Massimo
Gerosa è un uomo come tanti. Ha una bella moglie, una figlia appena maggiorenne
e un lavoro prestigioso che gli garantisce un tenore di vita elevato e
soddisfacente. Almeno finché la Comor, la multinazionale informatica per cui
lavora, lo licenzia da un giorno all’altro, senza una motivazione specifica. La
crisi economica strozza il Paese e le aziende si stanno attrezzando eliminando
ciò di cui credono di poter fare a meno: il personale dirigenziale più
qualificato. Da quel momento la vita di Massimo Gerosa cambia radicalmente e
ogni prospettiva si capovolge, aprendo scenari drammatici. Il matrimonio
naufraga in modo irreparabile, tanto che la moglie lo caccia di casa e perfino
la figlia, Cristina, che inizialmente tenta di stare accanto al padre, lo
abbandona, non sentendosi compresa da un uomo ormai troppo distante da
chiunque. Dopo mesi vissuti passando nottate in bianco tra alberghi di
quart’ordine e la sua auto, Massimo diventa il guardiano notturno della sede di
un movimento politico di estrema destra, del quale, col tempo, sposa
l’ideologia nazionalista e estremamente razzista. Nella sua profonda
solitudine, Massimo arriva perfino a progettare un delirante attentato contro
Roberto Modigliano, prossimo Ministro dell’Economia e esponente di una ricca
famiglia ebrea del milanese, che egli considera la causa principale della sua
rovina. Ma nella Milano da bere nulla
è come sembra e anche Modigliano nasconde un terribile segreto che Massimo porterà
inaspettatamente alla luce.
“Era la Milano da bere”,
Fratelli Frilli Editori, di Alessandro Bastasi, è un romanzo crudo
e diretto, dallo stile tagliente e asciutto, che racconta la vera e propria
‘morte civile’ di un uomo che, perdendo il proprio lavoro a causa della crisi
economica che attanaglia l’Italia, vede svanire tutto quello che ha costruito.
Ciò che colpisce, oltre all’attualità della storia magistralmente raccontata
dall’autore, è il profondo senso di solitudine che circonda tutti i personaggi
del romanzo, in particolar modo il protagonista, proprio come la fitta nebbia
che ricopre perfino il lusso della cosiddetta Milano da bere. Anche il rapporto
tra Massimo e Cristina, padre e figlia, è logorato dalla mancanza di attenzione
e di conoscenza reciproca, come se entrambi si trovassero su una giostra
impazzita, dalla quale non possono più scendere. Un noir che, alle tinte del
thriller metropolitano, unisce l’introspezione del giallo psicologico, fino a
un epilogo amaro e sorprendente.
“Era la Milano da bere”,
Fratelli Frilli Editori, è uno spaccato duro e coraggioso della nostra società,
che racconta l’annientamento di un uomo come tanti a causa della crisi, non
solo economica, che ci attanaglia. Raccontaci la genesi di questo romanzo: cosa ti ha ispirato durante la stesura?
Ho concepito il romanzo
nel pieno della crisi iniziata nel 2008, quando le cronache raccontavano di
lavoratori sopra i tetti, cassa integrazione e licenziamenti a più non posso,
manager finiti a dimorare in macchina e in coda alle mense di carità per un
piatto di minestra. Poi, agli inizi del 2013, leggo di intercettazioni nei
confronti di esponenti di Casa Pound a Napoli, della violenza e
dell’antisemitismo che li caratterizzano e ho messo insieme le due cose: certi effetti apparentemente inconcepibili, quali l'adesione acritica a un movimento di estrema destra, trovano una genesi ben comprensibile e prevedibile nella crisi economica, morale, sociale e culturale del Paese.
Sul bisogno di scrivere
cito una frase di Emil Cioran che mi ha sempre colpito e che sento
profondamente mia: "Il mio intento, quando scrivo un libro, è di svegliare qualcuno, di fustigarlo. Poiché i libri che ho scritto sono nati dai miei malesseri, per non dire dalle mie sofferenze, è proprio questo che devono trasmettere in qualche maniera al lettore. No, non mi piacciono i libri che si leggono come si legge un giornale: un libro deve sconvolgere tutto, rimettere tutto in discussione." Non
ho un vero e proprio metodo collaudato. Lo spunto per un romanzo mi può nascere
in qualsiasi momento, da un articolo di giornale, da una chiacchierata con un
amico, dall’immagine di un viso triste di un uomo o di una donna incrociati per
strada. Da quel momento qualcosa mi ronza in testa e comincio ad abbozzare una
storia, a costruire dei personaggi, a buttar giù una traccia. Poi comincio e, procedendo
con la scrittura, i personaggi acquistano corpo, prendono le loro strade, tanto
che spesso devo tornare indietro e riscrivere interi pezzi coerenti con nuove
caratteristiche e nuove vicende, in un procedimento che a volte è semplice,
altre volte lungo e complesso. Soprattutto quando personaggi che non avevo
previsto si intrufolano nella storia.
Chi è Massimo Gerosa, il
protagonista del tuo romanzo? Come lo definiresti e che rapporti ha con le
persone che lo circondano, in particolare con la figlia, Cristina? Come
delinei, in generale, i personaggi delle tue storie?
Chi è Massimo
Gerosa? È il frutto degli anni Ottanta, per cominciare, gli anni nei quali si è
imposta l’egemonia dell’ideologia individualista, contrapposta a quella
collettivista del decennio precedente. Gli anni nei quali l’obiettivo di una
vita era diventato vincere, raggiungere il successo a qualunque costo, anni nei
quali sempre di più l’idolo da venerare diventava il denaro, a scapito della cultura,
della solidarietà, dell’etica civile. Era la Milano da bere, appunto. Massimo Gerosa, di umile origine, ha
sposato in pieno il mito arrivista del neoliberismo ed è questo che cerca di
inculcare nella mente della figlia Cristina. La quale di fronte ai “valori”
della sua famiglia ha un atteggiamento comprensibilmente ondivago, in certi
momenti ne è attratta, in altri le procurano un forte disagio, che né il padre
né la madre riescono a comprendere. Non c’è dialogo, tra di loro. Nemmeno dopo
che il padre è stato licenziato e cacciato di casa dalla moglie.
“Perché non è mai venuto a parlarmi?”, dice Cristina a un certo
punto del romanzo, “A raccontarmi quello
che era successo, quello che pensava? Darmi calore, vicinanza, fiducia. Nulla,
no, non esistevo proprio”. E poi: “Soltanto
dopo, dopo che se n’è andato, quando si sentiva triste e solo nell’albergo da
quattro soldi dov’era finito, qualche volta mi chiamava al telefono e mi
invitava a cena, e io accettavo, perché speravo che finalmente mi avrebbe aperto
il cuore, e invece niente, anche allora soltanto un ‘come stai’, ‘che gente
frequenti’ e ‘cosa pensi di fare da grande’, come se fossi ancora una bambina”.
Cristina è la “bambina” che lui avrebbe voluto plasmare a sua immagine e
somiglianza, e per questo non badava a spese, la migliore scuola, gli ambienti
più esclusivi, la prospettiva di una laurea alla Bocconi. Fino alla caduta e
alla discesa all’inferno, dal quale crede di risalire aderendo acriticamente a
un gruppo di destra eversiva.
Per quanto riguarda
i rapporti di Massimo con gli altri personaggi quello che nel romanzo ho
cercato di far emergere è soprattutto la solitudine nella quale vivono i
protagonisti. Che ho voluto inserire nella struttura stessa del romanzo, dove
le vicende dei personaggi sono percorsi narrativi per lo più paralleli, che qualche
volta si incrociano, sì, ma solo apparentemente, solo per sfiorarsi, senza
entrare mai in un rapporto profondo, esistenziale. Ognuno per sé, in una lotta
di tutti contro tutti.
Circa il mio modo
di delineare i personaggi, prima di tutto li abbozzo, poi loro prendono forma,
consistenza, carattere durante la stesura, quasi autonomamente. Non riesco a
farmi una tabellina in cui incasellare fin dall’inizio le loro caratteristiche.
Sono loro stessi che spesso mi fanno capire chi sono veramente, ad esempio
quando mi trovo di fronte a uno snodo e devo decidere quale strada prendere.
I tuoi libri sono
impregnati di attualità, pur conservando una struttura simile a una pièce
teatrale che li rende originali, nel loro stile diretto e scorrevole. Cosa vuoi
comunicare ai tuoi lettori? Il tuo passato di attore teatrale ha influenzato il
tuo percorso di scrittore?
Ai
miei lettori vorrei raccontare l’attualità mostrando il lato oscuro della
società in cui sono immersi, dar loro un punto di vista diverso. Senza però
voler consegnare delle soluzioni, non è compito mio in quanto autore. Sotto
questo aspetto, credo che ci sia stata un’evoluzione importante dai miei primi
romanzi. Cerco sempre di più di limitarmi a raccontare delle storie, in modo il
più possibile asciutto e secco, senza fronzoli, senza compiacimenti letterari. Il
“messaggio” deve emergere dalla scrittura, da come racconto la storia, dalle
azioni dei personaggi, dai dialoghi, senza imposizioni personali del narratore.
Ecco, in questo approccio forse conta il mio passato di attore, perché ogni
volta cerco di raffigurarmi i personaggi sulla scena, cerco di catturare i loro
tic, le loro movenze, il loro modo di parlare, tanto che spesso leggo a voce
alta un pezzo per vedere l’effetto che fa. E l’effetto che farebbe in scena.
A cosa stai lavorando
attualmente? Raccontaci quali sono i tuoi programmi per il futuro.
Ho
terminato in prima stesura un nuovo romanzo, che ha solo bisogno
dell’approvazione dell’editore per tornare a lavorarci sopra, in un confronto
sia con l’editore sia con alcune persone di cui “mi fido”, i miei lettori-beta, se così li posso chiamare.
E poi staremo a vedere, in testa già mi frulla qualche idea…
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