene, sottopagati. Estremamente sottopagati. Scriviamo sbeffeggiati, insultati, minacciati. Aggrediti, verbalmente e non solo. E se, per portare a casa la pagnotta, scendiamo a compromessi e scriviamo di qualcosa che non è nell’empireo delle materie più nobili (che sono proprio quelle che alla fine nessuno si fila) siamo venduti, mercenari, affabulatori, creatori di fake news che vogliono solo speculare sulla pelle di poveri creduloni. Per non parlare dei luoghi comuni che circolano su chi scrive gialli, rosa o saggi, come se tutto debba essere necessariamente incasellato, classificato, catalogato a tutti i costi.
In questo circolo vizioso di indifferenza non è facile per gli autori credere in ciò in cui scrivono, tanto quanto per i lettori credere in ciò che leggono. E quindi la risposta alla domanda ‘a chi interessa ciò che scriviamo’ non può che essere sconfortante.
Forse non tutti si rivedranno nel quadro che ho descritto e non pretendo certo di avere la formula magica per trasformare in virtuoso questo circolo apparentemente senza fine, ma forse, nel nostro piccolo, un modo per ritrovare un velo di speranza c’è.


Lettori di tutto il mondo, unitevi e, autori, fate altrettanto!
A Natale su dieci regali senz’anima che siete costretti a fare, regalate almeno un libro. O un abbonamento a un giornale, cartaceo o online. Su dieci foto di bambini, gatti, orsetti, nani e pallette di Natale che inviate a ripetizione per fare gli auguri, mandate un link a un articolo che vi ha colpito e spiegate il perché. Su dieci catene di S. Antonio, ‘spero di essere il primo a mandarti un albero di Natale ecc. ecc. spezzate la catena (che tanto tutti siamo sfigati lo stesso) e regalate una citazione, un sonetto, una poesia, l’incipit di un romanzo.
E voi autori, scrittori, blogger, giornalisti, colleghi: su dieci articoli che scrivete sull’ultimo tronista, il gieffino, il naufrago, il morto ammazzato, le accise sulla benzina, i presepi e i crocefissi (e, vi assicuro, lo faccio anche io!), scrivete un articolo che vi tocca nel profondo. In cui dite davvero la vostra. Anche se, di ciò che pensate, non gliene frega niente a nessuno. Magari non cambia niente, ma cambia voi. Cambia noi.
A Natale regalate parole che diventano fatti. A voi e famiglia, naturalmente.

mercoledì 20 novembre 2019

Toy Story 4: un inno alle imperfezioni e alle seconde possibilità



Quando Pixar e Disney sono diventati una cosa sola, in molti hanno storto il naso. Vuoi mettere questi personaggi computerizzati coi cartoni di una volta, quelli fatti a mano, alla vecchia maniera? In effetti è stata la fine di un’epoca, ma anche l’inizio di una nuova era e oggi quei protagonisti frutto di una nuova tecnologia che sembravano un po’ freddi rispetto a Pinocchio, Mago Merlino e Biancaneve, sono entrati nel cuore e nell’immaginario di un’intera generazione di giovani adulti, segnandone i ricordi di un’infanzia felice.


Quando lo sceriffo Woody e lo space ranger Buzz hanno fatto il loro ingresso nei cinema e poi nelle camerette dei bambini di mezzo mondo era il lontano 1995 e le loro avventure sono state le prime interamente realizzate in computer grafica. Dopo Toy Story – Il mondo dei giocattoli, ci sono stati Toy Story 2 – Woody e Buzz alla riscossa nel 1999, Toy Story 3 – La grande fuga nel 2010 e, la scorsa estate, Toy Story 4, appena uscito in DVD, ha messo (forse) fine alla quadrilogia Disney-Pixar più amata degli ultimi vent’anni con un ultimo capolavoro di animazione e contenuti particolarmente profondi, non solo per i bambini, ma anche per i loro genitori e per gli adulti in generale. Si tratta di un film d’animazione d’eccellenza nel quale l’unica cosa di cui si sente la mancanza è la voce di Fabrizio Frizzi, che, nei precedenti cartoni, ha doppiato lo sceriffo Woody con grande simpatia e tenerezza.
Ma facciamo un piccolo passo indietro, per chi non ricordasse cosa è accaduto nei primi capitoli della saga. Nel primo film Woody, un giocattolo vecchia maniera, è il preferito del piccolo Andy e governa, a suo modo, il colorato microcosmo della cameretta del suo bimbo. Tutto sembra filare liscio, almeno finché non arriva un giocattolo di nuova generazione: lo space ranger Buzz Lightyear che ben presto “spodesta” Woody dal suo ruolo di favorito e di punto di riferimento di tutti gli altri giochi. Tra i due balocchi c’è un’accesa rivalità, ma una serie di peripezie alquanto pericolose, li porteranno a ricredersi l’uno sul conto dell’altro, fino a stringere una forte amicizia che li vedrà uniti al fianco del piccolo Andy il quale, ignaro della prorompente vitalità dei suoi giocattoli preferiti, cresce felice e spensierato.


Nel secondo film, l’armonia sembra essere tornata, ma, mentre sta giocando con Andy, a Woody si scuce un braccio. Per errore Woody finisce in un mercatino di quartiere dove, una volta ogni tanto, vengono venduti o donati tutti i vecchi giocattoli rotti o ormai in disuso. Buzz e il suo seguito, però, non hanno nessuna intenzione di abbandonare l’amico sceriffo e lo recuperano a casa di un collezionista che lo ha acquistato per venderlo, assieme a nuovi personaggi come Jessie la cowgirl, a un museo in Giappone. Ma cosa è più importante: essere ammirati dai bambini di tutto il mondo o vederne crescere solo uno che amiamo incondizionatamente, anche quando il gioco della vita ci mette a dura prova? All’inizio Woody è confuso, ma ben presto troverà dentro di sé la risposta a questa domanda e tornerà alla sua vita di sempre, assieme a tutti i suoi amici.
Nel terzo film, Andy è ormai cresciuto e sta per andare al College, ma ancora non si è deciso a “sbarazzarsi” dei suoi giocattoli preferiti che tiene chiusi in un baule in camera sua. Woody, Buzz e gli altri vivono nella speranza che Andy non li regali, ma per errore, invece di essere portati in soffitta, finiscono tutti nello scatolone destinato a essere donato all’asilo di Sunnyside. Lì Woody, Buzz e tutti gli altri (a esclusione della pastorella Bo Peep alla quale Woody era molto legato e che, in questo terzo episodio, sembra essere stata data via da tempo) scopriranno quanto è difficile la vita di un giocattolo che non ha un solo “padrone”, ma deve essere condiviso da tanti bambini. Alla fine i nostri coraggiosi eroi di plastica, pezza e batterie riescono a ricongiungersi al non più piccolo Andy il quale, ormai pronto per diventare adulto, decide di donarli a una bambina di nome Bonnie permettendo a tutti di ricominciare una nuova vita.


In Toy Story 4 la storia riprende da dove si era interrotta quasi dieci anni prima, ma con una prospettiva decisamente capovolta rispetto al passato: mentre tutti gli altri giocattoli, Buzz e Jessie compresi, sembrano essere stati accolti dalla piccola Bonnie con grande entusiasmo, Woody viene sempre lasciato da parte e non è più il giocattolo preferito che era abituato a essere. Nonostante ciò, la sua coscienza di giocattolo lo porta a preoccuparsi continuamente del benessere della sua bambina, proprio come faceva col suo amato Andy. Quando Bonnie, durante una giornata di orientamento all’asilo, costruisce un giocattolo con una forchettina di plastica che sarebbe dovuta finire nella spazzatura, Woody prende subito a cuore il nuovo arrivato, che non si sente affatto un balocco, perché lo sceriffo si rende conto della grande importanza che questo giocattolo sui generis ha per la bambina. Durante un viaggio in camper prima dell’inizio della scuola, Woody avrà un bel da fare col ribattezzato e disubbidiente Forky e, tra mille peripezie, in un vecchio negozio di antiquariato e giocattoli antichi incontrerà di nuovo la sua amata Bo Peep che, stufa di passare il tempo sugli scaffali del polveroso negozio, è fuggita assieme a una variopinta banda di giocattoli smarriti e ha iniziato una nuova avventurosa esistenza. Bo Peep non è più la perspicace pastorella di un tempo, ma è diventata un’indomita avventuriera che conserva nel cuore i ricordi della sua bambina Molly, la sorellina di Andy, ma sa che il mondo è tanto grande e così pieno di bambini, che non vale la pena di lasciarsi andare alla malinconia, come fa sempre Woody. In fondo non si sente anche lui profondamente “smarrito” negli ultimi tempi? Cosa deciderà Woody per il suo futuro: tornerà dalla piccola Bonnie, come gli suggerisce la sua coscienza di giocattolo, per cui è inconcepibile non avere un bambino speciale di cui prendersi cura, o seguirà il suo cuore che lo vorrebbe accanto a Bo Peep in cerca di nuove avventure e di una seconda possibilità, anche se ciò significa dire addio agli amici di sempre?


Non ho nessuna intenzione di rivelarvi il finale nient’affatto scontato, ma posso dire che in Toy Story 4 ho trovato più spunti di riflessione adatti a tutte le età, rispetto a tanti film ideati per noi “grandi” e che si prendono decisamente troppo sul serio in quanto a valori morali e via dicendo.
Toy Story 4 è un film sull’importanza delle seconde possibilità e sulla capacità di reinventarsi sempre davanti ai colpi di scena della vita. È un film che dimostra come non occorra affatto essere perfetti, anche in una società che ci vuole sempre “nuovi” e invincibili. È un film che racconta come nella vita quotidiana ci si possa “smarrire”, ma poi tornare a essere se stessi più di prima, affrontando ogni genere di cambiamento e scoprendo di possedere virtù e qualità che non si pensava di avere. È un film che spiega ai più piccoli come uscire dalla propria comfort zone possa mettere paura all’inizio, ma possa anche essere una splendida avventura che non ci negherà il conforto dei bei ricordi, aiutandoci, invece, a costruirne di nuovi, giorno dopo giorno, perché, come diceva qualcuno: “non è finita, finché non è finita” e i bambini queste cose le capiscono istintivamente, per fortuna.
Personalmente ho visto questo film per la prima volta con mia figlia in una mattinata di pioggia e di febbre e ho versato qualche lacrimuccia, ripensando alla prima volta che ho visto il primo capitolo della saga, quando la bambina con la febbre ero io. “Perché piangi, mamma?”, mi ha domandato mia figlia (tre primavere non ancora compiute). “Perché questo cartone animato è molto bello e, a volte, anche le cose belle fanno piangere,” le ho risposto, senza convincerla fino in fondo.


In fin dei conti noi genitori abbiamo una cosa in comune con tutti i giocattoli (solo apparentemente senz’anima) che ci affanniamo ad acquistare per rendere sempre più felici e curiosi i nostri figli: veder crescere i nostri bambini è tra le avventure più speciali che possiamo vivere nella nostra vita, anche se siamo ben consapevoli che significherà vederli andare via per sempre, prima o poi. Ma ciò non deve impedirci di essere sempre noi stessi, coi nostri pregi e difetti di adulti che, per essere veramente felici, devono cercare di non dimenticare mai quanto sia bello essere bambini.


mercoledì 6 novembre 2019

"I silenzi di Roma" di Luana Troncanetti. La prima indagine dell’ispettore Proietti



Capelli ricci e lunghi, barba incolta, naso aquilino. Abbigliamento trasandato, occhiali alla Serpico e una cicatrice sulla guancia, a memoria del fatto che quello dello sbirro è un duro lavoro, ma, come si dice, “qualcuno deve pur farlo”. Paolo Proietti è l’ispettore capo della sezione omicidi di Roma ed è uno che la divisa e la sua città ce l’ha nel sangue. È solo la sua prima indagine, ma al lettore sembra di conoscerlo da sempre, sin dalle primissime pagine di “I silenzi di Roma”, il nuovo romanzo di Luana Troncanetti, edito da Fratelli Frilli Editori.
Quando un artista di fama internazionale viene trovato morto nel suo appartamento, trucidato in modo brutale, Proietti capisce subito che sarà un’indagine spinosa e complessa, destinata a scoperchiare ambienti celati dietro maschere di convenienza difficili da sradicare. Ma ciò che scopre pian piano, indizio dopo indizio, lo lascia persino più sconvolto e disgustato di quel che vorrebbe ammettere. Proietti sa bene cosa significa lasciarsi coinvolgere troppo personalmente da un caso, come gli è già accaduto in passato, e non vuole che nuovi incubi si sommino a quelli che ancora lo tormentano a causa di un’indagine vecchia di quindici anni, ma quando si rende conto che nell’omicidio dello scultore è stranamente implicato il suo amico fraterno Ernesto, sa che il loro precario equilibrio è destinato a crollare, come un castello di sabbia travolto da onde di burrasca. Paolo ed Ernesto, fratelli non di sangue, ma di spirito, e legati da una lunga e profonda amicizia, nata sui banchi di scuola e cresciuta insieme a loro, saranno costretti a scavare fin troppo a fondo nelle loro anime, aprendo un abisso di dolore difficile da sostenere. A tutto ciò si mescola, capitolo dopo capitolo, la scoperta del malaffare legato all’omicidio dell’artista, conducendo Proietti nelle viscere di una Roma omertosa e ostinata, alla ricerca di una giustizia troppo spesso frettolosa e crudele, che non dà pace, né verità, né alle vittime, né agli innocenti e sembra far perdere l’ispettore in un labirinto di malvagità dal quale sarà difficile venir fuori senza aver definitivamente perso una parte importante del suo cuore.


Se amate le storie nere in cui l’umorismo, talvolta macabro, tiene ancora più alta la tensione, senza negare al lettore un amaro e sardonico sorriso, lo stile tagliente di Luana Troncanetti sarà una tra le sorprese più piacevoli di quest’anno. Diretta, a tratti persino cruda, Luana Troncanetti non ci risparmia nulla, né nei dialoghi, né nelle descrizioni, svelando, in modo estremamente credibile, i segreti più inconfessabili di una Roma complice e muta testimone di tanta violenza, fisica e morale. Una Capitale sporca, dentro e fuori, in cui forze dell’ordine e criminalità troppo spesso devono sporcarsi le mani degli stessi maleodoranti liquami per comprendersi, capirsi e combattersi reciprocamente.
Come alcuni dei suoi predecessori di carta, tra ironia e demoni interiori, Proietti entra a gamba tesa tra gli ispettori destinati a marchiare a fuoco la fantasia dei lettori, perché già da questa prima indagine, la sua creatrice lo mette profondamente in discussione, come autrice e, forse anche come donna, ammantandolo di grande fascino e personalità. Non ci resta che augurarci che questa sia solo la prima di una lunga serie di avventure e disavventure per l’ispettore Paolo Proietti e che magari, indagine dopo indagine, si affianchi a lui un personaggio femminile altrettanto forte, in grado di tenergli davvero testa, perché sarebbe interessante esplorare tutte le dinamiche possibili in merito. E, bisogna ammetterlo, le “candidate” non mancano…   


mercoledì 23 ottobre 2019

Cristiano Ranalletta: il ‘mio’ cielo sopra il Pigneto



È impulsivo, ruvido, graffiante, e nel suo stile, tagliente e poetico al tempo stesso, c’è un ritratto della Roma di oggi, caotica e inafferrabile, eppure mollemente lenta e sempre capace di sopravvivere a se stessa con l’imperturbabilità imperiale che la contraddistingue da secoli. Stiamo parlando di Cristiano Ranalletta e del suo ultimo romanzo, “Il cielo sopra il Pigneto”, edito da Scatole Parlanti.
Che Cristiano Ranalletta sia un osservatore vorace e attento della realtà che lo circonda è evidente sin dalle prime righe di questa nuova storia in cui Federico, il protagonista, guida il lettore attraverso un viaggio ai confini tra la vita vera e quella virtuale, descrivendo la Roma in cui ha vissuto e continua a vivere con grande senso di appartenenza. La goliardia, il multiculturalismo, la furbizia, ma anche la ferocia e la diffidenza si miscelano attraverso lo sguardo di Federico e di tutti i personaggi che incontrerà nel suo cammino, in un percorso di vita che ha come denominatore comune l’amore e, in un certo senso, la ricerca della felicità e della realizzazione.
Con una lucidità e un realismo tali da rasentare quasi il senso di alienazione, Cristiano Ranalletta ripercorre strade e quartieri già esplorati in passato, in molti modi differenti, da tanti scrittori e registi, mantenendo ben salda la cifra della propria personalità letteraria e lasciando tenere il timone ai suoi personaggi, talvolta variegati e allegri, talaltra malinconici e distanti tra loro, come isole dentro la città.
La modernità con cui quartieri come il Pigneto e Tor Pignattara vengono raccontati attraverso le peripezie di vita quotidiana dei protagonisti, mantiene in sé l’ammaliante afflato di un film in bianco e nero, senza perdere la freschezza dell’originalità tanto ricercata, descrizione dopo descrizione, riflessione dopo riflessione, dialogo dopo dialogo.


Molti autori lo hanno già fatto in passato, ma anche tu sei riuscito a trasformare, con grande originalità, la città di Roma e, in particolare, il Pigneto, in un vero e proprio personaggio, che interagisce con tutti gli altri presenti nel tuo ultimo romanzo, “Il cielo sopra il Pigneto”, Scatole Parlanti. Raccontaci la genesi di questo libro: cosa ti ha ispirato durante la stesura? Cosa volevi comunicare?

Be’, intanto grazie.  In quello che ho scritto c’è molto vissuto, c’è tensione, emotività.
Il romanzo fonde un percorso individuale, esistenziale e amoroso, con uno collettivo, socioculturale. Due filoni disgiunti che però si sono amalgamati creando una duplice suggestione. È stato prevalentemente il mio stomaco a dettarmi il testo, riga per riga. Da anni ruotavo attorno a quei temi (inclusi quelli esistenziali: la felicità, l’amore), poi come per magia hanno preso forma.

Che scrittore sei? Da dove nasce la tua esigenza di scrivere? Segui l’ispirazione in ogni momento della giornata o hai un metodo ben preciso al quale non sai rinunciare?

Non scrivo quasi nulla durante il giorno. Penso, raccolgo materiale dalla strada o dal vissuto lo integro con delle riflessioni più accademiche, poi a un certo punto lo stomaco mi dice che ci siamo. A quel punto scrivo di getto.

Roma, Tor Pignattara e il Pigneto, in particolare, sembrano proprio “respirare” autonomamente tra le pagine del tuo romanzo, facendo da sfondo alle vite di un caleidoscopio di personaggi che intrecciano le proprie diversità, facendosi forza nelle rispettive identità. In generale come delinei i personaggi delle tue storie e le vicende che li coinvolgono? E come si fa a trasformare una città complessa come Roma in un vero e proprio personaggio?

In generale mi rifaccio molto alla realtà nella creazione dei personaggi. O quantomeno nel caso specifico del romanzo “Il cielo sopra il Pigneto”. La realtà che vivo non ha nulla da invidiare alla più fervida immaginazione. Osservo molto.
Il mio è stato un atto di amore nei confronti del territorio, da qui probabilmente la trasformazione in personaggio. Ad ogni modo, penso che Roma si presti molto bene, Pasolini riusciva magnificamente in questo.

Per saper scrivere bene, occorre senza dubbio leggere molto: che libro c’è al momento sul tuo comodino? Quali sono le tue autrici e i tuoi autori di riferimento? Cosa chiederesti a una o uno di loro, se avessi la possibilità di incontrarlo, in un’immaginaria chiacchierata tra il tempo e lo spazio?

Recentemente ho incontrato Michael Cunningham, abbiamo fatto una amabile chiacchierata.
In questo momento sto leggendo un romanzo di Guillermo Arriaga, apprezzai molto la trilogia di Alejandro Inarritu, per la quale Arriaga curò la sceneggiatura. Adoro Philip Roth. Ho amato Milan Kundera.
Vedi, io sono un ingegnere. Ho passato anni a leggere teoremi matematici complicatissimi. Ho cercato di farmi una cultura quasi da autodidatta.
Probabilmente avrei desiderato fare due passi con Pasolini per il Pigneto. Ma non ho una particolare smania di incontrare gli autori. L’unica persona che avrei voluto incontrare dell’ecosistema artistico è Marcello Mastroianni. Avrei voluto mangiare insieme a lui una pasta e fagioli in una vecchia trattoria romana. Godermi la sua bulimia di vita, la sua fragilità, la sua cortesia.

A cosa stai lavorando attualmente? Svelaci quali sono i tuoi progetti per il futuro.

Ci sono diversi temi che mi frullano in testa: l’evanescenza dei desideri, la post verità e ancora l’amore, questo sentimento sublime che tenta di adeguarsi ai tempi delle piattaforme social, con conseguenze tragicomiche. 


mercoledì 9 ottobre 2019

Imma Tataranni non è Montalbano (al femminile)


Dopo un’intera estate di promo che ce l’hanno mostrata appollaiata sul suo galleggiante gonfiabile a forma di ananas nel mezzo di un mare calmo e turchese, lo scorso 22 settembre ha fatto il suo esordio Imma Tataranni – Sostituto Procuratore, la nuova fiction targata Rai Uno che ha ufficialmente aperto l’autunno delle prime serate del servizio pubblico dedicate alla serialità nostrana.
Sarà stata la recente scomparsa di Andrea Camilleri, seguita, poco dopo, da quella di Alberto Sironi, fatto sta che, neanche erano finiti i titoli di testa della prima puntata, gran parte della critica e dei telespettatori hanno sentito il bisogno di accostare la rossa dal tacco dodici al commissario più amato dagli italiani (ma un po’ meno da certi Direttori).
Prima di farci un’idea tutta nostra, abbiamo voluto seguire le avventure della Tataranni televisiva per qualche settimana e, soffermandoci unicamente sulle trasposizioni Tv, siamo giunti alla conclusione che la Tataranni non è un Montalbano al femminile, né, tantomeno, femminista. E, probabilmente, sia Camilleri, sia Sironi, se potessero, si farebbero una bella risata su tutta questa faccenda.


Che per affezionare e affezionarsi sia utile fare accostamenti di cuore e di pancia, ne siamo abbastanza certi, ma, almeno in seconda battuta, è bene fare riflessioni più profonde. Innanzitutto la Tataranni è donna. E non è una semplice evidenza, ma una piacevole novità anche per la rete ammiraglia della Rai che, nella sua fiction degli ultimi anni, non ha donne per protagoniste (se escludiamo quelle col velo e i voti perpetui), ma sono come comprimarie, spalle o gregarie atte al lancio di ruoli maschili. La Tataranni è donna, lavoratrice (e che lavoratrice!), moglie, madre e… faticosamente nuora. Tutti ruoli che spiccano a trecentosessanta gradi, alternandosi tra i ritmi della narrazione, che passa piacevolmente dal mistero da risolvere, alle esilaranti peripezie della vita quotidiana. Montalbano non solo è un uomo, ma è interamente circondato da una squadra di collaboratori uomini. Inoltre, come accade generalmente, in molte storie del Maestro le donne hanno ruoli e personalità quasi favolistiche, dalla femme fatale che mette tutti al tappeto, alla giovane innocente siciliana di una volta, col vestitino a fiori e i boccoli neri. Imma, dal canto suo, è moderna, testarda, meticolosa, con una memoria di ferro e un’abilità unica nel seguire e far seguire le regole, senza mai abbassare il capo di fronte alle gerarchie e ai potenti. Mariolina Venezia, la sua mamma letteraria, che, dopo i romanzi, ha contribuito a scrivere anche la sceneggiatura della fiction, si è battuta affinché la trasposizione televisiva della sua Tataranni non la trasformasse in una macchietta, più isteria che intelletto e ci è riuscita alla grande, perché la Tataranni tiene incollati allo schermo. Fa ridere, fa commuovere, fa riflettere. E se te ne perdi qualche dettaglio, hai persino voglia di riguardarla in streaming, perché quel sottile filo conduttore che lega ogni episodio al successivo, praticamente impercettibile in Montalbano, è intrigante e stimolante. Tra un caso e l’altro, Imma sa di essere una madre ingombrante, ma ciò non le impedisce di restare se stessa, invadente, ma anche protettiva. E le occhiate che riserva al giovane e bel carabiniere Calogiuri sono spassose tanto quanto la tenera sintonia che la lega a quel tesoro di marito che ha, Pietro, sempre pronto a mettere pace e freno, ma solo quando serve, alla sua esuberanza.


Imma Tataranni – Sostituto Procuratore è un raffinato e divertente gioco di equilibri, sullo sfondo di una Matera scintillante e cupa nello stesso tempo, e, a coronare questo gran lavoro di fino, c’è il talento di Vanessa Scalera, un volto poco noto sul piccolo schermo Rai che ha decisamente bisogno di facce nuove in questo senso.
Se c’è una cosa che accomuna Salvo Montalbano e Immacolata Tataranni è il senso del dovere e dello Stato, che si può e si deve trasmettere a chi guarda la Tv, anche attraverso le narrazioni di fantasia, e la capacità di entrambi questi personaggi, prestati dalla carta, di aprire uno spaccato sulla complessa e complicata giustizia italiana.

mercoledì 25 settembre 2019

“Prova d’innocenza” di James Patterson con Andrew Gross



Ned Kelly si chiama come il fuorilegge australiano che, nell’Ottocento, tenne col fiato sospeso la colonia britannica di Victoria durante una ribellione, ma in realtà è un bravo ragazzo e ha ben poco a che vedere col suo turbolento omonimo d’oltreoceano.
Infatti Ned, protagonista del nuovo thriller di James Patterson, “Prova d’innocenza”, scritto a quattro mani col collaudato coautore Andrew Gross ed edito da Tre60, è cresciuto a Brockton e ha un passato costellato di cattive amicizie, ma ha cercato di riscattarsi in ogni modo nella vita e, da quando lavora in un lussuoso resort di Palm Beach come tuttofare e bagnino, ha deciso di rigare dritto.
Tuttavia, quando a Ned si presenta l’occasione di mettere a segno il cosiddetto “colpo perfetto”, assieme ai vecchi compagni di merende, non riesce proprio a dire di no, perché da quando ha conosciuto la raffinata e bellissima australiana Tess, e ha ceduto alla passione, vuole che tutto sia perfetto e che la vita continui a sorridergli, anche dal punto di vista economico. Ma quante probabilità ci sono che, proprio nello stesso giorno, il colpo della vita vada storto, tutti gli amici e complici vengano fatti fuori e la donna amata venga assassinata nella vasca da bagno da un brutto ceffo? Ned non può credere a quanto gli sta accadendo: dalle stelle alle stalle in una manciata di ore. Mentre tutto sembra essere contro di lui e l’FBI gli sta alle costole come unico potenziale colpevole, Ned è costretto a ricorrere all’aiuto di Ellie Shurtleff, uno scricciolo di un metro e sessanta con spesse lenti di tartaruga che tutto sembra, fuorché un agente scelto dell’FBI, ma in realtà ha la mira di un cecchino ed è l’unica disposta a credergli e a infrangere qualche regola per aiutarlo.
La capacità di James Patterson, e di tutti i suoi coautori, di teletrasportare letteralmente il lettore nelle città degli U.S.A. in cui ambienta le proprie storie è unica al mondo. Basta leggere l’incipit per sentire il cuore a stelle e strisce. Non a caso è il più venduto di tutti. Coi suoi capitoli brevissimi e lo stile veloce e diretto, quasi come si trattasse di una sceneggiatura, ma anche in grado di digressioni narrative puntuali e mai banali, Patterson riesce a dare vita a personaggi ai quali è facile affezionarsi immediatamente, come quando si guarda un film o una serie Tv. La sua abilità nel focalizzarsi su un genere, senza mai perdere di vista la propria impronta stilistica sempre frizzante e la commistione necessaria a dare corpo alle varie vicende, lo rendono non solo un maestro del thriller, ma anche un autore in grado di spaziare tra molteplici generi, come ha dimostrato dedicandosi alternativamente al rosa e alla letteratura per ragazzi con grandissimo successo su scala mondiale.
L’azione e la tensione, anche erotica, che si innesca tra i due protagonisti, rende la risoluzione del mistero e la ricerca della verità non solo emozionante, ma anche divertente, in una miscela esplosiva che vede bene e male mischiarsi continuamente, fino a cambiare per sempre la vita di Ned ed Ellie.


mercoledì 11 settembre 2019

Tre buone ragioni per… annoiarsi una volta ogni tanto



In un mondo sempre più frenetico, nel quale chi non è continuamente “connesso”, impegnato e, possibilmente, felice ed euforico, rischia di sentirsi isolato e messo da parte, quello di annoiarsi sta diventando quasi un lusso senza prezzo.
Molti esperti, soprattutto per quanto riguarda il mondo dell’infanzia, lo definiscono “diritto alla noia”, affermando che in quel “niente da fare” è celata, in realtà, la scoperta di noi stessi, grandi e piccini, sottratti all’iperstimolo della tecnologia. La “noia”, inoltre, incoraggia la fantasia, la creatività, l’introspezione e, perfino, il problem solving.
Ecco, dunque, le nostre tre buone ragioni per annoiarsi una volta ogni tanto.

1.      Noia come solitudine. Stare soli è difficile e spesso spaventa tutti per i “vuoti emotivi” che rischia di aprire. Ma cerchiamo di guardare il lato positivo: la solitudine è tempo totalmente dedicato a noi stessi e può significare riposo, relax, ma anche stimolo all’autonomia, all’indipendenza e alla capacità di reinventarsi quando necessario.
2.      Noia come fantasia. Nulla come la noia ci permette di vivere il “qui e ora”, lasciandoci trasportare dalla fantasia, senza perdere niente della realtà del presente. E, si sa, l’immaginazione è portatrice di creatività, di nuove idee e di nuovi obiettivi, oltre che di desiderio di infrangere i propri limiti, uscendo dalla propria comfort zone.
3.      Noia come leadership. Chi pensa che annoiarsi sia da sfigati, si prepari a cambiare idea. La prima regola per essere un buon leader è la capacità di saper prendere decisioni e chi è in grado di “mettersi in moto dopo essere stato fermo”, esercitando il proprio libero arbitrio senza timore, sarà più pronto e più coraggioso nel fare altrettanto in contesti di gruppo in cui prendere decisioni significa anche assumersi responsabilità per il benessere altrui.