La
scorsa primavera si è celebrato un triste anniversario: sono trascorsi
quarant’anni esatti dall’agguato di via Fani che ha dato inizio alla prigionia
di Aldo Moro, col doloroso epilogo noto a tutti, che ha stravolto gli equilibri
della scena politica italiana del tempo. Ma cosa sanno le generazioni più
giovani di questo statista unico nel suo genere? Se ne conoscono e se ne studiano a
sufficienza, ancora oggi, la vita e il pensiero? E si è riusciti a far
veramente luce sul mistero della sua morte e a comprendere le dinamiche storico-politiche
che l’hanno contrassegnata? A queste e a molte altre domande tenta di
rispondere Pino Nazio nel suo ultimo
libro, “Aldo Moro. La Guerra Fredda in
Italia”, Edizioni Ponte Sisto,
con la prefazione di David Sassoli.
Giornalista,
scrittore, autore televisivo e tra le colonne della trasmissione “Chi l’ha
visto?” in qualità di inviato per oltre dieci anni, Pino Nazio, in questo nuovo
libro, ha ripercorso, con la lucidità e la passione che lo contraddistinguono
come autore sempre alle prese coi misteri d’Italia sui quali c’è ancora molto
da dire, le tappe del pensiero di Aldo Moro e, in particolare, le fasi che ne
hanno caratterizzato il rapimento, la prigionia e, infine, il tragico
ritrovamento, oltre alle tortuose indagini che sono state compiute in seguito
per cercare di comprendere moventi, mandanti ed esecutori materiali dei fatti.
Oltre
all’impeccabile ricostruzione degli eventi, è estremamente interessante
l’analisi che l’autore fa degli equilibri politici che si sono sgretolati nel
nostro Paese in seguito a questo fatto di sangue che è ben più di un caso di
cronaca nera come gli altri. Infatti, dopo essersi occupato con successo di
molti casi ancora alla ribalta, come quello di Emanuela Orlandi, di Serena
Mollicone, di Yara Gambirasio e di Giuseppe Di Matteo, Pino Nazio, muovendosi
dal rapimento di Moro, dipinge con mano sicura il quadro storico-politico che
ha caratterizzato il clima della Guerra Fredda in Italia, facendo collegamenti
e confrontando episodi e testimonianze fondamentali per comprendere anche
l’attualità di oggi solo apparentemente lontana da certe dinamiche.
Una
lettura imperdibile, tra sociologia e giornalismo, per chi ama studiare la
Storia per capire e vivere il presente con consapevolezza e dignità.
A quarant’anni
dall’agguato di via Fani sono ancora molti i misteri che avvolgono il sequestro
e l’omicidio di uno dei più grandi statisti del Dopoguerra. Chi era Aldo Moro e
cosa rappresenta ancora oggi? Raccontaci la genesi del tuo libro “Aldo Moro. La
Guerra Fredda in Italia”, Edizioni Ponte Sisto.
Moro
è stato uno dei più importanti uomini politici del Dopoguerra, per due volte Presidente
del Consiglio in lunghi Governi –nella prima Repubblica in cui i dicasteri
spesso duravano pochi mesi- Ministro degli Esteri durante una delle fasi più
critiche della Guerra fredda, Ministro della Pubblica istruzione e della
Giustizia, prima Segretario e poi Presidente della DC. Ma, al di là di quanto
possa descrivere ogni singolo incarico, Moro nel Dopoguerra è stato il democristiano più influente - dopo Alcide De Gasperi e insieme ad Amintore Fanfani - fino alla sua tragica
morte. Oggi –e le celebrazioni per il quarantennale della sua scomparsa lo
hanno confermato- Moro è stato un uomo del confronto e del dialogo, anche
quando l’intesa comportava rischi altissimi come –in piena Guerra fredda-
l’apertura verso il Partito comunista italiano. Il mio libro nasce
dall’esigenza di fornire un quadro chiaro in cui è avvenuto il rapimento e la
morte dello Statista, delle luci e delle ombre che hanno avvolto la sua fine e
di squarciare il velo delle omertà e delle ipocrisie che ancora oggi aleggiano
intorno a quel corpo ritrovato in una Renault rossa in via Caetani.
La tua interessante
analisi collega una serie di fatti sanguinosi precedenti e successivi
all’assassinio di Moro, ricostruendo una rete oscura che tenta di mettere in
fila tutti i tasselli di quella che fu la Guerra Fredda nel nostro Paese. A
quali conclusioni sei giunto?
Moro
ha pagato il prezzo più alto per aver osato sfidare l’equilibrio che si era
creato dopo la Seconda Guerra Mondiale in cui all’Italia –considerato Paese
sconfitto- era stato destinato un ruolo subalterno e a sovranità limitata.
Dalle macerie in cui il Fascismo e Mussolini avevano trascinata l’Italia, il
Paese ha saputo risorgere entrando nel gruppo delle potenze economiche
planetarie senza che venissero rimossi i limiti imposti al Belpaese in materia
di Difesa, Politica estera e pieno sviluppo della democrazia: il PCI non
avrebbe dovuto mai varcare la soglia del governo. Moro, capendo che l’Italia si
sarebbe definitivamente emancipata solo aprendo le porte della “stanza dei
bottoni” ai comunisti italiani, rischiò il tutto per tutto e per questo venne
ucciso. Certo, i colpi che l’hanno trafitto sono stati esplosi da uomini delle
Brigate Rosse, ma chi ha permesso che lui venisse rapito e ucciso non erano né
in via Fani né in via Caetani. Basti pensare che nonostante fosse da tempo e
pubblicamente indicato come un bersaglio, che le Br avevano sparato e ucciso
molte volte prima di lui, gli è stata negata l’auto blindata che avrebbe
salvato la sua vita e quella degli agenti della sua scorta.
Quando si raccontano
fatti di cronaca ancora tanto sentiti, la condivisione e la divulgazione del
proprio lavoro è un aspetto importante tanto quanto la fase di ricerca e di
stesura del testo. Svelaci un episodio, un aneddoto, una storia che in questi
mesi di presentazioni al pubblico è rimasta particolarmente impressa nel tuo
cuore di professionista e di uomo.
Molti
sono gli episodi che hanno segnato questo libro e affondano le radici in un
lavoro di studio e di ricerca di una dozzina d’anni. Tra gli elementi che
ricordo ci sono sicuramente le pesanti minacce ricevute da uno dei brigatisti
condannati per il sequestro e l’uccisione di Moro perché avevo avuto la
sfrontatezza di ricordargli che esistono agli atti dei diversi processi
elementi tali da far supporre che dietro alle Br vi fosse un clima di
complicità da parte di servizi segreti, nazionali e internazionali, deviati e
non. Oramai è ben chiaro come, dove e quando le Br sono state non-ostacolate,
non-disturbate, non-fermate, nella loro “strategia di attacco al cuore dello
Stato” che aveva nel rapimento di Moro non tanto lo sviluppo di una “geometrica
potenza”, quanto una chiara politica di eliminazione di uno scomodo politico.
Infatti dopo il 9 maggio del 1978 non c’è stata la rivoluzione ma una pesante
sconfitta del movimento operaio, del Partito Comunista e la vittoria di un
blocco conservatore che ha dominato per quasi tre lustri l’Italia e che ha
avuto nel Caf –il patto Craxi-Andreotti-Forlani- la sua espressione più
autoritaria.
Prima come inviato della
trasmissione “Chi l’ha visto?”, poi come autore, ti sei sempre occupato di casi
di cronaca nera con profondità e delicatezza. Secondo la tua esperienza come
sarebbe più corretto approcciarsi a queste storie per far sì che anche
l’opinione pubblica possa dare il proprio catartico contributo alla risoluzione
dei casi? Dai un suggerimento a un giovane giornalista che voglia seguire le
tue orme.
Quando
ci sia avvia sul sentiero del giornalismo investigativo bisogna abbandonare due
suggestioni, sia quella “complottista” che vede dietro ogni evento una oscura
manovra di poteri occulti, sia quella “integrata” per cui la realtà, la verità
storica, non hanno mai delle spiegazioni che non siano le versioni ufficiali
delle autorità. Si deve evitare di credere che la tragedia dell’11 settembre
2001 sia frutto di un disegno dei servizi segreti americani e che un aereo non
è mai caduto sul Pentagono o che la morte di John Kennedy sia stata opera del
solo Lee Oswald. Non possiamo credere che noi siamo controllati da microchip
installati sottopelle, che i vaccini provochino l’autismo e che Totò Riina non
sapesse che esistesse una organizzazione criminale chiamata mafia. Il bravo
giornalista che vuole indagare la realtà –non solo la cronaca nera- deve
partire dai fatti, controllare e verificare il proprio lavoro, evitare facili
suggestioni e opinioni ritenute valide solo perché sostenute da molti. In una
epoca in cui dominano le fake-news e ogni possessore di smartphone è convinto
di essere un esperto tuttologo solo
perché ha accesso a Internet questo lavoro è particolarmente difficile. Per
quanto possibile il giornalista deve andare sul campo, lasciare il mouse e
usare le proprie gambe. Non ricordo un solo caso di cui mi sono occupato in cui
non abbia scoperto qualche novità, qualche rivelazione, qualche risvolto
nascosto, andando a verificare sul luogo del delitto, della tragedia,
dell’avvenimento.
A cosa stai lavorando
attualmente? Svelaci quali sono i tuoi progetti per il futuro.
Altri
libri, una pièce teatrale, e progetti per la Tv e la Rete. Il Paese attraversa
un momento molto difficile, c’è il rischio di un enorme passo indietro dal
punto di vista economico, sociale, dei diritti civili e della stessa
democrazia, provare a raccontare quello che accade senza qualcuno ti detti cosa
scrivere è un impegno a cui non voglio venire meno. Anche se questo ha un alto prezzo
da pagare. Nel mio lavoro non dimentico mai quel detto anglosassone che ricorda
al giornalista che per lui la notizia è come il denaro per un impiegato di
banca: non deve mai dimenticare che sta maneggiando qualcosa che non gli
appartiene.
Nessun commento:
Posta un commento