lunedì 26 gennaio 2015

Fabio Sanvitale e Armando Palmegiani: investigatori d’eccezione in una Roma d’altri tempi


Quattro storie per non dormire direbbero gli esperti e noi, che di storie ce ne intendiamo, vi assicuriamo che il quarto libro della premiata ditta Fabio Sanvitale e Armando Palmegiani merita davvero di essere letto da tutti gli appassionati del crimine e della cronaca nera che hanno un particolare attaccamento per la Capitale. “Sangue sul Tevere. Storie di serial killer, valige e canari”, Sovera Edizioni, racconta, infatti, le storie di Cesare Serviatti, Vincenzo Teti, Pietro De Negri e dello Squartatore del ’76, vicende spesso poco note e sulle quali, senza dubbio, non si è detto proprio tutto, almeno fino alla stesura di questo libro.
Ma lasciamoci svelare dallo stesso Fabio Sanvitale, non solo scrittore, ma anche giornalista investigativo di grande esperienza, tutti i retroscena su questo testo, al quale ha contribuito anche il Professor Vincenzo Mastronardi, criminologo di grande fama.

Fabio, dopo tre libri che vertevano sulla trattazione di un unico caso, con Armando Palmegiani avete deciso di districarvi tra più storie con un unico denominatore comune: il fiume Tevere. Cosa vi ha spinto a dividervi in quattro? È forse un modo originale di raccontare la Roma più torbida del secolo appena trascorso?

Direi di no. Il punto di partenza è stato scoprire che a Roma, nell’ultimo secolo, hanno operato più depezzatori, cioè assassini che, dopo aver ucciso, hanno fatto a pezzi le loro vittime per vari motivi. Subito ci è balzata agli occhi la storia di Pietro De Negri, la più recente. E quella di Vincenzino Teti. Poi Armando s’è ricordato di Serviatti, una storia del tempo dei treni a carbone. E io ho tirato fuori dagli archivi della memoria quella dello Squartatore del ’76, che viene dalla mia infanzia. Ci sarebbe da chiedersi che infanzia ho avuto.

Trattandosi di casi di cronaca l’analisi e lo studio preliminare degli atti sono, senza dubbio, fondamentali, sia prima, sia durante la stesura del libro. Quanto tempo occupa, di solito, questa ricerca? E, in particolare, quale caso trattato in “Sangue sul Tevere” ha richiesto maggiormente le tue energie?

Trovare gli atti, esaminarli: ci vogliono settimane. Parliamo di migliaia e migliaia di pagine per ogni caso. Poi bisogna leggere tutto, pagina per pagina. Quindi mesi di lavoro minuzioso. Ma non basta, bisogna cercare altre fonti: i quotidiani, le biblioteche, altri libri, se esistono, nastri di vecchie trasmissioni tv, parlare con i parenti, i testimoni ancora viventi. Per questo è la vicenda del “canaro” che ci ha portato via più tempo: abbiamo scelto di confrontarci con la famiglia di Giancarlo Ricci, la vittima. Per raccontarla in modo diverso. E questo confronto è durato mesi.

Dal giornalismo, al teatro, passando per numerosi libri, la tua è una vita dedicata alla scrittura, con una predilezione particolare per la cronaca nera. Da dove nasce questa passione? E in quali altri progetti ti stai cimentando al momento?

Ho sempre saputo che da grande avrei scritto. Lo decisi quando andavo alle superiori, semplicemente perché mi piaceva immensamente vedere la parola svolgersi sul foglio. La parola è tutto: ferisce e placa. È la base della comunicazione e della sapienza. Davvero non si può chiedere di più a dei piccoli segni sulla carta! Io l’ho sperimentata al cinema, a teatro, nel giornalismo e non ho ancora finito di scoprirla. La nera è arrivata tardi, ma è stata lo sviluppo inevitabile della mia immensa passione per il mistero, che è nata già quando andavo alle medie. Io credo che il mistero sia una chiave di lettura straordinaria della realtà. Attualmente con Armando lavoriamo, come sempre, ad almeno un paio di progetti contemporaneamente, se non tre: lo facciamo sempre. E poi sto lavorando anche a due storie di tutt’altro genere, un giallo e una storia gialla, sì, ma più brillante, in tono lieve di commedia.

Al giorno d’oggi, complici anche il grande e il piccolo schermo, i casi di cronaca nera suscitano molto interesse. Che consiglio daresti a un giovane scrittore, che voglia fare di questa passione un mestiere, perché sia in grado di fare la differenza, realizzando un lavoro di qualità?

Ovviamente di partire dagli atti. Di perdere tempo a ricostruire i passaggi, i collegamenti, i dettagli. Poi di essere sempre aggiornato sull’evoluzione scientifica e di non accontentarsi di avere un’infarinatura. Di leggere una tonnellata di roba sulla nera, per distinguere le fonti buone da quelle cattive. Di prendersela quando la giustizia non c’è, ma anche di essere compassionevole verso le vittime e gli errori, perché in fondo siamo esseri umani e dobbiamo capire che il male è un gesto inevitabile del nostro vivere.

E ora immagina di avere una bacchetta magica: di quale libro scritto da un illustre collega del passato ti impossesseresti volentieri per farlo tuo in qualità di autore? Si tratta, forse, di un romanzo giallo?

No, se potessi ruberei ad Ann Rule il suo “Un estraneo al mio fianco”. Dico, quando ti ricapita di conoscere da vicino uno come Ted Bundy tanto da poterci scrivere sopra un libro così sconvolgente? Se fosse un giallo, uno qualunque di quelli di Mc Bain: ah, saper scrivere un decimo bene di come faceva lui…!

Già in occasione dell’uscita del precedente libro, “Omicidio a Piazza Bologna. Una storia di sicari, mandanti e servizi segreti”, Sovera Edizioni, avevamo avuto modo di farci i fatti di Armando Palmegiani, grande esperto della scena del crimine. Di seguito vi riproponiamo la recensione del testo e l’intervista rilasciataci lo scorso anno e notiamo con piacere che le promesse fatte sono state tutte mantenute!



“11 settembre 1958. Quando la signora Maria Teresa Viti, di professione domestica, suona più volte  il citofono di via Monaci 21, a Roma, e non riceve risposta, si preoccupa subito. La padrona di casa, Maria Martirano, 49 anni, moglie dell’imprenditore Giovanni Fenaroli, è una donna puntuale, precisa, a tratti maniacale. Non è mai successo che non le abbia risposto a quelle tre scampanellate concordate da sempre. Ma la Viti non sa che Maria Martirano non potrà più risponderle: la ritroveranno poco dopo strangolata sul pavimento della sua sempre impeccabile cucina all’americana. Questo è solo l’inizio di un giallo che ha tenuto col fiato sospeso l’Italia intera per molto tempo e sul quale ancora non è stato detto tutto. Fortunatamente a far luce sulla vicenda, giungendo a delle conclusioni che, naturalmente, non vi sveleremo, ci hanno pensato Fabio Sanvitale e Armando Palmegiani col loro libro “Omicidio a Piazza Bologna. Una storia di sicari, mandanti e servizi segreti”, pubblicato da Sovera Edizioni.
I protagonisti di questa intricata faccenda, subito in cima alla lista dei sospettati, sono l’Ingegner Giovanni Fenaroli, piccolo imprenditore in crisi e marito della vittima, e il giovane elettrotecnico Raoul Ghiani: il primo accusato di essere il mandante, il secondo l’esecutore materiale del delitto. In accordo con l’impianto accusatorio Fenaroli avrebbe incassato, in seguito alla morte, anche violenta, della moglie, una cospicua polizza assicurativa che gli avrebbe permesso di risollevare le sorti della sua ditta, e Ghiani avrebbe ricevuto una lauta ricompensa in denaro per i suoi servigi. Dopo un processo ricco di sorprese, nel giugno del 1961, i due vengono condannati in prima istanza all’ergastolo, pena esemplare, che viene confermata dalla Cassazione solo due anni dopo, nel 1963. Fenaroli muore in carcere nel 1975, mentre Ghiani, che si è sempre dichiarato innocente, ottiene la grazia nel 1983 dal Presidente Pertini e attualmente vive a Firenze. Le indagini e i processi ebbero un’enorme risonanza a livello mediatico, spaccando letteralmente l’opinione pubblica, come accade anche oggi, in innocentisti e colpevolisti, complici i continui colpi di scena, a partire da alcune perquisizioni dai risultati inaspettati, passando attraverso testimonianze fin troppo dettagliate per essere verosimili e coincidenze tanto incredibili da risultare insolite perfino per un romanzo, fino all’ipotesi di un rocambolesco coinvolgimento dei servizi segreti.
Sanvitale e Palmegiani ci accompagnano per mano attraverso tutta la vicenda, dal dettagliato sopralluogo della scena del crimine, fino alle fasi processuali, non tralasciando nessuna pista investigativa, battuta e non, da inquirenti e giudici. La narrazione è veloce e coinvolgente e gli autori non sono solo investigatori onniscienti, sapientemente distaccati, ma veri protagonisti della ricostruzione dei fatti, grazie a una tecnica tutta basata sulla vivacità dei dialoghi e sulla continua presenza di colpi di scena e flashback. Scorrevole, ma circostanziato, estremamente tecnico, ma piacevolmente colloquiale, questo libro, complice il ricco apparato di foto, piantine, documenti e pagine di giornale, si legge tutto d’un fiato, anche per la non comune capacità degli autori di ricostruire, con perizia e sufficiente maestria, l’affresco di un’epoca difficile e di un’Italia vorace perché ancora affamata, ma, tutto sommato, non molto diversa da quella di oggi. Di certo lo stile non è squisitamente narrativo e raffinato come ci hanno abituato altre coppie di scrittori del genere, che affollano gli scaffali delle librerie, ma la grande professionalità e il fiuto investigativo degli autori sono indiscutibili, e la competenza tecnica, che potrebbe risultare monotona è, in fin dei conti, ben stemperata dal tocco discorsivo e informale.”

Abbiamo domandato allo stesso Armando Palmegiani di confidarci, in esclusiva, le impressioni e i commenti sulla composizione di questo libro, che recensiamo in anteprima, e i progetti futuri di questa coppia di autori di talento.

Armando, raccontaci la genesi di questo libro: come nasce l’idea di approfondire le vicende legate a questo caso? E, più in generale, come scegli i casi sui quali concentrare la tua attenzione in vista della stesura di nuovo libro? Come organizzi il lavoro col tuo collega?

La scelta, ovviamente, la facciamo in due: con Fabio c’è un affiatamento che ha quasi dell’incredibile. Generalmente scegliamo storie dove c’è qualcosa da raccontare, e qualcosa da scoprire, insomma: casi sui quali non è stato detto ancora tutto. Per prima cosa acquisiamo e studiamo attentamente tutti gli atti e poi iniziamo a strutturare il libro nella maniera migliore possibile, per fare in modo di tenere alta l’attenzione del lettore fino all’ultima pagina. Ciò che scrive uno è sempre riletto e integrato dall’altro e l’intera stesura avviene in totale collaborazione, fino alla correzione delle bozze prima della stampa.

“Omicidio a Piazza Bologna” è l’ultimo libro di una fortunata serie scritta in collaborazione col giornalista investigativo Fabio Sanvitale: come vi siete incontrati e cosa vi ha spinto a unire le vostre forze con così proficui risultati, soprattutto per la gioia di noi lettori appassionati del brivido?

Ci siamo conosciuti proprio per il caso Fenaroli: Fabio stava preparando una recita teatrale sul caso, un monologo, e aveva saputo da un comune amico della mia passione per la cronaca nera e in particolare per questo caso così contorto. Quasi subito è nata un’amicizia molto forte, fino a quando un giorno gli telefonai e gli proposi di scrivere un libro insieme sul caso Girolimoni, il primo di cui ci siamo occupati e che ha avuto un discreto successo. Fabio ne fu entusiasta e iniziammo a investigare insieme, accorgendoci subito che era nato un sodalizio di rara forza. Tutto scaturì proprio da quella telefonata e sono sicuro che andrà avanti ancora a lungo.

Svelaci in anteprima quali sono i vostri progetti per l’immediato futuro: state già studiando gli atti per fare luce su nuovi crimini? O magari state pensando di sperimentare generi differenti, strizzando l’occhio alla narrativa, per esempio?

Forse deluderò qualcuno, ma non credo che faremo insieme della narrativa, per il semplice fatto che abbiamo già tanto di quel lavoro in programma, che sarà difficile pensare a qualcosa di differente per un bel po’ di tempo! Prima di tutto abbiamo il prossimo libro in cantiere che, posso già anticiparvi, uscirà a novembre. Leggerete storie romane davvero incredibili! Poi abbiamo almeno altri quattro casi in fase trattazione, nel senso che abbiamo già avuto l’accesso agli atti processuali e stiamo acquisendo il materiale per iniziare a scrivere. Ecco, diciamo che anche noi lavoriamo in serie alcune volte, pur essendo bel lontani dall’essere seriali!

Sappiamo che Fabio è giornalista e scrittore, ma tu, in qualità di esperto delle scene del crimine, hai una formazione e un percorso professionale decisamente differenti: come nasce la tua passione per la scrittura? È un talento che coltivi da sempre o lo hai scoperto solo ultimamente?

Scrivere è una passione che ho scoperto da poco, ma che ho deciso di coltivare, anche se non mi reputo un vero scrittore. Mi piace parlare delle mie passioni e condividerle, così mi limito a tradurle in forma scritta, tutto qui. Il mio stentato italiano scritto è in realtà un italiano orale, scrivo come parlo, mi spiace per i lettori più esigenti, ma spero di comunicare così il mio coinvolgimento e di arrivare a più persone possibile, anche a chi potrebbe non possedere tutti gli strumenti tecnici per raccapezzarsi di fronte a casi che a volte sembrano grovigli impossibili da districare.

Ogni scrittore che si rispetti è senza dubbio un lettore attento: cosa ami leggere nel tempo libero? Dacci qualche consiglio di lettura.

Ovviamente mi piace molto leggere e amo spaziare da Jeffery Deaver a James Patterson, passando per Valerio Evangelisti e Stefano Benni e poi, naturalmente, molti saggi su casi di cronaca nera e, più in generale, sulla criminologia e sulla criminalistica.

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