In
attesa che, all’inizio dell’estate, esca il suo prossimo romanzo, “L’abbazia
dei cento inganni”, Newton Compton, capitolo conclusivo della trilogia
medievale dedicata a Maynard de Rocheblanche, lo scrittore Marcello Simoni ci ha illustrato cosa significa, al giorno d’oggi,
scegliere di intraprendere il mestiere di autore a tempo pieno.
In
seguito a un percorso come archeologo e bibliotecario, infatti, Marcello Simoni
ha esordito nel mondo della narrativa con “Il mercante di libri maledetti”,
Newton Compton, vincitore del Premio Bancarella, riscuotendo un grandissimo
successo di pubblico e di critica. Dopo oltre un milione di libri venduti in
tutto il mondo e diritti di traduzione ceduti in diciotto Paesi, abbiamo
chiesto a Marcello Simoni di trarre un bilancio della scelta che qualche anno
fa gli ha cambiato la vita. Inserendosi nel solco aperto da Umberto Eco con “Il
nome della rosa”, Simoni, infatti, ha saputo trasformare, adattandolo al suo
stile brillante e diretto, un genere molto amato da milioni di lettori, creando
storie che coniugano sapientemente gli ingarbugliati misteri del giallo, le
esaltanti emozioni dell’avventura e le caratteristiche atmosfere dello storico.
Ma qual è il suo segreto?
Per
fare in modo che la scrittura diventi una professione, oltre all’esplorazione
del proprio talento, è necessaria l’applicazione di un metodo che disciplini l’ispirazione
iniziale, incanalando le energie che mettono in connessione l’autore con la
propria storia. Il tempo da dedicare alla scrittura, quindi, non è più uno solo
uno spazio ritagliato da una pressante quotidianità, ma risponde all’esigenza
profonda di concretizzare un’attitudine, trasformandola in un’attività a tutto
tondo.
Come
un atleta per aspirare alle Olimpiadi ha bisogno di allenarsi costantemente,
così, secondo Marcello Simoni, lo scrittore necessita di alcune ore di esercizio quotidiano dedicato al
confronto diretto con la propria opera, per asciugarne lo stile, calibrarne la
struttura e adattarne i personaggi, con l’obiettivo di renderla il miglior
specchio del proprio talento. Perché, in fondo, l’ispirazione è solo la fase
iniziale di un lungo processo di cesellamento di un’idea grezza. Dopo l’epifania
di un momento, c’è la vera costruzione della storia: un lavoro intimo,
instancabile, imprescindibile, che conduce a quella parola fine che, in realtà, è solo l’inizio.
Atmosfere medievali,
personaggi misteriosi e delitti apparentemente inspiegabili: questi sono solo
alcuni degli elementi che rendono tanto avvincenti i tuoi libri. Tu che
scrittore sei? Cosa ti ha spinto a dedicarti al romanzo storico, fondendolo
così efficacemente con il mistery?
Fin
dalla stesura del mio primo romanzo, “Il mercante di libri maledetti”, mi resi
conto che il problema principale di chi scrive narrativa è comprendere in quale
genere inserirsi. Di primo acchito sembrerebbe una banalità, ma già in fase di
pre-scrittura, cioè durante l’elaborazione della sinossi, mi accorsi di quanto
fosse decisiva e difficile questa scelta. Il tenore della trama, il ritmo, lo
stile, la prospettiva e persino il profilo psicologico dei personaggi dipendono
da essa. Io però non volevo rinunciare a nulla, o quasi. Maneggiare nozioni di
storia medievale, inserirli in modo funzionale e non noioso all’interno di un plot, significava, infatti, fare buon
uso dei moduli dell’avventura, del thriller e del giallo. Il primo dà
movimento, il secondo ritmo, il terzo mistero. Perciò mi sono servito di questi
ingredienti ibridandoli in un mix molto particolare, che si adattasse al mio
stile di scrittura. Tuttora resto fedele alla regola, cercando, romanzo dopo
romanzo, di migliorarla, smussando gli angoli, bilanciando i pesi. Come un
artigiano.
Chi sono Ignazio da
Toledo e Maynard de Rocheblanche, due tra i protagonisti più amati dai tuoi
lettori? Come li definiresti e, in generale, come delinei i personaggi delle
tue storie?
Ignazio
e Maynard sono semplicemente eroi della narrativa popolare, ovvero ciò che
Umberto Eco definiva “superuomini di massa”. Come Batman e il Corsaro Nero, il
Conte di Montecristo e D’Artagnan. In definitiva, mi impegno a mettere in
risalto non tanto le loro buone qualità, che pur esistono, quanto i loro
conflitti interiori, la loro curiosità, i loro rimorsi. In poche parole: il
genio dell’intrigo.
Sei riuscito a fare del
tuo più grande talento una professione a tempo pieno: che ostacoli hai
incontrato e incontri ancora adesso nel tuo percorso da scrittore? Cosa
significa, al giorno d’oggi, collaborare stabilmente con un grande editore?
Scrivere
narrativa, professionalmente parlando, significa operare ogni giorno delle
scelte. A volte di concerto con l’editore; più spesso da soli, nel silenzio del
proprio studio. Detto questo, l’elaborazione dei romanzi dipende solo ed
esclusivamente dal sottoscritto, che non chiede suggerimenti ad anima viva, né
permette a nessuno di metter becco su ciò che sta combinando, finché non ha
battuto sulla tastiera la parola Fine.
Poi ci sono l’editing, le bozze, la scelta di titolo e copertina, il
marketing... In una parola, il gioco di squadra. Ma veniamo al dunque: il
mestiere di scrivere. Ebbene, è senz’altro esaltante lavorare in proprio, non
avere capi né orari di ufficio. L’effetto della libertà assoluta però può
essere fuorviante, specie per chi aspetta l’ispirazione prima di iniziare a
stendere un nuovo romanzo. In realtà
l’ispirazione non esiste, non come te la raccontano nei film. Si tratta piuttosto
di una conquista quotidiana, un esercizio attraverso cui disciplinare la mente
e la creatività. Io scrivo cinque-sei ore al giorno, tutti i giorni. Se
posso anche le domeniche, magari in quelle arrivo alle due-tre ore. È quasi una
necessità: ho sempre amato scrivere e se non lo facessi ne soffrirei. Quindi mi
permetto una rettifica: scrivere è un esercizio, sì, ma bisogna anche essere
tagliati per farlo. Il talento e la passione non ve li insegneranno mai in
nessun corso di scrittura creativa. Non esistono ancora, che io sappia,
trasfusioni di fantasia. Si tratta di doni che avete o non avete, sin dalla
nascita. Poi bisogna correre, farsi i muscoli. E questo, be’, è tutto
esercizio.
Arriva un momento nella
vita di ogni opera nel quale questa smette di essere proprietà esclusiva
dell’autore che l’ha ideata e diventa parte integrante della sensibilità di chi
ne fruisce. Come ti rapporti con questo fenomeno? Che spunti ricevi dai tuoi
lettori?
Nel
corso degli anni il mio rapporto con i lettori è cresciuto. I Social Network,
le presentazioni, le interviste mi hanno consentito di instaurare un legame
biunivoco attraverso cui “tastare il polso” della situazione. Ho anche imparato
a guardare i miei personaggi attraverso gli occhi di chi mi legge e questa è
stata un’esperienza grandiosa. La lezione più importante di tutte, forse.
Questo perché le persone “comuni”, quelle che vagano come spettri per gli
scaffali delle librerie in cerca dei tuoi thriller, sanno andare dritti al
succo. Sanno dirti subito, sin dalla prima pagina, se il romanzo funziona
oppure no. Se la tua storia è viva, accattivante, o se invece può essere
tranquillamente buttata giù per lo sciacquone.
Ho
da poco consegnato a Newton Compron il manoscritto di “L’abbazia dei cento
inganni”, il capitolo conclusivo della trilogia medievale dedicata a Maynard de
Rocheblanche. Una trilogia, ci tengo a precisarlo, in cui ho messo l’anima. Al
momento attuale, naturalmente, sto già lavorando a qualcosa di nuovo. Un
progetto esaltante, per la verità, che spero – come diceva Richard Matheson –
vi farà saltare sulla sedia. Ma al momento, da bravo scrittore di mistery, non
posso rivelare nient’altro.
Nessun commento:
Posta un commento