Ogni storia ha il proprio linguaggio.
Anche un romanzo, se decodificato nel modo giusto, rivela di essere ben più di
ortografia, sintassi e suggestione. In un momento di grande cambiamento del
mondo dell’Editoria come quello che stiamo vivendo, chiunque desideri diventare
uno scrittore deve abituarsi all’idea che non
ci sono più i lettori di una volta. E non è affatto un modo di dire. Cosa
si aspettano, dunque, i lettori 2.0?
Quelli cresciuti a merendine e videogiochi, per intenderci, in grado, ormai, di
utilizzare lo smartphone ben prima di
imparare l’alfabeto? A queste e a molte altre domande ha risposto Roberto Genovesi, giornalista,
sceneggiatore, autore televisivo e scrittore di romanzi storici e non solo, in
grado di entusiasmare, grazie al suo stile ammaliante e alle sue tecniche
innovative, generazioni sempre nuove di lettori. Esperto di videogiochi e
Docente di Teoria e Tecnica dei linguaggi interattivi e cross-mediali in varie
Università, Roberto Genovesi riesce non solo a far vivere i suoi personaggi
anche fuori dalle pagine dei libri, ma anche e soprattutto a far entrare i
lettori nella storia. Che si tratti di Roma Imperiale, Germania Nazista o
Londra Vittoriana, la lettura di uno dei romanzi di Genovesi è emozionante proprio
come un viaggio, coinvolgente come un videogame e avvincente come una serie TV.
A comporre questa miscela di grande efficacia, oltre alle storie interessanti e
ai personaggi credibili, contribuisce una struttura solida, costruita con
grande attenzione, che ha nella semplicità delle descrizioni e nell’immediatezza
dei dialoghi le sue colonne portanti, sfruttando la potenza narrativa di alcune
tecniche che rendono il ritmo sempre più incalzante, come continui cambi di
punto di vista, molti simili agli stacchi di un’inquadratura in una fiction TV.
E così, pagina dopo pagina, un libro non solo si divora, ma sembra proprio di vederlo, una scena dopo l’altra, senza
rinunciare al piacere della lettura di testi di grande qualità. A tutto ciò
bisogna aggiungere l’impatto social che
ogni nuovo libro di Genovesi ha, grazie alla grande attenzione dell’autore per
questi nuovi mezzi di comunicazione, in grado di rendere virale ogni contenuto. I Tweet e le pagine Facebook dedicate a ogni
romanzo, infatti, ne allungano
sorprendentemente la vita, attraverso la condivisione di foto, citazioni e talvolta
perfino di capitoli aggiuntivi che coinvolgono anche i lettori più esigenti, i
quali necessitano di stimoli sempre nuovi. Del resto la creatività è la vera
anima della scrittura, anche e soprattutto nell’era digitale.
Dall’Antica
Roma, alla Germania della Seconda Guerra Mondiale, passando per la Terrasanta
delle Crociate e la Londra di fine Ottocento, chi legge i tuoi romanzi ha la
fortuna di viaggiare nel tempo e nello spazio. Tu che scrittore sei: segui
l’ispirazione in qualunque momento della giornata o hai un metodo ben preciso
dal quale non puoi prescindere?
Le idee per un romanzo o per una storia,
più in generale, arrivano sempre quando meno te l’aspetti. Anzi, se ti metti
seduto alla scrivania con l’intento di creare, è il momento in cui non viene
fuori niente. Spesso le idee migliori arrivano dalla metabolizzazione di
immagini, letture, eventi accaduti anche molto tempo prima che sedimentano e
poi, filtrate dalle esperienze personali, si trasformano in un plot. Il lavoro più importante a monte
della stesura di un romanzo o di una sceneggiatura è quello di capire se ciò
che stai inventando è davvero originale e se valga la pena di raccontarlo.
Scrivere rimasticature non ha senso e non è rispettoso per i lettori. La
creazione di un romanzo, per quanto mi riguarda, si sviluppa in tre fasi. La
prima è quella della raccolta della documentazione storica. La seconda è quella
della scrittura di uno storyboard nel
quale viene delineata tutta la storia a grandi linee e i suoi passaggi
dettagliati con indicazione di tempi e location.
A quel punto il grosso del lavoro è fatto. La terza fase, quella della
scrittura del testo è la più semplice e consequenziale rispetto alle prime due.
La
maggior parte delle tue storie possono essere lette a tutte le età: qual è il
tuo segreto per riuscire a coinvolgere tanto efficacemente anche un pubblico di
giovani adulti? E come riesci a conciliare tutto ciò con le esigenze dei
lettori più grandi?
Io cerco di scrivere storie che abbiano
diversi livelli di lettura, ognuno dedicato a una fascia d’età diversa, ma in
linea di massima convergenti verso il target medio dei miei lettori che è
quello dei giovani adulti. Non sottovaluto la maturità dei ragazzi che oggi,
anche grazie alla frequentazione dei videogiochi, è molto più importante di
quella dei loro coetanei delle generazioni passate. Non puoi rappresentare il
male se non metti in evidenza il suo potere e le conseguenze delle sue azioni.
Se edulcorassi le mie storie i lettori si sentirebbero presi in giro.
È
ancora possibile oggi, secondo te, fare della scrittura una professione a tempo
pieno? Che consiglio daresti a chi, come te, volesse intraprendere questo
percorso?
Una risposta per volta. Alla prima domanda
rispondo che la situazione del mercato dell’editoria è sotto gli occhi di tutti,
ma è anche vero che i romanzi per bambini e ragazzi sono quelli che soffrono
meno di questa situazione. Io dico che non è solo questione di crisi ma anche
di come si approccia il lavoro di scrittura. Uno scrittore dovrebbe essere
sempre in grado di rimettere in discussione il suo stile e i contenuti delle
sue storie. La professione di autore non può essere un lavoro monotono e monotematico.
Quelli che dicono: “Io scrivo così e scrivo da sempre queste storie, ma
purtroppo è il mercato che ci penalizza tutti,” non hanno capito la bestia con la quale hanno a che fare. I
lettori di oggi non sono quelli di cinque o dieci anni fa. Senza scomodare
troppo l’abusato termine di ‘nativi digitali’, dobbiamo immaginare che il
potenziale lettore di oggi si aspetta qualcosa di diverso da un romanzo. Il
lettore, abituato a interagire con il racconto tramite i videogiochi, abituato
a comporre la storia attraverso i fumetti, abituato a correre dietro alla
storia attraverso i ritmi delle fiction televisive di ultima generazione, si
aspetta qualcosa di più di un racconto didascalico, ma esige un’esperienza
multisensoriale nuova. Se questa capacità creativa non è nelle corde
dell’autore è inutile scomodare il destino cinico e baro o fantomatici lettori
ignoranti e superficiali. Per farsi capire da qualcuno che parla una lingua
diversa, nuova bisogna scrivere usando quella lingua e tutti i suoi parametri.
Ci troviamo di fronte ad una progressiva mutazione
genetica dei linguaggi e non si torna più indietro.
E veniamo ai consigli. Per imparare a
scrivere bisogna prima di tutto imparare a leggere. E questo non significa
semplicemente riconoscere i vocaboli e il loro significato, ma riuscire a
comprendere la magia che si nasconde dietro al racconto. Bisogna lasciarsi
stupire. Solo provando direttamente lo stupore si è in grado di riprodurlo.
Leggere molto, possibilmente autori che prediligano stili diversi,
sperimentali, innovativi e poi scrivere. Provare e riprovare, non accontentarsi
della prima stesura, non fidarsi delle stroncature ma nemmeno dei grandi elogi.
Ma soprattutto, non cedere agli editori a pagamento. Non è importante pubblicare subito ma pubblicare qualcosa che poi
resti. Molti grandissimi autori hanno scritto solo uno o due romanzi nella
loro vita e molti grandissimi autori sono stati regolarmente rifiutati dalle
case editrici prima di pubblicare qualcosa. Di fronte a un rifiuto non bisogna
abbattersi o cedere alle lusinghe di chi ti dice che sei bravo perché punta al
portafogli. Gli editor delle case editrici per cui io lavoro sono molto
competenti e non è vero che i manoscritti inviati finiscono nel cestino. Alle
elementari avevo un’insegnante di italiano che un giorno mi disse che tutto
avrei potuto fare da grande, tranne che il giornalista e lo scrittore. Le due
professioni che poi ho finito per fare per vivere. Probabilmente a quei tempi
aveva ragione lei, ma io presi il suo parere come una sfida e probabilmente
dovrei ringraziala per ciò che mi disse allora.
Per
saper scrivere bene occorre, certamente, leggere tanto: che libro c’è sul tuo comodino? E se, come autore, potessi appropriarti del romanzo scritto da un
collega del passato, quale sarebbe?
La mia esperienza quotidiana con la
creatività altrui è multimediale. Leggo anche fino a cinque romanzi
contemporaneamente ma allo stesso tempo leggo fumetti, divoro serie tv – anche
in questo caso più di una alla volta – mi lascio coinvolgere in giochi di ruolo
online. Cerco sempre di cogliere gli elementi comuni di questi tipi di
scrittura apparentemente diversi, ma sempre più convergenti. Quanto alla
appropriazione non parlerei tanto di titoli quanto di stili. Io adoro Michael
Moorcock, Tim Willocks, David Foster Wallace, Murakami Haruki e, più in
generale, tutti quegli autori che fanno della struttura della narrazione
l’architrave che rende le loro storie inimitabili e ti fanno capire che solo
nel modo che loro hanno scelto per raccontarle potevano essere effettivamente
raccontate. E poi due colonne portanti come José Saramago e Marcel Proust che
stanno lì in alto, dove nessuno può raggiungerli. Figuriamoci io.
A
cosa stai lavorando attualmente? Ci sono nuovi libri in arrivo? Raccontaci
quali sono i tuoi progetti per il futuro.
È in uscita l’intera saga della Legio
Occulta in unico volume. Inoltre sto portando avanti due progetti diversi. Un
romanzo thriller di ambientazione storica moderna e una nuova saga ambientata
nella Roma di Traiano nella quale sovrappongo ad un impianto storico rigoroso
la mia consueta visione allucinata e distorta dei fatti realmente accaduti.
Collocarla in un filone storico horror sarebbe eccessivo, ma le suggestioni
fantastiche per uno come me che viene dalla narrativa di genere sono
inevitabili. Il primo volume della trilogia uscirà prima dell’estate 2016 per
Newton Compton che è il mio editore per i romanzi storici. Gli altri due a
cadenza regolare nei mesi successivi.
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