Questa
è la storia di una domenica d’estate e di un cancello aperto sul nulla. Quel
nulla che sembra aver inghiottito Davide Barbieri il 27 luglio del 2008, quando
si allontana dalla Comunità Lahuèn di Orvieto, oltrepassando quel cancello che
aveva volontariamente varcato pochi giorni prima, cercando una cura per il suo
disagio mentale.
Questa
è una storia di responsabilità. Qualcuno
doveva vigilare su Davide? Oppure no?
Davide
è un ragazzo di ventisette anni dal sorriso enigmatico, che non ha alle spalle
un passato semplice. Cresciuto insieme alla mamma, Laura Barbieri, a soli otto
anni è vittima di un grave incidente che lo tiene in coma per giorni e che,
anche dopo il sospirato risveglio, segnerà irrimediabilmente la sua vita,
causandogli uno squilibrio interiore dal quale non riuscirà più a riprendersi.
Davide, infatti, alterna momenti di depressione e collera a attimi di lucida
tranquillità. Si sente solo, inadeguato, a volte incompreso. Cerca aiuto e,
nello stesso tempo, ha paura di guardare troppo a fondo nell’abisso che ha
dentro. Solo la mamma Laura gli è accanto.
Questa
è una storia di volontà. Qualcuno poteva vigilare su Davide? Oppure no?
Laura
è combattuta, ha pudore del suo dolore, anche dopo tanti anni. Sente che, se potesse,
Davide darebbe notizie di sé. Non resterebbe tanto a lungo volontariamente
lontano da lei, che è sempre stata il suo unico punto di riferimento. Spera che
Davide stia bene e sia finalmente sereno, ma, nello stesso tempo è preoccupata.
Percepisce che quel figlio che sembra nato
sotto una cattiva stella vorrebbe tornare a essere la costellazione più
luminosa del firmamento della sua vita, ma, forse, qualcosa glielo impedisce.
Questa
è una storia di possibilità. Chi farà qualcosa
per cercare Davide e riportarlo a casa?
Chi è Davide? Raccontaci
la sua storia.
Davide
è un figlio speciale: premuroso e attento. Purtroppo è stato rifiutato dal
padre sin dal primo momento, ma, nello stesso tempo, è stato voluto e atteso
con immensa gioia e trepidazione da me, che ho cercato di dargli tutto ciò che
potevo, anche se la mancanza della figura paterna, oltre a una serie di tristi
vicende accadute nel corso della nostra vita, hanno contribuito ad accrescere
la sua profonda fragilità.
Davide
era un bambino intelligente e sensibile. A scuola era sempre attento e preparato:
gli bastava ascoltare la lezione per capirla e saperla ripetere a parole sue. A
otto anni, mentre si recava a un incontro degli Scout, una macchina lo ha
investito in pieno, procurandogli un trauma cranico che lo ha tenuto in coma
per quindici giorni. Il dottore che all’epoca si è preso cura di Davide mi
aveva dato poche speranze: nessuno poteva dire se o quando si sarebbe
risvegliato, quindi, quando gli ho visto riaprire gli occhi, dopo due settimane
di tormento, per me è nato una seconda volta.
Tuttavia,
negli anni successivi, nessuno seppe guidarmi o consigliarmi al meglio: non
immaginavo che, come esiste la riabilitazione in seguito a traumi fisici, c’è
una particolare forma di riabilitazione anche per chi si risveglia da un coma,
utile a riprendere al meglio tutte le funzioni cognitive ed emotive. Sono
venuta a sapere di queste tecniche solo molto tempo dopo, quando Davide era
ormai adulto e aveva iniziato a mostrare segni di disagio. I primi sintomi si
sono rivelati quando Davide aveva circa sedici anni: pian piano, si è isolato
dal resto del mondo, rifiutando qualsiasi tipo di contatto. Io all’inizio ho
faticato a capire cosa stesse accadendo: una mamma non è mai completamente
oggettiva quando si tratta del proprio figlio. Davide era apatico, non reagiva
più a nulla di ciò che accadeva attorno a lui. Io facevo di tutto per scuoterlo
e stimolarlo, ma non ottenevo mai nulla, così mi sono resa conto che,
probabilmente, mio figlio necessitava di un altro tipo di aiuto.
Il
vero crollo, però, c’è stato dopo la morte della nonna con la quale Davide è
cresciuto. Da quel momento sono iniziati i primi veri segni di squilibrio e
anche io ho dovuto ammettere a me stessa che era giunto il momento di chiedere
aiuto, perché mio figlio era malato. Così è iniziato il nostro calvario tra
ospedali e cliniche, ma senza grandi miglioramenti, purtroppo. Abbiamo provato
veramente di tutto, girando per gli studi degli specialisti più conosciuti. Davide
stava molto male, ma, in un certo senso, ne era consapevole e voleva essere
aiutato a uscire dai labirinti oscuri della sua mente.
Per
cercare di seguire il percorso di recupero necessario alla guarigione di
Davide, dalla Sicilia, ci siamo trasferiti a Roma: è stato molto difficile per
entrambi, ma la motivazione era così forte, che anche io sono riuscita a
trovare una nuova casa e un nuovo lavoro che mi permettesse di stare più vicino
possibile a Davide.
Dopo
molte vicissitudini e un lungo percorso di cure, nel luglio 2008, Davide,
consigliato dal Centro Salute Mentale, ha deciso di entrare nella Comunità
Lahuèn di Orvieto. Si tratta di una comunità
a doppia diagnosi della quale ci avevano parlato molto bene, così abbiamo
fatto il possibile per riuscire a far entrare Davide e, una volta raggiunto l’obiettivo,
eravamo davvero contenti e pieni di aspettative verso questo nuovo cammino.
Ma
forse, ancora una volta, Davide non ha incontrato le persone giuste, in grado
di seguirlo per come lui aveva bisogno. Quante volte mi sono chiesta se non sia
nato sotto una cattiva stella e se io
stessa non abbia saputo fare abbastanza per quella malattia dell’anima che lo
consumava.
Quando è stato visto l’ultima
volta? Cosa è accaduto il giorno della scomparsa?
Era
una tristissima domenica d’estate, il 27 luglio 2008, quando, intorno alle due
e mezza del pomeriggio, ricevo una telefonata dalla Comunità Lahuèn con la
quale mi informavano che Davide si era allontanato circa tre ore prima e non
era ancora tornato. Puoi immaginare il mio sgomento e la mia preoccupazione.
Hanno tentato di tranquillizzarmi in ogni modo, dicendo che, statisticamente, quando
un paziente si allontana volontariamente, è solo per fare ritorno a casa,
quindi dovevo semplicemente aspettare di vedere Davide rientrare e tutto si
sarebbe sistemato. Ho chiesto se lo avessero cercato e loro mi hanno risposto
di averlo seguito per un tratto di strada, chiedendogli se volesse tornare in
Comunità, ma lui avrebbe detto di no e così lo hanno lasciato andare,
rispettando la sua scelta.
Le
ore passavano e io ero sempre più in ansia, perché non avevo nessuna notizia di
Davide. Dopo due giorni, sempre in contatto con la Comunità, continuavo a
chiedere spiegazioni sulle circostanze dell’allontanamento di Davide: se avesse
trovato il cancello aperto o avesse scavalcato il muro di cinta e soprattutto
in che stato fosse, ma nessuno mi dava risposte soddisfacenti, oltre ad
ammettere che il cancello probabilmente era aperto. Nessuno sapeva dirmi come
fosse vestito e di sicuro non aveva con sé né soldi, né documenti, quindi la
mia preoccupazione cresceva di minuto in minuto, ma ho continuato a dare
fiducia ai responsabili della Comunità.
A
quasi una settimana dalla scomparsa, però, ho deciso di andare a fare la
denuncia di scomparsa e sono iniziate le ricerche.
Come si sono svolte le
ricerche in questi anni? Chi vi sta più accanto concretamente e
quotidianamente?
Le
prime ricerche sono state fatte i primi di ottobre del 2008. Durante i mesi
estivi tutto è rimasto fermo e forse si è perso del tempo prezioso. Nel corso
degli anni successivi ho potuto constatare che l’attenzione sul fenomeno degli
scomparsi è cambiata e si è presa maggior consapevolezza della gravità di
questi casi.
L’Associazione
Penelope ci è stata da subito molto accanto, anche nelle ricerche. Ricordo che,
immediatamente dopo la scomparsa, lo stesso Gildo Claps, allora Presidente dell’Associazione,
si è battuto per noi, perché si facessero delle vere e proprie battute di
ricerca nei dintorni di Orvieto.
Una
seconda ricerca più approfondita è stata fatta, grazie all’intervento della
trasmissione “Chi l’ha visto?”, nel gennaio dell’anno successivo alla
scomparsa, ma purtroppo, anche in questo caso, non è emerso nulla.
Per
il resto sono rimasta sola. Tra l’altro non ho nessun parente vicino e solo il
mio compagno mi è stato accanto col suo ottimismo e la sua sensibilità, tenendo
sempre vive le mie speranze.
Che ruolo svolgono, o
potrebbero svolgere, secondo te, l’opinione pubblica e tutti i mezzi d’informazione
di fronte a un caso di scomparsa?
L’informazione
mediatica è quella più efficace in assoluto in questi casi e molti giornalisti
che si occupano seriamente di queste storie, approfondendole, vanno ringraziati.
Ma purtroppo solo alcuni casi diventano realmente fenomeni mediatici, anche in
modo esagerato e morboso, mentre altri rimangono dimenticati e ignorati e sono
la maggioranza.
Anche
l’Ufficio del Commissario per le Persone Scomparse svolge un ruolo importante:
ultimamente sono stati fatti anche i piani provinciali per le Prefetture, ma c’è
ancora tanta strada da fare.
Nell’insieme,
comunque, c’è molta più sensibilizzazione e competenza, rispetto a qualche anno
fa, ma dovrebbero formare delle squadre apposite che si occupino solo di
scomparsi, sviluppando un senso investigativo adeguato. Ciò che manca realmente,
forse, è proprio la formazione, oltre all’informazione. Non sempre una
scomparsa può essere classificata come volontaria, quando dietro ci sono dei
problemi, soprattutto di salute. E tutto ciò si somma al dolore costante che
provano le famiglie.
Personalmente
ho un grande pudore ad esporre la mia sofferenza, ma sono consapevole che l’unico
modo perché le cose cambino è espormi in prima persona e cerco sempre di farlo
seguendo la mia indole riservata. Mi domando sempre cosa potrebbe essere, agli
occhi degli altri, la mia storia. Per molti potrebbe non significare nulla. Cos’è
per il Mondo la scomparsa di un essere umano su tanti miliardi di persone?
Siamo solo dei numeri gli uni per gli
altri? Non so dirlo, ma non posso restare in silenzio, perché Davide era, è e
sarà sempre il Mio Mondo.
La
mia fede e la mia speranza mi sostengono e non devo abbattermi, perché quando
Davide tornerà avrà bisogno di me.
Oggi ricorre il settimo
anniversario dalla scomparsa di Davide: cosa gli diresti se sapessi che sta
leggendo le tue parole? Rivolgiti direttamente a lui.
Davide,
se la tua è stata una scelta di libertà, perché sentivi il bisogno di vivere
solo secondo i dettami del tuo cuore e della tua anima, non sopportando più ciò
che ti circondava, io sono felicissima per te. Però fammi sapere che ce l’hai
fatta! Dammi un segno della tua ritrovata serenità, per poter dare tranquillità
anche a me. Vorrei solo sapere che sei diventato un uomo: autonomo e padrone di
te stesso e delle tue azioni e io ne gioirò per prima. Vorrei solo che mi
dicessi: mamma sono libero e forte, sano
e consapevole e adesso sono felice.
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