Foto di Donata Cucchi |
Un incontro fortuito alla macchinetta del
caffè della piscina dove si tiene in allenamento dà il via alla seconda
indagine di Galeazzo Trebbi, poliziotto in pensione, ma investigatore privato
per necessità che sembra proprio non poter appendere
il distintivo al chiodo. Inizia così “Bologna
non c’è più”, il nuovo romanzo di Massimo
Fagnoni, edito da Fratelli Frilli
Editori. L’autore torna a emozionarci e a farci sorridere grazie all’acume
e alla graffiante personalità del suo protagonista, Galeazzo Trebbi, costretto,
questa volta, a fare i conti con un’indagine più complessa di quel che appare,
che lo porterà a confrontarsi col recente passato del nostro Paese. Il suo,
infatti, è un viaggio attraverso i gruppi di estrema sinistra più ai margini
della sua Bologna, ma anche fra le inquietudini e le frustrazioni dei
cosiddetti nuovi poveri, famiglie che, prima di quest’asfissiante crisi che ci
attanaglia, non avevano alcun problema ad arrivare alla fine del mese e che,
oggi, sono costrette a vivere alla giornata.
In un colorato mosaico di personaggi di
ogni tipo, Massimo Fagnoni delinea una Bologna squisitamente provinciale,
eppure piena di slancio verso un futuro di obbligata globalizzazione delle
diverse culture che la abitano, con lo spettro del terrorismo sullo sfondo. Un
terrorismo che non ha i colori dei paesi arabi, ma che affonda le radici nella
Storia recente del nostro Paese e che alcuni, nutriti dall’insoddisfazione e
dalla voglia di riscatto, sembrano voler riportare alla ribalta, costi quel che
costi. Ecco, quindi, che Trebbi, assunto da una ricca famiglia bolognese per
proteggerne il rampollo, dovrà fare i conti con un garbuglio che, anche grazie
al fedele amico, il Commissario Guerra, riuscirà a essere sbrogliato sul filo
del rasoio, tra le strade di una Bologna tinta di nero.
“Bologna
non c’è più”, Fratelli Frilli Editori, è una nuova indagine di Galeazzo Trebbi,
nel quale il protagonista deve fare i conti col passato. Raccontaci la genesi di questo romanzo: cosa ti ha
ispirato durante la stesura?
Sono cresciuto negli anni Settanta, quando
rapirono Aldo Moro avevo diciotto anni e ricordo che, quel tragico giorno, c’era
gente gioiosa lungo le scale del mio liceo. All’epoca il terrorismo era un
miscuglio di confuse ideologie vissute dai giovani dell'estrema sinistra come
una sorta di fascinazione irresistibile.
Allora era in atto una profonda crisi
socio economica nel nostro Paese non dissimile da quella attuale. La differenza,
oggi, è che la precarietà e la miseria aggrediscono il ceto medio, i dipendenti
pubblici, i giovani. L’idea di questo romanzo è nata proprio dalla frustrazione
di chi, per lavorare, è costretto a subire e ad abbassare la testa e anche dal
desiderio di fare una riflessione disincantata sul terrorismo nostrano.
Da
dove nasce la tua esigenza di scrivere? Che autore sei: segui l’ispirazione in
qualunque momento della giornata o hai un metodo collaudato al quale non puoi
rinunciare?
Parafrasando la risposta di Paolo Giordano
a un’intervista, spesso la scrittura ti travolge, ti costringe a rivedere
scelte di vita, sia professionali, sia esistenziali. A volte la scrittura creativa
è una sorta di compulsione: si scrive per scoprire qualcosa, si scrive per
raccontare al mondo la propria idea di realtà, si scrive per passione, per
esorcizzare una paura, per insoddisfazione, lo scrittore è spesso un “frustrato”.
Per quanto riguarda l'ispirazione, non ho
momenti precisi della giornata nei quali mi metto a scrivere e non ho un
metodo, l'unica cosa che posso dirti è che penso sempre a ciò che sto scrivendo,
immagino le scene e le “mastico”, le rimugino dentro, poi, quando ho voglia o
tempo, le scrivo.
Chi
è Galeazzo Trebbi, il protagonista del tuo romanzo? Come lo definiresti e, in
generale, come delinei i personaggi delle tue storie?
Trebbi è un poliziotto in pensione, un investigatore
privato più per necessità che per scelta. Galeazzo è un vedovo
cinquantasettenne, con una figlia disabile e alcuni scheletri nell'armadio. Era
un bravo poliziotto e adesso è un bravo investigatore, cinico, sovrappeso, con
una personale idea di giustizia e amante della buona letteratura. Lui nasce dalle mie letture, dal mio amore
per il noir metropolitano, nel suo personaggio c'è sicuramente l'hard boiled
americano, ma anche qualcosa di Simenon, e, perché no, qualche spunto tratto da
Camilleri. Ma, alla fine, ci sono soprattutto io con le mie personali idee
relativamente al nero e ai lati oscuri di Bologna.
Nei
tuoi libri l’attualità e, in particolar modo Bologna, la tua città, occupano un
ruolo di primo piano: come mai? Cosa vuoi comunicare?
Bologna è la mia città, il luogo che
conosco meglio, crocevia di tanta cultura, di tanta vita mia e italiana in
genere. È una città fantastica nella sua dimensione provinciale, ma, nello
stesso tempo, una finestra aperta sull'Europa. Io l'ho molto amata e, a tratti,
anche odiata. Invecchiando sto riscoprendola e sto cercando di convivere con le
sue contraddizioni. In realtà non voglio comunicare niente, ma solo raccontare
delle storie, sarà il lettore a decidere cosa conservare dei miei racconti.
È
ancora possibile, secondo te, fare della scrittura una professione a tempo
pieno? Facciamo un bilancio del tuo percorso personale: che ostacoli hai
incontrato, o incontri ancora oggi, e cosa ti auguri per il tuo futuro?
Io scrivo da circa dieci anni e pubblico
da cinque. Non ho incontrato particolari ostacoli nel mio percorso, ma questo
dipende sempre da quale obiettivi ci si prefigge. Attualmente pubblico con
quattro case editrici, due locali, una milanese e una genovese. Sono tutte case
editrici prestigiose, anche se non fanno parte del monopolio delle potenti,
sono oneste e lavorano molto bene.
Certo, mi piacerebbe pubblicare un giorno
con Mondadori, Einaudi, Rizzoli, coi grandi nomi, insomma, ma non sono sicuro
che mi garantirebbero una cura maggiore di quelle con le quali lavoro adesso.
Il problema degli scrittori è sempre la
distribuzione e soprattutto la promozione delle loro opere e su questo aspetto
devo lodare la Casa Editrice Fratelli Frilli, perché ci mettono davvero l'anima
nel fare pubblicità ai loro autori e li tutelano molto.
Se uno scrittore pensa che basti scrivere
un buon libro per poi riuscire a venderlo ha sbagliato settore.
In Italia credo che siano meno di dieci
gli scrittori che vivono unicamente di questo lavoro. Per me scrivere è
passione, sacrificio e richiede una buona dose di nevrosi e una sorta di smania,
di insoddisfazione che spinge sempre a cercare nuovi percorsi e io ringrazio il
cielo di avere un altro lavoro che mi permette di “campare” e di avere abbastanza
tempo libero per coltivare questa insana, potentissima passione.
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