Spesso
commettiamo l’errore di pensare che qualsiasi progetto che nasce in ambito
sociale debba essere condotto unicamente con lo slancio emotivo dal quale
nasce, in virtù degli obiettivi di carattere generale che lo stesso termine “sociale”
rievoca in noi. In realtà anche quando lo scopo dei nostri programmi è a favore
della collettività, nulla ci impedisce di affidarci a qualcuno che lo sublimi,
pur improntando l’attività sulla cosiddetta mentalità imprenditoriale. Ecco
come nasce l’esigenza di dar spazio, da qualche decennio a questa parte, a una
nuova figura professionale, ancora poco conosciuta, che unisce le strategie che
le aziende attuano nel Secondo Settore, agli obiettivi che si pone il Terzo. Si
tratta del Progettista Sociale, un
professionista che si occupa, per conto di un’organizzazione, di ideare,
pianificare e gestire, lungo tutto il percorso necessario, progetti di
intervento sociale e socio-sanitario. Ma chi è e cosa fa concretamente il
Progettista Sociale? Ce lo spiega Antonio
Finazzi Agrò, fondatore e Presidente dell’Associazione Italiana Progettisti Sociali.
Chi è il Progettista
Sociale? Quali sono le sue competenze e che ruolo svolge o potrebbe svolgere?
Il
progettista sociale è una figura relativamente nuova nel panorama delle
professioni sociali. In realtà se ne parla dagli anni ‘70, da quando furono introdotti
nella cooperazione allo sviluppo i primi modelli metodologici di intervento (in
particolare il modello del Ciclo di Vita di Progetto) a seguito dei fallimenti
registrati dai grandi programmi di cooperazione internazionale.
Anzitutto
devo dirti che del progettista sociale si sa poco. Ne sanno poco le
organizzazioni e, talvolta, perfino chi esercita come progettista sociale ha
una debole “autocoscienza” professionale. Diciamo che, normalmente, è visto
come uno che si occupa di scartoffie per accedere a contributi pubblici e
privati. In pratica una specie di esperto di finanziamenti al Terzo Settore. Noi
crediamo che questa visione è estremamente riduttiva, e indebolisce tutto il
nostro settore, che invece ha un estremo bisogno di seria “progettazione sociale”.
Per dirti chi è il progettista sociale utilizzo, semplificandola un po’, la
definizione che abbiamo adottato nel nostro Codice di Condotta Etico e nella
elaborazione di quello “standard” su cui stiamo lavorando insieme ad UNI (Ente
Italiano di Normazione) ed altri attori nazionali, tra cui Forum del Terzo
Settore e Ministero del Lavoro, per giungere alla prima “Norma Tecnica sulla
professione”. Il progettista sociale è
quel professionista che si occupa, per conto di un’organizzazione,
dell’ideazione, pianificazione, gestione, controllo e monitoraggio, valutazione
e rendicontazione di progetti di intervento sociale e socio sanitario.
Dunque non solo “scrittura” del progetto, ma anche e tanto più gestione e
valutazione dell’intervento. Esattamente
come il project manager in ambito
aziendale. Con in più una caratteristica: la progettazione sociale investe
sempre un “interesse generale”, qualunque sia il suo settore specifico di
intervento. Si fa progettazione sociale anche quando ci si occupa di
cultura, o di scuola, o di formazione, o, addirittura, di ambiti estremamente
settoriali come l’agricoltura, la ricerca scientifica o il progresso
tecnologico, ogni qual volta si punta al miglioramento e cambiamento da
imprimere a quei complessi mondi di vita che sono le società e i contesti in
cui queste si manifestano. Non è un caso che la progettazione sociale molto
spesso si collega alle agende istituzionali europee, nazionali, regionali,
locali: è una sorta di “braccio operativo”, di cinghia di trasmissione che
trasforma in azioni concrete gli obiettivi e le priorità che una collettività
si pone.
Quali sono gli scopi
dell’Associazione Italiana Progettisti Sociali? Come si può sostenervi
concretamente?
APIS,
che è un acronimo un po’ meno cacofonico di Associazione Italiana Progettisti Sociali. Si tratta prima di tutto,
anzi, direi esclusivamente, di una comunità professionale, che ha lo scopo di
favorire lo scambio tra colleghi, la costruzione di un’identità comune, la
riflessione sul proprio lavoro e la formazione lungo tutto l’arco della
carriera. Spesso capita di essere contattati da enti e singoli che ci chiedono
consulenza, e ogni volta dobbiamo chiarire che non siamo una società di
consulenza, che non facciamo progettazione sociale in conto terzi e che non
svolgiamo alcuna attività commerciale, perché siamo una non profit costituita
da persone – i progettisti sociali – al servizio di queste stesse persone. È
per questo che i nostri “servizi” sono gratuiti o quasi: ci basiamo
essenzialmente sul volontariato professionale, perché crediamo che una grande
risorsa, senza la quale il nostro lavoro quasi non può essere svolto in modo
serio, è proprio la generosità professionale. Quella generosità che ci porta a
non essere gelosi dei nostri saperi, delle nostre acquisizioni, delle nostre
specificità, ma, anzi, a volerli comunicare e diffondere il più possibile,
perché, in fondo, crediamo che servano alla società… se ci pensi, siamo un po’
il contrario di un ordine professionale!
Come
aiutarci? Beh, la nostra storia lo dice da sè: APIS nasce dalla generosità di
alcuni colleghi esperti di altri settori, oltre che del Terzo Settore, che
hanno messo a disposizione gratuitamente le proprie competenze, e che da anni
svolgono volontariato come docenti in ogni nostro corso. Un altro modo per
aiutarci è diffondere la nostra missione, farla conoscere, sostenere il più
possibile il nostro modello di agire sociale attraverso la comunicazione,
proprio perché si condivide che non è un cambiamento che serve a noi, ma è,
invece, orientato all’interesse generale.
Che ruolo gioca la
formazione nella figura del Progettista Sociale? Qual è la vostra offerta
formativa?
Abbiamo
tre modalità di offerta formativa. C’è anzitutto quella che noi chiamiamo la
“Formazione base”: un ciclo intensivo di 40 ore che organizziamo una volta
l’anno, con costi il più bassi possibile, per non discriminare l’accesso dei
partecipanti (non tutti hanno alle spalle grandi organizzazioni che possono sostenere
investimenti formativi). È una sorta di porta di ingresso in cui costruiamo lo
strumentario fondamentale della progettazione sociale e introduciamo alla
professione soprattutto i nuovi. Molti nostri soci vengono proprio da
quest’esperienza. Poi c’è la formazione continua su temi specializzati, che noi
chiamiamo “pomeriggi di studio”: brevi seminari su tematiche specifiche o di
particolare attualità, che durano più o meno un’ora e che consentono un
aggiornamento continuo. Sempre più organizziamo questi eventi in streaming, perché i nostri soci sono in
tutta Italia. Ma cerchiamo di organizzarli con un gruppo fisico presente,
perché teniamo moltissimo all’aggregazione a allo scambio tra i partecipanti.
Infine stiamo per lanciare una terza modalità, la “sala virtuale del
mentoring”, un momento fisso nel mese di scambio in streaming tra un gruppo di
soci più giovani e un socio più esperto, nel quale i “junior” possono avere un
confronto sui temi che in quel momento affrontano, magari per la prima volta.
Facciamo un bilancio del
percorso intrapreso dall’APIS: quali sono gli obiettivi raggiunti con successo?
E quali le difficoltà che incontra quotidianamente?
Non
è facile tracciare un bilancio realistico. Personalmente non appartengo alla
categoria dei Presidenti “trionfalistici”, non mi piacciono le
autocelebrazioni, preferisco essere critico e credere che si sarebbe sempre potuto
fare di più e meglio. Aiuta a crescere. Ciò nonostante ci sono delle cose di
cui siamo particolarmente contenti. In questi anni (abbiamo appena compiuto sei anni, vuol dire che siamo pronti per la
scuola primaria!) l’Associazione è molto cresciuta numericamente, ma,
soprattutto, si è distribuita territorialmente. Siamo cento soci presenti in
tredici regioni, cioè praticamente sull’intero territorio nazionale. Quest’anno
si sono costituiti due coordinamenti locali, uno a Roma (APIS Roma) e uno in
Lombardia (APIS Lombardia), e un altro si sta costituendo in Emilia Romagna. È
un fatto importante, perché puntiamo a un modello diffuso e basato
sull’interazione e lo scambio personale tra i soci, possibile solo a livello di
territori. Poi quest’anno più del 70% dei nostri soci ha rinnovato la propria
iscrizione. Ogni anno bisogna versare la quota e per noi è un importantissimo
momento di verifica. Non si tratta di una gran cifra, ma essere disposti a
versarla facendo la “fatica” del bonifico ci dice quanto i soci sentono di
appartenere all’Associazione e si sentono legati. Se poi ci guardiamo indietro,
ci accorgiamo di aver formato almeno settecento colleghi in tutta Italia, che
significa aver condiviso un modo davvero nuovo di lavorare e immaginare la
progettazione sociale. Poi ci sono tutti gli episodi virtuosi, quasi personali,
di scambio, solidarietà professionale, mutuo sostegno. Potrei citarti decine di
casi, capitati a me e ad altri soci. Davvero c’è da essere orgogliosi ad
appartenere ad APIS!
Le
nostre difficoltà? Direi che sono il riflesso delle nostre virtù. Il fatto di
basarci esclusivamente sul volontariato professionale, in un quadro di attività
e veri e propri servizi, ormai abbastanza articolato, comporta un grande sforzo
e un grande impegno. A volte non vedo l’ora di passare il testimone come
Presidente Nazionale. Se c’è una cosa che desidero è una maggiore
partecipazione dei soci. Mi piacerebbe che davvero il più gran numero possibile
di soci si sentisse e si coinvolgesse non solo come “percettore” di servizi, ma
anche come protagonista della vita associativa, come volontario e promotore,
insomma, per come sa e può. Poi c’è la grande sfida: essere un’Associazione Nazionale
non è facile, raggiungere tutti nello stesso modo e garantire le stesse
opportunità. Lo streaming dà una mano, ma lo scambio fisico è sempre un’altra
cosa. Per questo crediamo nel modello dei coordinamenti territoriali; per ora
ne abbiamo due, quasi tre, ma dobbiamo crescere molto. Ci occorrono referenti
territoriali!
Raccontaci quali sono i
progetti in cui siete attualmente impegnati e quali sono i vostri programmi per
il futuro.
Indubbiamente
il progetto più bello e ambizioso in questo momento è arrivare alla prima Norma
Tecnica, in Italia e in Europa, sulla progettazione sociale. Nessuno lo ha mai fatto,
sarebbe davvero un grande contributo alla comunità. È una possibilità che ci dà
la Legge n. 4 del 2013, che riconosce le professioni non regolamentate da
Ordini Professionali e il ruolo delle Associazioni Professionali
nell’organizzare e codificare la professione. Stiamo lavorando con UNI, l’Ente
Italiano sugli standard professionali di cui siamo soci dal 2014, e con attori
importantissimi come Forum del Terzo Settore, ISFOL, Ministero del Lavoro. Tra
l’altro questo percorso si sta rivelando incredibilmente fruttuoso, perché ci
consente un confronto diretto con i soggetti che regolano la nostra
professione. Era quello che sognavamo quando ci costituimmo nel 2009. Meglio di
così…
Se
continuiamo a lavorare con questa serietà e assiduità credo che nel 2016 la
prima norma tecnica sulla professione, cioè il primo serio strumento di
inquadramento e codifica “pubblica” del nostro lavoro, fatto insieme ai suoi
principali portatori di interesse, sarà realtà. A quel punto non avrai bisogno
di farmi un intervista per sapere chi è e cosa fa il progettista sociale!
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