Pino
Nicotri è un Fisico mancato. Le parole lo hanno strappato alle formule
matematiche del suo corso di Laurea in Fisica nel lontano 1969 e, da allora,
non lo hanno più lasciato. È solo grazie a questo piccolo incidente di percorso che, oggi, Pino Nicotri è uno degli scrittori
e dei giornalisti più autorevoli del panorama italiano, per merito del suo
carisma inimitabile e dell’intuito investigativo che lo contraddistingue da
sempre.
Autore
di numerosi libri inchiesta di grande interesse, a partire da “Il Silenzio di
Stato”, Sapere Edizioni, che fa luce sulla strage milanese del 12 dicembre 1969, fino a “Triplo
Inganno”, Kaos Edizioni, che spiega in modo inedito la misteriosa scomparsa di
Emanuela Orlandi, Pino Nicotri è stato per anni una delle firme più autorevoli
de “L’Espresso” e, quando viveva ancora a Padova, ha contribuito attivamente alla fondazione di numerose
testate, come Il Mattino di Padova e La Tribuna di Treviso. Tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta ha ideato e condotto programmi settimanali d'informazione per le televisioni locali venete TelEuropa e TelePadova. Il suo Blog,
“ArruotaLibera”, è uno dei più seguiti e commentati della rete, grazie ai
contenuti innovativi e allo stile graffiante, in grado di evidenziare punti di
vista sempre nuovi circa casi di cronaca, attualità e tematiche di rilevanza
sociale.
La
storia di Pino Nicotri e del suo ingresso nel mondo del giornalismo, avvincente
come una pellicola cinematografica, è la dimostrazione che il vero talento
plasma il destino di un individuo in modi spesso imprevedibili e inaspettati, segnandone
percorsi quasi mai programmati.
Fare
giornalismo, secondo Nicotri, non deve limitarsi alla sterile cronistoria di
fatti collegati dal solo filo dell’attualità, ma significa approfondire, con
spirito critico, dinamiche che vanno investigate e verificate per individuare
la notizia e, soprattutto, che devono essere raccontate a beneficio di chi si
aspetta di ascoltare una vera e propria storia.
È la potenza del soffio narrativo che
fa prendere vita a un’inchiesta giornalistica, proprio come la sconfinata
grandezza della fantasia permette di creare un romanzo, trovando, nelle
motivazioni profonde degli avvenimenti quotidiani, l’anima della Storia che i
posteri studieranno sui libri di scuola.
Giornalista, scrittore,
inviato; molto più di una voce fuori dal coro: le sue inchieste l’hanno resa
una vera e propria voce solista della
carta stampata e non solo. Facciamo un salto indietro nel tempo: quando e da
dove nasce la sua esigenza di scrivere? Cosa vuole comunicare?
Beh,
è una storia lunga. Se ha un po’ di pazienza, la racconto. Ho iniziato a
scrivere per denunciare quello che a me pareva fosse, e che si è poi assodato
esserlo davvero, un grave complotto interno ad alcuni apparati statali per
arginare le conquiste di quella che allora si chiamava classe operaia. Stiamo
parlando del 1969, quando una lunga serie di lotte - scioperi, manifestazioni e
agitazioni nazionali - costrinse gli industriali a fare sostanziose concessioni
contrattuali e salariali ai lavoratori. In autunno gli scioperi e le
manifestazioni furono tante e tali da far passare alla storia quella stagione
come “l’autunno caldo”. La sua conclusione positiva rese più equi e meno
arretrati i rapporti di lavoro e ampliò i diritti dei lavoratori, tanto che un
giornale inglese scrisse che l’Italia era finalmente entrata, sia pure
scalciando, nell’era moderna. Teniamo presente che l’anno precedente era stato
il “mitico” 1968, quando un’ondata di agitazioni, scioperi e occupazioni di
Università e scuole portò alla nascita del Movimento Studentesco e all’abbattimento
della separazione sociale tra studenti e lavoratori. In quel periodo nacque
anche il femminismo, che fece tabula rasa della sottomissione passiva delle
donne e annesse discriminazioni e diseguaglianze, a tutto vantaggio degli
uomini nel mondo del lavoro e nell’intera società.
Durante
l’estate del ’69 cominciarono, però, a esplodere bombe sui treni, alla fiera di
Milano e altrove: era un chiaro tentativo dell’estrema destra di intimidire il
vasto movimento dei lavoratori e degli studenti lavoratori seminando il panico
per spingere il governo e le forze armate a “mettere ordine nel Paese”, anche a
costo di un colpo di Stato. Finché il 12
dicembre di quell’anno irripetibile vennero fatte esplodere a Roma e a Milano
delle bombe, una delle quali, nella sede della Banca dell’Agricoltura di piazza
Fontana a Milano, uccise sul colpo tredici persone - altre 3 morirono in
seguito - e ne ferì più o meno gravemente altre ottantasette. La televisione e
i giornali scrissero che polizia e carabinieri affermavano che le bombe, anche
quella di piazza Fontana, erano state nascoste in borse di similpelle nera
prodotte in Germania dalla ditta Mossbach&Gruber, caratterizzate dal
disegno di una testa di gallo sulla chiusura di metallo, e che tali borse non
erano vendute in Italia. Un mio amico studente trevigiano di Ingegneria,
Giorgio Caniglia, con il quale dividevo un appartamento in pieno centro, aveva
proprio una borsa di quel tipo e, poiché l’aveva comprata a Padova, era
evidente che la notizia che le Mossbach&Gruber non fossero vendute in
Italia era falsa. Cosa ancora più grave, quando il mio amico mostrò la sua
borsa a un commissario della questura, si sentì dire che ormai a Milano già
sapevano chi era il colpevole. Venne infatti arrestato l’anarchico Pietro
Valpreda, un ballerino d’avanspettacolo, presentato da stampa e televisione - a
quell’epoca c’era solo la Rai e con un unico canale - come il mostro colpevole
della strage di piazza Fontana. Nacque così la “pista anarchica” alla quale
addossare la responsabilità degli attentati del 12 dicembre.
Era
chiaro che la pista fosse falsa e che gli anarchici fossero dei capri espiatori,
ma intuivo anche che sotto doveva esserci qualcosa di segreto e molto grave. In
più sapevo che a Padova e nel Veneto era attiva una cellula di neonazisti
guidata dal padovano Giorgio Franco Freda, del quale mi erano ben note la
pericolosità e le protezioni di cui godeva nella polizia, nei carabinieri e
nella magistratura. A quell’epoca, però, non pensavo certo al giornalismo,
inoltre non avevo ancora fatto il servizio militare di leva, che durava 18 mesi
e in gergo si chiamava “naia”, e temevo che se avessi “fatto casino” con la
notizia in mio possesso sarebbe potuto capitarmi per rappresaglia un qualche
“incidente” durante il servizio militare. Aspettai così di fare la “naia”,
iniziata a metà dell’anno successivo, il 1970, e, una volta congedato, mi
sposai, cambiai casa, perdendo un po’ di vista Giorgio Caniglia, e cominciai a
scrivere il libro “Il Silenzio di Stato” per raccontare sia la faccenda delle
borse vendute anche a Padova, sia le gesta del gruppo neonazista, comprese le
complicità di cui godeva nella polizia e nella magistratura.
Poiché
non pensavo affatto di fare il giornalista, ma di laurearmi sperando di fare il
fisico, il libro - edito da Sapere Edizioni - lo firmai non col mio nome, ma
come Comitato Antifascista Padovano, del quale comunque ero notoriamente
l’organizzatore e l’animatore. Firmai però la poesia di dedica a una coppia di
miei giovani amici, Paolo e Sandra, morti in un incidente d’auto. Per pagare meno
tasse, l’editore pubblicò il libro come fosse un numero del periodico quindicinale
InCo, iniziali di Informazione e Controinformazione, il cui direttore
responsabile era un sindacalista milanese, mi pare fosse della CISL, del quale
ora non ricordo il nome. Questo particolare mi permise in seguito di poter
presentare anche i singoli capitoli de “Il Silenzio di Stato” tra gli articoli
allegati alla domanda d'iscrizione come pubblicista all’Albo dei
Giornalisti.
La
notizia che io stavo scrivendo un libro che denunciava la possibile origine e
matrice padovana della strage di piazza Fontana, da molti ormai chiamata “la
Strage di Stato”, tramite la moglie di un docente universitario arrivò a Roma
all’orecchio di Mario Scialoja, un famoso inviato del settimanale L’Espresso,
impegnatissimo a indagare e scrivere sulle “piste nere”, cioè sui gruppi,
gruppetti e diramazioni varie dei neofascisti che, non solo in Italia,
alimentavano il clima di violenza servendosi del terrorismo. Mario piombò a
Padova, mi venne a cercare e mi convinse a rintracciare Giorgio Caniglia, che
raggiungemmo assieme a casa dei suoi a Treviso. Giorgio mi cedette la borsa,
anzi me la vendette per 5.000 lire dell’epoca, e io la regalai a Mario perché
la portasse al magistrato Gerardo D’Ambrosio che a Milano si occupava
dell’inchiesta sulla Strage di Stato.
Così
fu. D’Ambrosio ricevette dalle mani di Mario la borsa già il giorno dopo nel
suo ufficio a Palazzo di Giustizia. Pochi giorni dopo L’Espresso pubblicò un
clamoroso articolo di Mario intitolato “C’è un’orma nuova”, che cominciava a
demolire la “pista anarchica”, e D’Ambrosio inviò a Padova il maresciallo dei
carabinieri Sandro Munari alla ricerca dei negozi che nel ’69 vendevano le
Mossbach&Gruber. Fu così che Munari scoprì che la valigeria Al Duomo, di
piazza Duomo, pochi giorni prima della strage del 12 dicembre, aveva venduto
quattro o cinque borse Mossbah&Gruber a un unico acquirente e che la
commessa che gliele aveva vendute aveva in seguito identificato in Freda.
Munari scoprì anche che la commessa era corsa in questura sia per dire della
vendita delle borse, sia per dire che l’acquirente era Freda, quando ebbe modo
di vederne le foto sui giornali locali, perché era stato arrestato per
propaganda sovversiva nelle Forze Armate.
Ma
Munari scoprì pure che la questura di Padova, anziché trasmettere ai magistrati
quelle due testimonianze, le aveva fatte sparire! Nacque così un grande
scandalo, denunciato con più inchieste scoop da L’Espresso a firma di Mario
Scialoja, che generò il crollo totale e clamoroso della “pista anarchica”:
Valpreda venne scarcerato e partecipò a Padova alla presentazione del mio libro
nella grande sala della Gran Guardia in piazza dei Signori.
Ecco:
io sono entrato nel giornalismo così. Con l’esigenza e, date le circostanze,
anche l’obbligo di capire, investigare, documentare, far capire e denunciare
pubblicamente una storia decisamente grave. Grave e pericolosa. E poiché erano
comunque gli anni del terrorismo, anzi dei terrorismi, al plurale, perché a
quello “nero” delle bombe e della strage del ’69 si aggiunse come reazione
quello “rosso” degli estremisti di sinistra. La vocazione a osservare,
approfondire e investigare m’è rimasta: sempre vissuta come un dovere di
testimonianza anche civile, oltre che professionale e umana, mi ha permesso di
diventare prima collaboratore fisso de L’Espresso, poi suo giornalista in
pianta stabile e corrispondente dal Veneto di Repubblica, oltre che
collaboratore decisivo per la nascita dei giornali locali veneti Il Mattino di
Padova e La Tribuna di Treviso. Tanto che in Fisica non mi sono poi laureato.
Cronaca, politica,
attualità: il suo percorso l’ha portata ad approfondire tante storie di grande
interesse. Come sceglie i temi da trattare e a quale si sente particolarmente
legato, come professionista e come uomo?
I
temi spesso mi vengono proposti, non so se perché sono ritenuto un buon
investigatore o un buon narratore: spero per entrambe le cose assieme. Quando
li scelgo io, scelgo i casi controversi o le novità che intuisco modificheranno
nel bene e nel male gli usi e i costumi. Da quando ho un mio blog, prima a
L’Espresso e poi per conto mio, ho più libertà di scelta e spesso lascio che a
parlare siano gli altri, ospitandone gli articoli. E da quando ho preso anche a
leggere più libri, specie di storia e di saggistica, ho imparato anche a
scegliere temi suggeriti da tali letture. Per esempio, ci sarebbe molto da
scrivere sui veri rapporti tra l’Europa e quelli che io chiamo gli Orienti, al plurale, perché
comprendono il Vicino Oriente, il Medio Oriente e il lontano Oriente fino alla
Cina. La Via della Seta e la Via delle Spezie hanno reso, di fatto, quasi un
tutt’uno, fin dai tempi dei romani, lo spazio che va dall’Egitto alla Cina. Un
tutt’uno non omogeneo e, purtroppo, sempre teatro di guerre di un qualche tipo,
ma pur nelle divisioni e nelle guerre sempre molto ricco non solo di commerci
vari, quali principalmente quello delle spezie, ma anche di trasmissioni del
sapere scientifico, letterario, storico, e di credenze e fedi religiose. Senza
le spezie che vengono dall’Oriente l’Europa non avrebbe sapori e profumi. Senza
le scienze arrivate dagli Orienti, dai numeri arabi, ma in realtà indiani,
all’algebra e alla trigonometria, dall’astronomia alla cartografia, l’Europa
sarebbe ancora ferma all’abaco e al timone a remi. Ma con l’abaco non si
possono progettare le cupole delle cattedrali, né gli aerei o i computer e i
telefonini, e col timone a remi Cristoforo Colombo non avrebbe mai potuto
attraversare l’Atlantico, traversata resa possibile dall’arrivo dall’Oriente
anche del timone di coda.
Come
professionista e come uomo mi sento legato a mo’ di cordone ombelicale al tema
sfociato nella mia prima collaborazione con L’Espresso. Forse anche perché ero
giovane e quelli erano i formidabili anni fine ’60 e primi ’70. Ma sono molto
legato anche al tema della scomparsa di Emanuela Orlandi, al quale mi interesso
dal 2001 e sul quale ho scritto tre libri. Si tratta di un argomento che mi ha
insegnato una cosa che avevo già intuito, ma non compreso in modo così chiaro
ed evidente. Mi ha insegnato, cioè, che alla gente non interessa tanto la
verità, quanto il proprio bisogno di avere dei miti in cui credere, anche a
onta dell’evidenza. Questo è evidente, però, anche in politica, specie in
quella estera: si ragiona più con le viscere, che col cervello. Non a caso, poi,
ci sono disastri e tragedie su vasta scala, vedi le guerre per far scoppiare le
quali ognuno fa credere quello che più gli fa comodo e tutti credono nelle
frottole che gli si rifila.
È ancora possibile oggi,
secondo lei, fare della scrittura una professione a tempo pieno? Chi sono e che
ruolo svolgono nella nostra società i giornalisti? Che consiglio darebbe a chi
volesse seguire questo percorso?
Domande
difficili. La professione della scrittura a tempo pieno credo, e spero, sia e
sarà sempre possibile. Lo lascia credere e sperare il fatto che esiste fin da
quando è nata la scrittura, anche se non era ancora alfabetica. Certo oggi
tutti scrivono e si sentono giornalisti o scrittori grazia ai molti Social
Forum, da Facebook in giù. È una sorta di cortile o ballatoio condominiale
planetario, dove tutti si affacciano per dire o urlare qualcosa. Il giornalismo però è un’altra cosa: è la
capacità di investigare e capire i fatti, di verificare le notizie, e di creare
una sintesi da narrare con una storia. Fare il giornalista oggi è molto più
facile di una volta. Con la posta elettronica e i telefonini si possono fare
interviste in tempi più brevi, inviare gli articoli senza doverli dettare da un
telefono a gettone o inviarli con una telescrivente, magari dagli uffici delle
Poste Italiane, come dovevo fare io da Padova. Oggi tramite Google si possono
per esempio evitare lunghe ricerche nelle biblioteche, che non sempre erano
sotto casa. Anche se, purtroppo, ha preso piede, anche a causa dell’ingordigia
degli editori, l’usanza di muoversi poco dalla scrivania e di lavorare molto
col copia-incolla.
L’editoria
di libri e giornali si sposterà sempre più dal cartaceo all’elettronico, ma il
giornalismo e i giornali non sono morti e, anzi, sono stati irrobustiti
dall’abbandono del telegrafo a favore del telefono e dall’abbandono della
composizione col piombo a favore di quella cianografica. Il passaggio dagli
aerei a elica ai grandi jet, dalle navi a vela a quelle a motore, dai treni a
vapore a quelli elettrici e ora magnetici ha sempre comportato delle crisi,
anche occupazionali, ma poi ha partorito nuove professioni e nuove occupazioni.
Il
consiglio che mi sento di dare a chi oggi vuole fare il giornalista è di
studiare in una buona scuola o facoltà universitaria di giornalismo, di
imparare a menadito almeno l’inglese, ma anche una lingua straniera non
europea, e di fare viaggi, soste e stage all’estero. Anche in redazioni di
giornali, cartacei od online o televisivi. E ovviamente di leggere sempre molto,
dai romanzi, ai saggi, ai libri di Storia, in modo da poter inserire il valore
aggiunto di una migliore capacità personale di vedere, capire ed esporre le
notizie e le storie. Bisogna, inoltre, anche essere sempre pronti a emigrare,
cioè ad andare a lavorare all’estero: il mondo è davvero vasto e per chi ha
preparazione e volontà le occasioni non mancano.
Oggi
il sistema dei partiti è in crisi ed è in crisi il giornalismo italiano perché
ha sempre fatto da sponda al sistema dei partiti, oltre che a quello
industriale e specie della grande industria, settori pure questi in forte
crisi, forse irreversibile, per la concorrenza crescente esercitata da quelli
che, fino a pochi decenni fa, erano considerati Terzo Mondo e che ora sono
colossi economici, e spesso anche militari, come la Cina, l’India e a seguire
il Brasile, la Turchia, l’Iran in arrivo, il Sud Africa. Ecco perché bisogna
saper guardare oltre i confini nazionali. E anche oltre quelli europei.
A coronamento della sua
carriera di autore, ha mai pensato di dedicarsi nuovamente alla narrativa? Che
cosa le piacerebbe scrivere?
Nel
1994 ho scritto “Vicolo Scandenberg”, Marsilio Editore, che è rimasto finora il
mio primo e unico romanzo. Vorrei riscriverlo. E scrivere un libro su alcune
mie esperienze, anche drammatiche, che ho dovuto vivere a fine anni ’70, a
partire da quando nella seconda metà del ’78 ho aiutato Giorgio Mondadori a creare
i quotidiani Il Mattino di Padova e la Tribuna di Treviso. Giornali che poi
Mondadori ha ceduto al Gruppo Editoriale L'Espresso.
A cosa sta lavorando
attualmente? Ci racconti quali sono i suoi progetti per il futuro.
Attualmente
sto seguendo gli ultimi fuochi del mistero Orlandi, che il malogiornalismo ha trasformato in show a tutto vantaggio di
audience e vendite di copie, ma a tutto svantaggio della possibilità di capire
cosa sia davvero successo a Emanuela e per responsabilità di chi. E poi sto cercando
di mettere ordine nelle mie carte e nella mia biblioteca per poter finalmente
mandare avanti e spero anche portare a compimento il lavoro sulla vera storia
dell’Europa e dei suoi rapporti con gli Orienti, lavoro che ho iniziato a metà
anni ’90 e interrotto nel 2001 a causa del mio iniziare a interessarmi al caso
Orlandi. Insomma,
sto cercando di capire cosa fare da grande...
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