Lo abbiamo letto tutti, in antologia o per
intero. Alla scuola primaria o secondaria, quella che, ai nostri tempi, si
chiamava scuola elementare e media. Soprattutto noi bambini nati e cresciuti in
città, abituati alla frenesia e al cemento, ci siamo domandati come quel buffo
signore un po’ malinconico e sfortunato, potesse sentirsi così fuori posto tra
le vie e i palazzi di una metropoli nascente. Si tratta di “Marcovaldo”, il classico per ragazzi
di Italo Calvino, un testo composto
da una ventina di novelle che hanno tutte per protagonista uno strano uomo di
nome Marcovaldo, padre di una famiglia numerosa, che è impiegato come operaio
tuttofare in una ditta e che, nello scorrere delle stagioni, va in cerca della
natura, anche in mezzo all’asfalto della città dove vive, come lo descrive il
suo stesso creatore.
Può sembrare anacronistico e terribilmente
fuori dal tempo, ma questo personaggio a tratti onirico, a tratti ingenuo,
protagonista di fiabe che, a oltre
cinquant’anni dalla loro stesura, potrebbero non essere più così moderne, in
realtà mantiene intatta un’attualità intrinseca, capace di ispirare non solo i
bambini, ma anche i loro genitori, i loro maestri, i loro vicini di casa, tutti
gli adulti che li circondano.
Cosa è cambiato, infatti, tra le
prepotenti città degli anni Sessanta, figlie del boom economico e dei gas di
scarico, e le stanche metropoli di oggi, fatte di domeniche ecologiche e
parcheggi selvaggi infrasettimanali? Quasi nulla o ben poco.
Penso alla mia Roma e al parchetto del mio quartiere nel quale ho riletto
“Marcovaldo” con mia figlia, ora che ho superato i trent’anni. E penso che i
gabbiani che affollano la città anche in centro e aggrediscono i turisti,
rubando famelicamente loro il panino col salame, non sono poi così diversi
dagli stormi di piccioni che Marcovaldo e i suoi sei figli decidono di
arrostire sul fuoco per il pranzo della domenica. Continuando di questo passo,
in una città come Roma, diventata quasi ingestibile, e nella quale è difficile
perfino rinnovare una carta d’identità senza fare mesi di fila all’anagrafe per
un appuntamento, i gabbiani farebbero meglio a iniziare ad avere paura, perché presto
potrebbero fare la fine dei piccioni di Marcovaldo e finire nei piatti di noi
trentenni precari.
Penso al neopensionato che, mentre noi
leggevamo il nostro libro, tentava di trovare qualche ciuffo di cicoria tra le
cacche dei cani del parco, perché è in attesa che gli accreditino la sua sudata
e meritata pensione da sei mesi, ma l’Istituto previdenziale se la prende
comoda coi calcoli. E penso che non è molto diverso da Marcovaldo e da tutti i
suoi vicini di casa che, dopo una notte di pioggia, raccolgono i funghi nati
nelle aiuole della via e ne fanno una bella zuppa, salvo poi passare una
settimana in ospedale, una lavanda gastrica dopo l’altra.
Penso alla neve a Roma di quest’anno che
se ne sta andando e a quella cataclismica mattinata in cui pochi centimetri di coltre
bianca sono stati nuovamente in grado di paralizzare una città, come uno
Tsunami di ghiaccio, tra alberi caduti, asfalto disastrato e spargisale
inesistenti. E penso al povero Marcovaldo che nella neve in città vede una
speranza. La speranza di veder scomparire, almeno per un giorno, il suo
tran-tran giornaliero, ma, nonostante tutto, si reca al lavoro a piedi,
esattamente come hanno fatto molti romani lo scorso febbraio, perché alla ditta
non importa nulla della neve e della città disorganizzata e colta di sorpresa,
anche oggi.
Penso a Marcovaldo mascherato da Babbo
Natale e costretto, assieme a decine di altri Babbi Natale, a portare strenne a
tutti i clienti della ditta per cui lavora e ai bambini disincantati che li
ricevono, perdendo interesse a ogni nuovo Babbo Natale che passa loro davanti.
E penso alle mamme di oggi che si azzuffano per prendere il posto migliore alla
recita di Natale dei loro figli, fino ad arrivare alle mani per guardarli
meglio attraverso lo schermo di uno smartphone, un’invenzione alla quale il
povero Marcovaldo probabilmente non avrebbe retto. E me lo immagino oggi,
vecchio vecchio, un po’ più svampito del solito, con tanti nipotini che
ascoltano Sfera Ebbasta, a cercare di capirci qualcosa del Governo
giallo-verde, convinto che abbia qualcosa a che vedere con la botanica.
Il progresso ci porta avanti, ma, allo
stesso tempo, ci porta indietro, anche oggi. Ci apre la mente, abbattendo muri
e frontiere, ma, allo stesso tempo, ci imprigiona in celle dorate o
trasparenti, senza più vicini di casa di cui fidarci e con amici lontani, quelli
della nostra generazione confusa, quelli con cui abbiamo letto “Marcovaldo” per
la prima volta e che ora sono sparsi per il mondo a cercare fortuna, lontano
dal loro Paese, in altre città più grandi, fredde
e voraci, ma forse anche più accoglienti.
Rileggere “Marcovaldo” a trent’anni
(passati), nella recente edizione Mondadori,
arricchita dalle illustrazioni di Sto-Sergio Tofano,
è stato commovente. Un’oasi nel deserto della mente, proprio come la natura
nella città. Non solo una questione d’ambiente, ma di natura umana a tutto tondo. Liberate dall’analisi del testo e dagli
esercizi di grammatica della scuola, vent’anni dopo i doveri dei banchi, le
avventure e disavventure di questo Charlie Chaplin di carta, che oggi forse è
più vicino al Fantozzi di Paolo Villaggio, che allo Charlot in bianco e nero
dei nostri genitori, mi ha suscitato una tenerezza struggente. Oggi che l’ho letto
con gli occhi degli adulti, lavoratori, magari faticosamente genitori, il
povero Marcovaldo vorrei abbracciarlo e dirgli che andrà tutto bene. Che forse
le cose non cambiano, ma noi possiamo
(ancora) cambiare le cose. Anche
rileggendo un buon libro per bambini.
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