giovedì 17 dicembre 2015

Paolo De Chiara: storie di Testimoni di Giustizia

Foto di Annalisa Nuvelli

Chi sono i testimoni di giustizia? Qual è la loro posizione di fronte alla legge? E che differenza c’è tra loro e i collaboratori di giustizia? Chi di noi saprebbe rispondere in modo preciso a queste domande? In pochi, purtroppo, e la faccenda ha dell’incredibile, perché è come non sapere da che parte stare mentre si gioca a guardie e ladri.
A fare chiarezza, col suo interessante saggio “Testimoni di giustizia. Uomini e donne che hanno sfidato le mafie”, Giulio Perrone Editore, è il giornalista Paolo De Chiara, che di questi temi così complessi si occupa da sempre e, ascoltando i dubbi e le esigenze dei suoi lettori, ha voluto rispondere proprio a queste domande, attraverso il racconto dei testimoni stessi.
Non dobbiamo sottovalutare, infatti, l’importanza della narrazione anche quando si parla di questioni tanto controverse. È il racconto e l’esempio di chi ha scelto, con trasparenza e con coraggio, da che parte schierarsi, a permetterci di comprendere, più di ogni altra cosa, chi sia realmente il testimone di giustizia e, attraverso lo stile diretto e onesto di De Chiara, emergono tutte le difficoltà che questi cittadini devono affrontare ogni giorno. Uomini e donne troppo spesso abbandonati dallo Stato, che dovrebbe tutelarli, e dall’opinione pubblica, che dovrebbe ascoltare la loro storia e il loro silenzioso grido di aiuto.


Lea Garofalo, Luigi Coppola, Carmelina Prisco: non sono i personaggi di un romanzo giallo, ma cittadini che hanno scelto di testimoniare contro le mafie che inquinano il nostro Paese. Chi è il testimone di giustizia per la Legge italiana? Quali ostacoli deve affrontare?

Nel nostro Paese c’è ancora troppa confusione. Nemmeno con l’ultima legge, quella del 2001, si è chiarito il malinteso tra due distinte figure: i testimoni di giustizia e i collaboratori di giustizia. Per il testimone siciliano Cutrò, l’errore “lo hanno fatto loro (gli uomini delle Istituzioni, nda). Una cosa assurda. Dovevo stare insieme a quei quattro pezzi di merda di mafiosi? È un errore paragonare i testimoni ai collaboratori. L’ex mafioso, il collaboratore di giustizia, ha fatto parte dell’organizzazione mafiosa. Mafioso era e mafioso è rimasto. I testimoni di giustizia sono un’altra cosa. Siamo persone normali, cittadini onesti”. Che hanno fatto semplicemente il loro dovere. Non hanno abbassato la testa, non l’hanno girata dall’altra parte. Hanno subito, hanno visto, hanno toccato con mano l’arroganza mafiosa. Hanno denunciato. Hanno collaborato con le forze dell’ordine e con i magistrati, hanno fatto arrestare e condannare i mafiosi. E sono stati abbandonati da uno Stato silente, assente. Irresponsabile. Diversi testimoni sono stati ammazzati, perché abbandonati. Come Lea Garofalo, Maria Concetta Cacciola, Domenico Noviello, Ignazio Aloisi. Addirittura nella prima legge, quella del 1991, non c’era nemmeno la distinzione tra le due figure: tutti insieme. Nello stesso calderone. I testimoni di giustizia, in Italia, sono trattati come un ‘peso’. Già nel 2008, nella relazione di Angela Napoli, si indicavano i punti di debolezza e le soluzioni per rispondere alle esigenze di questi cittadini perbene. “Nel corso dell’inchiesta promossa dal Comitato – spiega la Napoli, oggi consulente della Commissione antimafia – si è colto che, dopo un momento di assistenza iniziale, il teste viene abbandonato in balia di sé stesso e delle sue esigenze familiari, lavorative e sociali che, non solo non vengono prese in esame e soddisfatte, ma incontrano ostacoli – per lo più di natura burocratica – frapposti proprio da chi è, per legge, preposto a superarli e risolverli. La natura burocratica delle difficoltà si esaspera, inoltre, per la particolare situazione nella quale si trova il soggetto-testimone ed i familiari che con lui convivono”. Nel Paese di Falcone, Borsellino e dei tanti morti ammazzati dalle mafie, il testimone di giustizia continua ad essere trattato come un ‘peso’ e non come una ‘risorsa’.            

Svelaci la genesi del tuo saggio “Testimoni di giustizia. Uomini e donne che hanno sfidato le mafie”, Giulio Perrone Editore: da dove nasce l’esigenza di raccontare questa realtà?

Tutto nasce con il libro su Lea Garofalo, Il Coraggio di dire no (Falco Editore, Cosenza, 2012). Portando in giro questa drammatica storia, di una fimmina calabrese che ha avuto il coraggio di sfidare la schifosa ‘ndrangheta, mi sono accorto che molti non conoscevano e, ancora, non conoscono, l’importante differenza tra testimoni e collaboratori di giustizia. Ancora oggi, su diversi organi di informazione, Lea viene definita una pentita, una collaboratrice di giustizia. Lea è, al contrario, una testimone. Ha sentito il puzzo della ‘ndrangheta sin dalla nascita: suo padre Antonio, ammazzato nel 1975, era il boss di Pagliarelle (Crotone) e suo fratello Floriano, detto Fifì (il contabile della cosca dei petilini a Milano), ammazzato nel 2005, aveva preso il posto del padre, diventando un potente boss. Lea non ha mai commesso alcun reato in vita sua. Ho sentito, quindi, la necessità di scrivere questo saggio (Testimoni di Giustizia, Perrone Ed. Roma, 2014) per fare chiarezza intorno alla figura dei testimoni di giustizia. Usati, sfruttati e, poi, miseramente abbandonati al proprio destino. Un libro per dare voce a chi non ha voce. Per far emergere le difficoltà e i problemi di un sistema burocratico non adatto per cittadini che meritano sostegno e vicinanza.     

Ti senti più un giornalista o uno scrittore? Come coniughi queste professioni solo apparentemente diverse?

Un semplice giornalista di provincia, che cerca di fare al meglio il proprio mestiere. Senza padroni e padrini. Solo per informare i lettori, senza filtri. 

Raccontaci un episodio, un aneddoto, una storia che, tra le tante che hai conosciuto, è rimasta maggiormente impressa nella tua memoria e nel tuo cuore di uomo e cittadino.

Tutte le storie dei testimoni di giustizia. Tutte storie drammatiche, di persone che hanno fatto la cosa giusta e si sentono abbandonate. Cittadini che non vedono un futuro sereno. Abbandonati dallo Stato e ‘ricercati’ dalle mafie, perché le organizzazioni criminali non dimenticano. La storia, ad esempio, di Domenico Noviello dovrebbe far capire a tutti questo concetto. Le vicende di questi cittadini onesti, nel nostro Paese, sono dimenticate e accantonate, a volte, anche dalla Chiesa. Per troppi anni silente e, in diverse circostanze, complice. Un episodio che non potrò mai cancellare dalla mia mente è accaduto a Pagliarelle, piccola frazione di Petilia Policastro, in provincia di Crotone. Il paese nativo di Lea Garofalo. Durante la lavorazione di un documentario, prodotto dalla rete Canal +, il prete del posto che aveva officiato i funerali di Lea, avvicinato dalla collega francese, ha negato il funerale. Ha negato di conoscere questa donna e la sua storia. Minacciando, addirittura, la querela. La negazione è il trionfo della criminalità, della mentalità mafiosa. Tutti dobbiamo fare il nostro dovere, tutti dobbiamo comportarci da cittadini onesti. Per sconfiggere le mafie. Senza paura, perché abbiamo di fronte schifosi mafiosi, che rappresentano il nulla. Il nostro dovere, però, è anche scegliere il meglio, per la gestione della cosa pubblica. Lo diceva Paolo Borsellino, il magistrato ucciso insieme ai suoi uomini di scorta da Cosa nostra: “La rivoluzione si fa nelle piazze con il popolo, ma il cambiamento si fa dentro la cabina elettorale con la matita in mano. Quella matita, più forte di qualsiasi arma, più pericolosa di una lupara e più affilata di un coltello”. Dipende da tutti, ognuno di noi deve fare la sua parte. Senza tentennamenti.          

A cosa stai lavorando attualmente? Parlaci dei tuoi programmi per il futuro.

Sono sempre alla ricerca di nuove storie. Per continuare a tenere i riflettori accesi su chi è stato lasciato solo.


www.paolodechiara.com

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