Lo abbiamo letto tutti, in antologia o per
intero. Alla scuola primaria o secondaria, quella che, ai nostri tempi, si
chiamava scuola elementare e media. Soprattutto noi bambini nati e cresciuti in
città, abituati alla frenesia e al cemento, ci siamo domandati come quel buffo
signore un po’ malinconico e sfortunato, potesse sentirsi così fuori posto tra
le vie e i palazzi di una metropoli nascente. Si tratta di “Marcovaldo”, il classico per ragazzi
di Italo Calvino, un testo composto
da una ventina di novelle che hanno tutte per protagonista uno strano uomo di
nome Marcovaldo, padre di una famiglia numerosa, che è impiegato come operaio
tuttofare in una ditta e che, nello scorrere delle stagioni, va in cerca della
natura, anche in mezzo all’asfalto della città dove vive, come lo descrive il
suo stesso creatore.
Può sembrare anacronistico e terribilmente
fuori dal tempo, ma questo personaggio a tratti onirico, a tratti ingenuo,
protagonista di fiabe che, a oltre
cinquant’anni dalla loro stesura, potrebbero non essere più così moderne, in
realtà mantiene intatta un’attualità intrinseca, capace di ispirare non solo i
bambini, ma anche i loro genitori, i loro maestri, i loro vicini di casa, tutti
gli adulti che li circondano.
Cosa è cambiato, infatti, tra le
prepotenti città degli anni Sessanta, figlie del boom economico e dei gas di
scarico, e le stanche metropoli di oggi, fatte di domeniche ecologiche e
parcheggi selvaggi infrasettimanali? Quasi nulla o ben poco.
Penso alla mia Roma e al parchetto del mio quartiere nel quale ho riletto
“Marcovaldo” con mia figlia, ora che ho superato i trent’anni. E penso che i
gabbiani che affollano la città anche in centro e aggrediscono i turisti,
rubando famelicamente loro il panino col salame, non sono poi così diversi
dagli stormi di piccioni che Marcovaldo e i suoi sei figli decidono di
arrostire sul fuoco per il pranzo della domenica. Continuando di questo passo,
in una città come Roma, diventata quasi ingestibile, e nella quale è difficile
perfino rinnovare una carta d’identità senza fare mesi di fila all’anagrafe per
un appuntamento, i gabbiani farebbero meglio a iniziare ad avere paura, perché presto
potrebbero fare la fine dei piccioni di Marcovaldo e finire nei piatti di noi
trentenni precari.
Penso al neopensionato che, mentre noi
leggevamo il nostro libro, tentava di trovare qualche ciuffo di cicoria tra le
cacche dei cani del parco, perché è in attesa che gli accreditino la sua sudata
e meritata pensione da sei mesi, ma l’Istituto previdenziale se la prende
comoda coi calcoli. E penso che non è molto diverso da Marcovaldo e da tutti i
suoi vicini di casa che, dopo una notte di pioggia, raccolgono i funghi nati
nelle aiuole della via e ne fanno una bella zuppa, salvo poi passare una
settimana in ospedale, una lavanda gastrica dopo l’altra.
Penso alla neve a Roma di quest’anno che
se ne sta andando e a quella cataclismica mattinata in cui pochi centimetri di coltre
bianca sono stati nuovamente in grado di paralizzare una città, come uno
Tsunami di ghiaccio, tra alberi caduti, asfalto disastrato e spargisale
inesistenti. E penso al povero Marcovaldo che nella neve in città vede una
speranza. La speranza di veder scomparire, almeno per un giorno, il suo
tran-tran giornaliero, ma, nonostante tutto, si reca al lavoro a piedi,
esattamente come hanno fatto molti romani lo scorso febbraio, perché alla ditta
non importa nulla della neve e della città disorganizzata e colta di sorpresa,
anche oggi.
Penso a Marcovaldo mascherato da Babbo
Natale e costretto, assieme a decine di altri Babbi Natale, a portare strenne a
tutti i clienti della ditta per cui lavora e ai bambini disincantati che li
ricevono, perdendo interesse a ogni nuovo Babbo Natale che passa loro davanti.
E penso alle mamme di oggi che si azzuffano per prendere il posto migliore alla
recita di Natale dei loro figli, fino ad arrivare alle mani per guardarli
meglio attraverso lo schermo di uno smartphone, un’invenzione alla quale il
povero Marcovaldo probabilmente non avrebbe retto. E me lo immagino oggi,
vecchio vecchio, un po’ più svampito del solito, con tanti nipotini che
ascoltano Sfera Ebbasta, a cercare di capirci qualcosa del Governo
giallo-verde, convinto che abbia qualcosa a che vedere con la botanica.
Il progresso ci porta avanti, ma, allo
stesso tempo, ci porta indietro, anche oggi. Ci apre la mente, abbattendo muri
e frontiere, ma, allo stesso tempo, ci imprigiona in celle dorate o
trasparenti, senza più vicini di casa di cui fidarci e con amici lontani, quelli
della nostra generazione confusa, quelli con cui abbiamo letto “Marcovaldo” per
la prima volta e che ora sono sparsi per il mondo a cercare fortuna, lontano
dal loro Paese, in altre città più grandi, fredde
e voraci, ma forse anche più accoglienti.
Rileggere “Marcovaldo” a trent’anni
(passati), nella recente edizione Mondadori,
arricchita dalle illustrazioni di Sto-Sergio Tofano,
è stato commovente. Un’oasi nel deserto della mente, proprio come la natura
nella città. Non solo una questione d’ambiente, ma di natura umana a tutto tondo. Liberate dall’analisi del testo e dagli
esercizi di grammatica della scuola, vent’anni dopo i doveri dei banchi, le
avventure e disavventure di questo Charlie Chaplin di carta, che oggi forse è
più vicino al Fantozzi di Paolo Villaggio, che allo Charlot in bianco e nero
dei nostri genitori, mi ha suscitato una tenerezza struggente. Oggi che l’ho letto
con gli occhi degli adulti, lavoratori, magari faticosamente genitori, il
povero Marcovaldo vorrei abbracciarlo e dirgli che andrà tutto bene. Che forse
le cose non cambiano, ma noi possiamo
(ancora) cambiare le cose. Anche
rileggendo un buon libro per bambini.
Dall’acquerello, alla creta, passando per
la grafite, sono molte le tecniche che caratterizzano le opere di Tiziana Bartolini, artista di punta e
anche curatrice di esposizioni all’interno della neonata Associazione “RBN
Arte” di Mauro Rubini. Dopo una lunga amicizia e precedenti collaborazioni,
infatti, da quando è stato inaugurato il nuovissimo “Spazio I.DE.A.”, Tiziana
Bartolini è stata tra le maggiori promotrici delle mostre che si sono tenute
all’interno della galleria e che l’hanno sempre vista come protagonista, sia
come artista, sia come organizzatrice. Il suo percorso come artista, tuttavia, è
iniziato già ai tempi delle scuole, con un felice percorso al Liceo Artistico
e, successivamente, una Laurea in Architettura, studi che evidenziano il suo
desiderio di essere circondata dall’arte in ogni momento della vita.
L’espressività e la delicatezza delle sue opere che non hanno mai perso la
creatività e l’entusiasmo dei primi passi, guadagnando, però, di volta in volta
in padronanza delle tecniche e dei materiali, rappresentano il suo entusiasmo e
il suo ottimismo, oltre a una profonda capacità di osservazione. La sua
sensibilità di artista, propensa a catturare aspetti sempre nuovi anche di soggetti
ormai emblematici, la caratterizza, sia come pittrice, sia come scultrice, anche
se Tiziana non ha mai disdegnato di cimentarsi con obiettivi e macchine
fotografiche, dando prova di essere anche una fotografa attenta ai dettagli e
alle simmetrie delle immagini. Le opere più intense, tuttavia, a nostro avviso,
sono senza dubbio quelle a grafite o acquarello, nelle quali Tiziana Bartolini
mette a frutto tutto il suo talento per i colori e le sfumature. I soggetti di
quadri e disegni, in questi casi, sembrano quasi essere dotati di vitalità e
movimento, dando sorprendente tridimensionalità alle opere. Ecco che il sorriso
malinconico di un Pierrot, i prepotenti flutti attorno a un faro o
l’imperturbabile espressione di un felino sembrano prendere vita, accogliendo
lo spettatore in un mondo fatto di fantasia e colori.
Da
dove nasce la tua esigenza di dipingere: è una passione che coltivi da sempre o
si tratta di un talento che hai scoperto recentemente? Cosa vuoi comunicare?
La mia passione per il disegno nasce da
lontano, già all‘asilo se non prima. I miei genitori conservano ancora dei miei
disegni. Ero portata, si vedeva già da piccola e soprattutto mi permetteva di
esprimermi, poi ho iniziato la scuola e quando è stato il momento di decidere
le superiori non ho avuto dubbi: ho preso il Liceo artistico, tutti mi hanno
appoggiata senza mai ostacolarmi nella scelta. Successivamente mi sono iscritta
alla Facoltà di Architettura, mi sono laureata e abilitata alla professione ma
ho sempre continuato a disegnare a mano libera, dando sfogo alla mia
creatività. Sono anche riuscita a coinvolgere le mie due figlie, Chiara e Sara,
che, fin da piccole, hanno potuto cimentarsi in bigliettini e decorazioni
appesi in casa e alla porta d’ingresso.
Cosa
ti ispira maggiormente: quali sono i soggetti che preferisci e le tecniche che
prediligi? A quali movimenti artistici del passato ti rifai? E chi sono i tuoi
Maestri di riferimento?
Io disegno in grafite e dipingo poi in
acquarello la maggior parte dei miei quadri. Talvolta uso anche le matite acquerellabili
e i pastelli. Ma ho anche creato delle piccole sculture in terracotta e amo
fare fotografie.
I soggetti sono vari, mi piace organizzare
e partecipare ad eventi espositivi, perciò spesso mi lascio guidare dal tema
della mostra a cui partecipo.
Sono molti gli artisti che mi hanno
ispirato, sia negli anni della formazione, sia oggi.
Quanto
è importante, tra artisti, la condivisione di ideologie nuove, tecniche
innovative e sperimentazioni, per riuscire a esprimersi? Esiste ancora una
comunità degli artisti? E che ruolo svolgono i Social Network in merito per la
diffusione e la divulgazione?
Io penso che la condivisione tra artisti
sia molto importante, lo era nel passato come lo è adesso, tanto più che adesso
con Internet e i Social Network il coinvolgimento è più facile e immediato. In
definitiva tutti postiamo una foto e in qualche modo anche quella visione di
quell’oggetto, volto o panorama è arte, perché è opera di una persona che ha
creato nella sua testa l’immagine che poi ha scattato. Ne è la prova che trovare
due foto identiche dello stesso soggetto è quasi impossibile!
Raccontaci
le esperienze che nel tuo percorso da artista hai trovato più formative e che
ti sono rimaste nel cuore: corsi, esposizioni, mostre alle quali hai
partecipato o che hai solamente visto come spettatrice, ma che ti hanno
lasciato un messaggio profondo e hanno influenzato le tue opere.
Una delle mie esperienze formative più
significative è stata sicuramente aver frequentato il Liceo artistico. Tante
ore di disegno, il concetto di nature morte, i disegni di figure avendo come modelli
persone in carne e ossa, le tecniche pittoriche: tutto ciò mi ha dato le basi
per esprimermi al meglio, donandomi ulteriore sensibilità. Poi scegliendo la
sezione Architettura e andando all’Università si ho perso momentaneamente lo
slancio e il tempo da dedicare al disegno pittorico, ma cercavo sempre esami dove
potevo esprimere la mia così detta “mano felice”. Ricordo che quello era il
periodo del verde riprodotto a mano libera, molto espressive erano le mie
rappresentazioni della natura dove potevo esprimere la mia creatività.
Ogni mostra a cui sono stata ha lasciato
qualcosa dentro di me, non si può essere indifferenti alle opere di un artista
indipendentemente dal fatto che sia famoso o sconosciuto, perché egli lascia un
pensiero, un concetto con la sua opera d'arte e lo trasmette a tutti, lo
condivide in eterno. Naturalmente anche partecipare come artista a un evento
espositivo lascia delle emozioni e dei ricordi unici.
A
cosa stai lavorando ultimamente? Collabori con Gallerie e Associazioni o hai in
programma la partecipazione a qualche mostra nei prossimi mesi? Svelaci quali
sono i tuoi progetti per il futuro.
La mia vita artistica è ripresa da circa
cinque o sei anni grazie a un amico di mio fratello e di mia cognata, Mauro
Rubini che ha fondato la RBN Arte all’interno dello Spazio I.DE.A.,
proponendomi di partecipare come artista a delle mostre organizzate da lui. Questa
esperienza è stata meravigliosa e molto gratificante, soprattutto in un momento
della mia vita lavorativa purtroppo non positivo. Da quest’anno aiuto Mauro
Rubini nell'organizzazione di mostre personali e collettive nella sua galleria
aperta da poco al pubblico a Roma.
Naturalmente essendo Mauro Rubini anche un
artista, partecipiamo anche noi alle mostre collettive che organizziamo e il
gruppo di artisti che ci segue e partecipa è molto unito e creativo.
I miei progetti per il futuro? Spero di
continuare a fare esperienze bellissime come queste e vi aspetto in galleria!
Ne
è passato di tempo da quando chi si prendeva cura degli animali operava per lo
più al di fuori delle grandi città, dove il legame tra uomo e animali è più
stretto, un po’ per vocazione, un po’ per necessità. Oggi, infatti, la
circostanza che in moltissime famiglie metropolitane almeno un componente abbia
quattro zampe ha reso la professione
del veterinario un mestiere d’eccellenza che richiede studio, titoli e
formazione continua, ma anche sensibilità e sacrifici, tanto che, proprio come
a qualsiasi altro medico, anche al veterinario è richiesta sempre più spesso
una reperibilità ininterrotta nell’arco delle ventiquattro ore della giornata e
un rapporto di simbiotica fiducia non solo con l’animale, ma anche e
soprattutto col suo proprietario. È nata così l’esigenza, soprattutto nelle
grandi città, di vere e proprie cliniche veterinarie aperte anche la notte e in
grado di far fronte non solo alle esigenze di routine, ma anche a casi di
emergenza sempre più delicati per salvare la vita di animali che oggi sono
considerati componenti della famiglia accuditi e amati come tutti gli altri.
Ma
cosa significa intraprendere la professione del medico veterinario al giorno
d’oggi? Qual è il suo ruolo in qualità di operatore medico, scienziato e
persona di fiducia e supporto a chi vuole prendersi cura di un animale anche in
un contesto cittadino? Ci sono nuove leggi che tutelano le nuove esigenze degli
animali e dei loro proprietari, insieme ai professionisti del settore? E come
si può far fronte sempre più efficacemente a piaghe metropolitane come
abbandono e randagismo? A rispondere a queste e a molte altre domande,
spiegandoci meglio tutti i risvolti di questo mestiere sempre più
all’avanguardia, ci ha pensato la Dottoressa
Francesca Mandetta, tra le colonne della nuova Clinica Vetetrinaria
Spinaceto di Roma che, nell’intervista che segue, ci ha raccontato la sua
storia, dai primi passi, fino a oggi, e quanto l’empatia e la preparazione
siano ugualmente importanti per chi volesse intraprendere la professione di
medico veterinario.
Empatia, sensibilità e
tanto studio e impegno: prendersi cura degli animali, pazienti non in grado di
comunicare a parole il disagio e il dolore, è una professione che richiede un
profondo senso di responsabilità. Quando e come si è resa conto di avere la vocazione per questo mestiere?
Sin
da piccola ho sempre voluto diventare un medico veterinario. Quando a scuola si
cercava di immaginare cosa fare da grandi, io non avevo nessun dubbio: il
veterinario era il mio sogno che, fortunatamente, è diventato realtà. Ho sempre
pensato che questo fosse il mestiere più bello del mondo ed è tra i miei primi
ricordi di bambina. Da piccola ammiravo il nostro veterinario che, all’epoca,
era il cosiddetto veterinario di campagna e coltivare questo obiettivo, nei
lunghi anni di studio, mi ha permesso di coniugare le mie due grandi passioni:
la medicina e gli animali.
Un numero sempre maggiore
di famiglie nel nostro Paese ha uno o più componenti a quattro zampe: quanto è importante instaurare un corretto
rapporto di fiducia col proprio medico veterinario per comprendere al meglio i
bisogni dei nostri fratelli animali?
In cosa consiste la prevenzione in questo senso e quali comportamenti sarebbe
bene mettere in atto?
Il
rapporto col medico veterinario è fondamentale per chi possiede un animale,
perché egli svolge il ruolo che, per noi umani,
è svolto dal cosiddetto medico di famiglia. Deve essere un punto di riferimento
che conosce il nostro animale, sia da un punto di vista clinico, sia
comportamentale e che, quindi, è in grado di fare diagnosi in modo puntuale e
il più velocemente possibile, quando necessario, mantenendo la giusta lucidità
nella cura e nella gestione sia del paziente, sia della sua famiglia umana. Il rapporto, quindi, da parte
nostra non è solo lavorativo, ma anche, in un certo senso, di amicizia, al di
là delle patologie e delle necessità contingenti. È proprio questo rapporto di
fiducia di fondo che permette al veterinario di supportare e guidare il
proprietario nelle scelte migliori per il proprio animale anche dal punto di
vista clinico. Oltre alla professionalità di noi medici, infatti, credo sia
importante che i padroni dei nostri pazienti si affidino a noi anche come
persone, sviluppando un’empatia davvero molto utile per svolgere con competenza
e dedizione il nostro mestiere. In fondo l’atteggiamento che caratterizza la
maggior parte dei proprietari dei nostri pazienti non è molto diverso da quello
che hanno i genitori quando scelgono il pediatra per il proprio bambino: al di
là delle capacità del medico apprezzano anche l’atteggiamento empatico e il
modo di porsi della persona nei confronti dell’intero contesto familiare, oltre
che del bambino. Trattare l’animale come se fosse nostro rappresenta una marcia in più nella nostra professione di
veterinari. Questa combinazione di fattori caratterizza, a mio avviso, quello
che oggi potremmo definire il veterinario
2.0.
È
proprio costruendo questo rapporto di profonda e reciproca fiducia che si
comprende l’importanza del concetto di prevenzione. La disinformazione che a
volte c’è nei confronti del ruolo del medico veterinario sta proprio nel fatto
che ancora molti proprietari di animali si rivolgono a noi solo quando emerge
una patologia, ritrovandosi a prendere decisioni difficili di fronte a medici
che considerano professionisti e in cui hanno fiducia, ma che, umanamente, sono
degli estranei. Se invece si instaurasse il giusto rapporto col medico
veterinario, fatto di visite di controllo e di prevenzione a seconda dell’età e
delle condizioni del proprio animale, tutto sarebbe più semplice e naturale,
per quanto possibile, anche in caso di malattia o emergenza, proprio come
accade con un pediatra per il proprio bambino o con un medico di famiglia che
ci conosce più di chiunque altro. La prevenzione è indispensabile anche per i
nostri animali, così come lo sono, nello specifico, i vaccini e i trattamenti
antiparassitari, oltre a una buona e sana alimentazione, da valutare per il
singolo animale, in base allo stile di vita.
La Clinica Veterinaria
Spinaceto, oggi in una nuova sede completamente ristrutturata e sempre più a
misura dei pazienti, è diventata un’eccellenza del settore, grazie a un’equipe
di medici di grande esperienza. Cosa significa offrire al pubblico un servizio
ventiquattro ore su ventiquattro? Ci spieghi l’importanza di proporre ai
proprietari degli animali un supporto che spesso va oltre le esigenze mediche,
sostenendoli anche nelle fasi dell’adozione e dell’adattamento in casa,
cercando di far fronte a eventuali difficoltà comportamentali.
Avere
a disposizione una struttura e un medico veterinario ventiquattro ore su ventiquattro
oggi è fondamentale. I nostri animali, infatti, hanno bisogno di assistenza
continuativa, non solo per le urgenze, ma anche per la possibilità di
consigliare i proprietari sulle cure preventive e future per i loro animali e
anche sul primo ingresso in famiglia in seguito all’adozione di un nuovo
animaletto, oltre all’adattamento in casa e coi suoi abitanti, nel rispetto di
tutti. Il ruolo del medico veterinario, infatti, è anche questo e spesso oggi i
futuri proprietari vengono a trovarci ancor prima di adottare un animale per
essere indirizzati verso la scelta giusta, sia per loro, sia per il futuro
componente della famiglia, per capire come prendersene cura, preparando la casa
al meglio per accoglierlo, e vogliono essere supportati in caso di problemi
comportamentali o difficoltà di adattamento. Quindi il nostro compito non è
solo strettamente medico di cura delle patologie, ma anche di supporto dei
proprietari nelle loro scelte.
Randagismo e abbandono
sono ancora oggi, soprattutto nelle grandi città, delle piaghe alle quali è
difficile far fronte e troppo spesso ignorate. Quali sono in merito i consigli
del veterinario, sia verso le famiglie, sia verso le istituzioni?
La
crisi economica di questi anni non ha aiutato ad affrontare in modo sistematico
queste piaghe, anche se, sia per il randagismo, sia per l’abbandono, è stato
fatto molto ultimamente, in termini legislativi, ma soprattutto di
sensibilizzazione. La microchippatura obbligatoria per i cani, oltre a multe
salate per chi li abbandona, e il tentativo di costruzione dell’anagrafe felina
sono esempi della rinnovata attenzione verso i nostri animali, ma senza dubbio
c’è ancora molta strada da fare, perché è stato fatto molto per quanto riguarda
i cani, ma poco per le specie non convenzionali, come pesci e tartarughe, e
ancor meno per i gatti che restano comunque il primo e preferito tra i nostri
animali domestici, tanto in termini di numero di adozioni, quando di abbandoni,
purtroppo. Il nostro primo compito come medici veterinari, dunque, è quello di
sensibilizzare sempre più i cittadini spiegando loro che gli animali non sono
oggetti e non si può pensare di adottare un gatto, un cane o magari un
coniglietto per poi liberarsene senza pensare alle conseguenze. Bisogna
spiegare chiaramente le responsabilità che derivano da un’adozione e anche
sollecitare le istituzioni a fare sempre di più. Obbligare alla microchippatura
di tutti gli animali domestici, non solo dei cani, potrebbe essere un primo
passo, magari agevolando dal punto di vista fiscale le famiglie, riducendo il
più possibile le spese, soprattutto per le persone meno fortunate, visto che
possedere un animale in molti casi è ancora considerato alla stregua del
possesso di un bene di lusso, ma questa è una classificazione ormai
anacronistica. Le istituzioni dovrebbero offrire dei servizi gratuiti per
permettere ai cittadini di registrare i propri animali, facendo maggiori
controlli e dando anche dei vantaggi ai proprietari concedendo la possibilità
di detrarre maggiormente le spese mediche e farmaceutiche. Qualche passo in
avanti nell’inclusione degli animali all’interno della famiglia come veri e
propri componenti si sta facendo, ma, a mio avviso, si dovrebbe aspirare a
rendere l’azione di un animale controllata e sicura dal punto di vista
legislativo come quella di un bambino.
In tutti questi anni di
esperienza e pratica della professione si sarà presa cura anche di pazienti
particolari e insoliti. Ci racconti
un episodio, un aneddoto, una storia che è rimasta particolarmente impressa nel
suo cuore, sia come medico, sia come donna.
In
tanti anni di professione ho avuto moltissimi pazienti e ho seguito le loro
famiglie e le loro storie, accompagnandoli per un pezzo di vita, quindi mi
sembrerebbe quasi di fare un torto a qualcuno di loro, scegliendone solo uno.
Ognuno è stato speciale e ha lasciato un segno dentro di me, come medico e come
persona, e ho avuto tante soddisfazioni che conservo nel cuore, ma anche tante
sconfitte, visto che la medicina ha dei limiti. Devo, però, ammettere che i
pazienti che mi hanno segnato più profondamente sono stati proprio i miei animali, quelli per cui, oltre al
ruolo di medico, ho rivestito anche quello di proprietario e, perché no, in un
certo senso di “mamma” umana. Loro mi hanno insegnato molto, perché mi hanno
fatto comprendere cosa provano i nostri clienti quando si affidano a noi
veterinari e, proprio per questo, penso che il rapporto di empatia e di fiducia
medico-paziente sia importantissimo. Essere un buon medico veterinario non è
solo studio e aggiornamento, ma anche la capacità di mettersi nei panni del
proprietario e di considerare il paziente come se fosse un nostro animaletto.
La
scorsa primavera si è celebrato un triste anniversario: sono trascorsi
quarant’anni esatti dall’agguato di via Fani che ha dato inizio alla prigionia
di Aldo Moro, col doloroso epilogo noto a tutti, che ha stravolto gli equilibri
della scena politica italiana del tempo. Ma cosa sanno le generazioni più
giovani di questo statista unico nel suo genere? Se ne conoscono e se ne studiano a
sufficienza, ancora oggi, la vita e il pensiero? E si è riusciti a far
veramente luce sul mistero della sua morte e a comprendere le dinamiche storico-politiche
che l’hanno contrassegnata? A queste e a molte altre domande tenta di
rispondere Pino Nazio nel suo ultimo
libro, “Aldo Moro. La Guerra Fredda in
Italia”, Edizioni Ponte Sisto,
con la prefazione di David Sassoli.
Giornalista,
scrittore, autore televisivo e tra le colonne della trasmissione “Chi l’ha
visto?” in qualità di inviato per oltre dieci anni, Pino Nazio, in questo nuovo
libro, ha ripercorso, con la lucidità e la passione che lo contraddistinguono
come autore sempre alle prese coi misteri d’Italia sui quali c’è ancora molto
da dire, le tappe del pensiero di Aldo Moro e, in particolare, le fasi che ne
hanno caratterizzato il rapimento, la prigionia e, infine, il tragico
ritrovamento, oltre alle tortuose indagini che sono state compiute in seguito
per cercare di comprendere moventi, mandanti ed esecutori materiali dei fatti.
Oltre
all’impeccabile ricostruzione degli eventi, è estremamente interessante
l’analisi che l’autore fa degli equilibri politici che si sono sgretolati nel
nostro Paese in seguito a questo fatto di sangue che è ben più di un caso di
cronaca nera come gli altri. Infatti, dopo essersi occupato con successo di
molti casi ancora alla ribalta, come quello di Emanuela Orlandi, di Serena
Mollicone, di Yara Gambirasio e di Giuseppe Di Matteo, Pino Nazio, muovendosi
dal rapimento di Moro, dipinge con mano sicura il quadro storico-politico che
ha caratterizzato il clima della Guerra Fredda in Italia, facendo collegamenti
e confrontando episodi e testimonianze fondamentali per comprendere anche
l’attualità di oggi solo apparentemente lontana da certe dinamiche.
Una
lettura imperdibile, tra sociologia e giornalismo, per chi ama studiare la
Storia per capire e vivere il presente con consapevolezza e dignità.
A quarant’anni
dall’agguato di via Fani sono ancora molti i misteri che avvolgono il sequestro
e l’omicidio di uno dei più grandi statisti del Dopoguerra. Chi era Aldo Moro e
cosa rappresenta ancora oggi? Raccontaci la genesi del tuo libro “Aldo Moro. La
Guerra Fredda in Italia”, Edizioni Ponte Sisto.
Moro
è stato uno dei più importanti uomini politici del Dopoguerra, per due volte Presidente
del Consiglio in lunghi Governi –nella prima Repubblica in cui i dicasteri
spesso duravano pochi mesi- Ministro degli Esteri durante una delle fasi più
critiche della Guerra fredda, Ministro della Pubblica istruzione e della
Giustizia, prima Segretario e poi Presidente della DC. Ma, al di là di quanto
possa descrivere ogni singolo incarico, Moro nel Dopoguerra è stato il democristiano più influente - dopo Alcide De Gasperi e insieme ad Amintore Fanfani - fino alla sua tragica
morte. Oggi –e le celebrazioni per il quarantennale della sua scomparsa lo
hanno confermato- Moro è stato un uomo del confronto e del dialogo, anche
quando l’intesa comportava rischi altissimi come –in piena Guerra fredda-
l’apertura verso il Partito comunista italiano. Il mio libro nasce
dall’esigenza di fornire un quadro chiaro in cui è avvenuto il rapimento e la
morte dello Statista, delle luci e delle ombre che hanno avvolto la sua fine e
di squarciare il velo delle omertà e delle ipocrisie che ancora oggi aleggiano
intorno a quel corpo ritrovato in una Renault rossa in via Caetani.
La tua interessante
analisi collega una serie di fatti sanguinosi precedenti e successivi
all’assassinio di Moro, ricostruendo una rete oscura che tenta di mettere in
fila tutti i tasselli di quella che fu la Guerra Fredda nel nostro Paese. A
quali conclusioni sei giunto?
Moro
ha pagato il prezzo più alto per aver osato sfidare l’equilibrio che si era
creato dopo la Seconda Guerra Mondiale in cui all’Italia –considerato Paese
sconfitto- era stato destinato un ruolo subalterno e a sovranità limitata.
Dalle macerie in cui il Fascismo e Mussolini avevano trascinata l’Italia, il
Paese ha saputo risorgere entrando nel gruppo delle potenze economiche
planetarie senza che venissero rimossi i limiti imposti al Belpaese in materia
di Difesa, Politica estera e pieno sviluppo della democrazia: il PCI non
avrebbe dovuto mai varcare la soglia del governo. Moro, capendo che l’Italia si
sarebbe definitivamente emancipata solo aprendo le porte della “stanza dei
bottoni” ai comunisti italiani, rischiò il tutto per tutto e per questo venne
ucciso. Certo, i colpi che l’hanno trafitto sono stati esplosi da uomini delle
Brigate Rosse, ma chi ha permesso che lui venisse rapito e ucciso non erano né
in via Fani né in via Caetani. Basti pensare che nonostante fosse da tempo e
pubblicamente indicato come un bersaglio, che le Br avevano sparato e ucciso
molte volte prima di lui, gli è stata negata l’auto blindata che avrebbe
salvato la sua vita e quella degli agenti della sua scorta.
Quando si raccontano
fatti di cronaca ancora tanto sentiti, la condivisione e la divulgazione del
proprio lavoro è un aspetto importante tanto quanto la fase di ricerca e di
stesura del testo. Svelaci un episodio, un aneddoto, una storia che in questi
mesi di presentazioni al pubblico è rimasta particolarmente impressa nel tuo
cuore di professionista e di uomo.
Molti
sono gli episodi che hanno segnato questo libro e affondano le radici in un
lavoro di studio e di ricerca di una dozzina d’anni. Tra gli elementi che
ricordo ci sono sicuramente le pesanti minacce ricevute da uno dei brigatisti
condannati per il sequestro e l’uccisione di Moro perché avevo avuto la
sfrontatezza di ricordargli che esistono agli atti dei diversi processi
elementi tali da far supporre che dietro alle Br vi fosse un clima di
complicità da parte di servizi segreti, nazionali e internazionali, deviati e
non. Oramai è ben chiaro come, dove e quando le Br sono state non-ostacolate,
non-disturbate, non-fermate, nella loro “strategia di attacco al cuore dello
Stato” che aveva nel rapimento di Moro non tanto lo sviluppo di una “geometrica
potenza”, quanto una chiara politica di eliminazione di uno scomodo politico.
Infatti dopo il 9 maggio del 1978 non c’è stata la rivoluzione ma una pesante
sconfitta del movimento operaio, del Partito Comunista e la vittoria di un
blocco conservatore che ha dominato per quasi tre lustri l’Italia e che ha
avuto nel Caf –il patto Craxi-Andreotti-Forlani- la sua espressione più
autoritaria.
Prima come inviato della
trasmissione “Chi l’ha visto?”, poi come autore, ti sei sempre occupato di casi
di cronaca nera con profondità e delicatezza. Secondo la tua esperienza come
sarebbe più corretto approcciarsi a queste storie per far sì che anche
l’opinione pubblica possa dare il proprio catartico contributo alla risoluzione
dei casi? Dai un suggerimento a un giovane giornalista che voglia seguire le
tue orme.
Quando
ci sia avvia sul sentiero del giornalismo investigativo bisogna abbandonare due
suggestioni, sia quella “complottista” che vede dietro ogni evento una oscura
manovra di poteri occulti, sia quella “integrata” per cui la realtà, la verità
storica, non hanno mai delle spiegazioni che non siano le versioni ufficiali
delle autorità. Si deve evitare di credere che la tragedia dell’11 settembre
2001 sia frutto di un disegno dei servizi segreti americani e che un aereo non
è mai caduto sul Pentagono o che la morte di John Kennedy sia stata opera del
solo Lee Oswald. Non possiamo credere che noi siamo controllati da microchip
installati sottopelle, che i vaccini provochino l’autismo e che Totò Riina non
sapesse che esistesse una organizzazione criminale chiamata mafia. Il bravo
giornalista che vuole indagare la realtà –non solo la cronaca nera- deve
partire dai fatti, controllare e verificare il proprio lavoro, evitare facili
suggestioni e opinioni ritenute valide solo perché sostenute da molti. In una
epoca in cui dominano le fake-news e ogni possessore di smartphone è convinto
di essere un esperto tuttologo solo
perché ha accesso a Internet questo lavoro è particolarmente difficile. Per
quanto possibile il giornalista deve andare sul campo, lasciare il mouse e
usare le proprie gambe. Non ricordo un solo caso di cui mi sono occupato in cui
non abbia scoperto qualche novità, qualche rivelazione, qualche risvolto
nascosto, andando a verificare sul luogo del delitto, della tragedia,
dell’avvenimento.
A cosa stai lavorando
attualmente? Svelaci quali sono i tuoi progetti per il futuro.
Altri
libri, una pièce teatrale, e progetti per la Tv e la Rete. Il Paese attraversa
un momento molto difficile, c’è il rischio di un enorme passo indietro dal
punto di vista economico, sociale, dei diritti civili e della stessa
democrazia, provare a raccontare quello che accade senza qualcuno ti detti cosa
scrivere è un impegno a cui non voglio venire meno. Anche se questo ha un alto prezzo
da pagare. Nel mio lavoro non dimentico mai quel detto anglosassone che ricorda
al giornalista che per lui la notizia è come il denaro per un impiegato di
banca: non deve mai dimenticare che sta maneggiando qualcosa che non gli
appartiene.
C’era
una volta un Mondo in cui non c’è più posto all’Inferno e i
morti camminano sulla Terra. Lo dice Peter, uno dei protagonisti di questa
storia che non è solo un ‘incubo a occhi aperti’ impresso su pellicola per
generazioni di spettatori, ma anche un vero e proprio manifesto politico per il
suo creatore. Si tratta di “Zombi. Dawn
of the dead”, il capolavoro di George
A. Romero, regista tra i più amati del genere horror scomparso poco più di
un anno fa, che con questo film ha proseguito il filone nato con “La notte dei
morti viventi” in modo totalmente indipendente e ha dato inizio a un genere
che, nel corso degli anni, ha subito numerose contaminazioni, innalzando gli
zombi e icone in tutto e per tutto paragonabili ai mostri e agli assassini che
da sempre popolano i nostri schermi.
La vicenda si apre in una Terra ormai
invasa dai morti viventi che, in un contagio che sembra senza fine, continuano
a cibarsi dei vivi, distruggendo intere città. Mentre i media faticano a
raccontare il fenomeno, cercando di barcamenarsi tra le esigenze della scienza,
totalmente impreparata alla sperimentazione di una cura, e le necessità della
tradizione che fatica a vedere nei morti qualcosa di differente dagli esseri
che erano in vita, Jane, una giovane assistente in uno studio televisivo
incinta di poche settimane, e il suo compagno Stephen, pilota di elicottero,
organizzano la fuga, in cerca di un posto sicuro, lontano dagli zombi. A loro
si uniscono Roger e Peter, due membri della squadra SWAT, stufi di come
l’esercito e la legge marziale stiano affrontando la situazione a Philadelphia.
Dopo una notte passata a sorvolare le campagne in elicottero, i quattro, a
corto di carburante, sono costretti ad atterrare e decidono di barricarsi
all’interno di un grande centro commerciale in cui gli zombi, ripetendo ciò che
facevano in vita, continuano a tornare, distruggendo tutto ciò che gli si para
davanti. Allettati dalla possibilità di rifugiarsi all’interno del supermercato
con provviste e ogni genere di confort, Jane, Stephen, Roger e Peter iniziano
una vera e propria opera di “bonifica”, riuscendo, per un po’ di tempo, a
recuperare un’apparente normalità, ma la lotta per la sopravvivenza è appena
cominciata e i quattro amici si ritroveranno a difendere strenuamente il loro
territorio, non solo dagli zombi affamati.
Visionaria e a tratti trascendente, questa
pellicola è ben più di un cult del genere horror: è una metafora culturale che
critica aspramente il consumismo, il capitalismo e la mancanza di valori che
hanno caratterizzato gli Stati Uniti e quindi il mondo occidentale per buona
parte della seconda metà del secolo scorso. Ma come è nato questo film? Qual è
la storia nella storia che ne
accompagna l’idea e la lavorazione, fino al prodotto finito, uscito nelle sale?
Tutto ebbe inizio alla fine degli anni
Settanta a New York quando, durante una cena, il regista italiano Dario Argento,
reduce dal successo del suo debutto, propose a un George Romero un po’
‘sottotono’ di collaborare, realizzando un film insieme per ritrovare il
talento ribelle e indipendente che aveva contraddistinto Romero fin dal
principio. La chimica fra i due registi fu immediata e Romero, che aveva
intenzione di lavorare a un nuovo capitolo di quella che, negli anni successivi,
sarebbe diventata la saga di zombi più prolifica e di successo di tutti i
tempi, volò a Roma e scrisse la sceneggiatura di “Zombi”. Le riprese di
svolsero nei mesi successivi vicino Pittsburgh, città cara a Romero, al
“Monroeville Mall”, un grande centro commerciale di una zona residenziale e le
troupe lavoravano esclusivamente di notte, quando il centro era chiuso al
pubblico. Il ruolo di Dario Argento come co-produttore e, in un certo senso, ispiratore
per un incontenibile e nuovamente entusiasta Romero, fu determinante, visto
che, una volta finite le riprese, fu lo stesso Argento a montare la versione
del film che fu messa in commercio in Europa. Anche se inizialmente Romero fece uscire negli
Stati Uniti una versione diversa della pellicola, molto più lunga e senza
neppure sottoporla alla censura, finì con l’affezionarsi al montaggio proposto
dal collega italiano e arricchito dalle incalzanti musiche dei Goblin, molto
apprezzate anche da Tom “Doctor Splatter” Savini che, oltre a interpretare un
ruolo nel film, ne curò i sorprendenti effetti speciali.
Per entrare ancor di più nei retroscena di
questa storia nella storia abbiamo
chiesto a Enrico Luceri, giallista e
scrittore, ma anche critico e profondo conoscitore della filmografia di Dario
Argento e, in generale, del thrilling italiano e non solo, di raccontarci
qualcosa di più sulla lavorazione di questo film e in particolare sul ruolo di
Dario Argento stesso nelle fasi della lavorazione, del montaggio e della
promozione per il pubblico europeo.
“Dario
Argento ha fornito un sostegno e un contributo determinante alla realizzazione
del film “Zombi” di George Romero,” ci ha confermato
immediatamente Enrico Luceri.“Argento aveva visto “La notte dei morti
viventi” alla fine degli anni ’60, quando fu proiettato in Italia, e di nuovo
in un cineclub romano qualche anno dopo, coinvolto da un amico e collaboratore
storico come il regista Luigi Cozzi. Ricavò da quella visione la stessa potente
impressione della prima volta.
Nella
seconda metà degli Anni ’70 del secolo scorso, mentre “Suspiria” riscuoteva un
unanime successo di pubblico e critica, il Maestro italiano del thrilling seguì
la distribuzione negli Stati Uniti del suo precedente capolavoro, “Profondo
rosso”, insieme al fratello Claudio e al produttore Alfredo Cuomo. Quest’ultimo
era molto amico di Richard P. Rubinstein, che collaborava con Romero, il quale
favorì l’incontro fra i due registi. Per una singolare e fortunata
combinazione, la tv via cavo trasmise “L’uccello dalla piume di cristallo”
proprio la sera in cui Argento era stato invitato a cena a casa di Romero.
Entusiasmato dalla visione, Rubinstein propose a Romero di girare un film
insieme al collega italiano, una sfida che ambedue accettarono sebbene
consapevoli delle difficoltà realizzative che il progetto avrebbe comportato.
In
quel periodo Romero era sconfortato dai risultati deludenti dei suoi film più
recenti, ma la frequentazione, lo scambio di idee e suggerimenti, l’incoraggiamento
di Dario Argento riuscirono a scuoterlo e a rinnovarne l’ispirazione
fantasiosa. Il regista americano sottopose a quello italiano un suo soggetto
che riprendeva il tema degli zombi, e insieme decisero di scriverne la
sceneggiatura.
George
Romero e Dario Argento si divisero quindi il compito di trovare i
finanziamenti, l’uno in America e l’altro in Europa.
Il
regista italiano ricorda anche la singolare capacità di Romero di coniugare il
rigore realizzativo tipicamente americano, basato su una storyboard precisa e
curata, con la libertà espressiva del cineasta indipendente, che lasciava un
certo spazio all’improvvisazione. Oltre al carisma di Romero, un vero
trascinatore e motivatore della troupe, e al suo carattere generoso e
politicamente corretto che lo spingeva a reclutare alcuni suoi collaboratori
fra persone discriminate per i motivi più vari.
Insieme
alla sceneggiatura e alla produzione, Dario Argento curò con la proverbiale
limpidezza ed efficacia anche la colonna sonora, alla quale collaborò personalmente
dopo aver coinvolto i Goblin, reduci dal successo sconfinato di “Profondo
rosso”.
Questa
fu dunque la genesi di “Zombi”, e anche della sincera amicizia fra due
personalità così singolari e creative come quelle dei due riconosciuti creatori
di altrettanti generi cinematografici: il thrilling all’italiana e la saga dei
“morti viventi”.
Fu
la prima esperienza diretta di Dario Argento come produttore in prima persona,
ed è ricordata da lui con la soddisfazione di aver contribuito a realizzare un
capolavoro, tuttora molto popolare”.
Enrico Luceri ci ha
raccontato anche come sono proseguiti i rapporti tra Dario Argento e George
Romero nel corso delle loro reciproche carriere e delle collaborazioni che
ebbero in seguito: “Allo spirare del
decennio successivo, Dario Argento decise di dedicarsi all’opera di Edgar Alla
Poe, dapprima con una serie televisiva a episodi, ognuno affidato a un regista
internazionale, e in seguito con un documentario sulla travagliata vita dello scrittore,
girato nei luoghi in cui visse. Ambedue non andarono in porto, così Dario
Argento optò per un film in due parti, una diretta da lui e l’altra da Romero,
tratte da altrettanti racconti del magnifico visionario di Baltimora. Il
regista americano accettò con tale entusiasmo, che la coppia propose a Stephen
King e John Carpenter di unirsi a loro in un magnifico quartetto del brivido.
Entrambi accolsero dapprima la proposta ma in seguito si ritirarono dal
progetto, così rimasero nuovamente solo Dario Argento e George Romero, e nacque
“Due occhi diabolici”. Il primo diresse l’episodio tratto da “Il gatto nero”,
il secondo da “La verità sul caso del signor Valdemar”. Il film è tuttora molto
amato dagli ammiratori dei due registi, sebbene Romero manifestò a suo tempo
qualche perplessità e non mancarono divergenze di vedute fra due spiriti così
creativi e anticonvenzionali come loro, in particolare perché il montaggio fu
effettuato in America e l’edizione sonora in Italia. Tuttavia, il valore del
film e la rilettura del tutto personale delle tematiche e delle atmosfere di
Poe restano intatti, insieme alla consapevolezza che tutto fu possibile grazie
anche alla complicità e reciproca ammirazione nata durante una cena, quando
scorrevano le indimenticabili sequenze del travolgente film d’esordio di Dario
Argento e si posero le fondamenta di quel monumento al cinema d’autore che è
“Zombi””.
Come ogni ‘figlio’ amato e allevato con
tutte le cure possibili, dunque, “Zombi” ha due ‘genitori’ ugualmente amorevoli,
George Romero e Dario Argento, che lo hanno reso un capolavoro di suspense e
violenza, ma anche di “filosofia del cinema” che, come tutte le arti, cela
profondi significati, più o meno nascosti, anche nelle pellicole più sorprendenti.
Il ‘terzo padre’ di questo film, tuttavia,
è senza dubbio Tom Savini che, come già detto, oltre al ruolo di attore, curò
gli effetti speciali e il trucco di tutto il film, compiendo i primi passi
della sua carriera nel settore, che lo porterà a collaborare con tutti i più
grandi registi horror, tra i quali lo stesso Dario Argento. Una clausola
contrattuale che Savini inserisce da sempre in ogni nuovo progetto è quella di
girare lui stesso, al fianco del regista, le scene in cui sono presenti i suoi
effetti speciali, diventati, nel corso degli anni dei veri e propri trucchi di
magia. Come ha raccontato più volte lo stesso Savini, infatti, gli effetti
speciali non sono solo sangue e trucco, ma anche un vero e proprio gioco di
inquadrature, luci e riflessi che rendano il
falso più verosimile possibile. Mago del gore e oggi anche attore amatissimo, Savini, che ha diretto tra gli
altri il remake de “La notte dei morti viventi” negli anni Novanta e ha
realizzato gli effetti speciali di molti film della saga di “Venerdì 13, ha
iniziato la sua carriera proprio tra i collaboratori più fedeli di Romero, che
ha conosciuto quando era ancora sui banchi di scuola e col quale, fino
all’ultimo, ha avuto un rapporto di stima e affetto.
Dalle radici che affondano nelle pratiche
più misteriose del Voodoo, ai famelici usurpatori del nostro mondo e della
nostra vita, troppo spesso fatta di sciocchi riti e convenzioni che per loro
sono inutili, gli zombi di Romero hanno attraversato il terrificante
immaginario di intere generazioni e hanno accompagnato il loro ‘creatore’ fino
al suo ultimo respiro, continuando a ispirare ancora oggi scrittori e registi,
dal cinema, alla televisione, fino al Web.
Mentre Jane, la protagonista della storia
raccontata nel film, vede crescere il proprio pancione nelle settimane che
trascorre barricata coi propri compagni di sventura all’interno del centro
commerciale assediato da orde di morti viventi, sa che il futuro di quel figlio
che, nonostante tutto, ha voluto tenere nel suo grembo, probabilmente sarà
segnato dalla violenza e dal dolore di condividere la Terra con coloro per i
quali non c’è più posto all’Inferno…
E vissero (?) tutti felici, contenti e in
attesa della prossima storia nella storia…